Riprendiamo il viaggio nell’evoluzione dei survival horror videoludici. Nella parte 2 avevamo coperto i videogiochi usciti fra il 1996 e il 2006. Se non hai letto le parti precedenti di questa storia del gaming horror le trovi qui e qui.
Resident Evil: dal 3.5 al 4
Situazioni come quella di Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (di cui si è parlato alla fine della parte 2) non sono state dei casi isolati. Per un certo periodo hanno rappresentato una svolta nella direzione complessiva del genere survival horror.
La saga di Resident Evil è in tal senso utilizzabile come termometro di questo più diffuso cambiamento. Dopo la prima uscita del 1996 si sono succeduti, a fianco di numerosi spin–off minori e varie riedizioni, Resident Evil 2 (Capcom, 1998), Resident Evil 3 (Capcom, 1999), Resident Evil Code: Veronica (Capcom, 2000) e Resident Evil 0 (Capcom, 2002). Fino a quest’ultimo episodio, che costituisce un prequel della saga, i cambiamenti che si sono susseguiti non hanno comportato stravolgimenti nella struttura di gioco, che rimane basato su telecamere fisse, combattimenti “di posizione” e un sistema di controllo di non semplice utilizzo. Il seguente Resident Evil 4 (Capcom, 2005) avrebbe dovuto, inizialmente, introdurre alcuni cambiamenti, fra cui un’ambientazione più legata ai racconti di fantasmi che a mutanti e laboratori segreti di ricerca.
Questo iniziale concept è stato poi scartato e Resident Evil 4 è stato ripensato quasi da zero. Della versione precedente, divenuta nota fra gli appassionati come Resident Evil 3.5, restano i filmati delle demo giocabili (come Terminator2032, 2007). In verità, il progetto originario di Resident Evil 4 risale a uno stadio ancor precedente. Bisogna tornare indietro al 1998, infatti. Esso, però, non andò a concretizzarsi in una demo giocabile, e lo spunto alla base fu poi utilizzato per un altro videogioco, Devil May Cry (Capcom, 2001) (Perry, 2001).
Si torni però a Resident Evil 3.5. Leon Kennedy (il protagonista), armato di torcia e pistola, percorre i corridoi di un antico castello in cui diversi oggetti, come bambole e armature, si muovono da sole nella miglior tradizione delle storie di fantasmi. Ed è proprio una presenza simil–ectoplasmatica il nemico che, con un uncino, aggredisce il protagonista. Tutto questo sarebbe stato comunque legato a un virus, del quale Leon sarebbe stato infetto (ed è da esso che sarebbero dipese le sue allucinazioni), ma simili elementi apparivano declinati in un contesto molto più gotico e fantasmatico.
Tuttavia, nel 2004, Capcom ha annunciato il radicale ripensamento del videogioco, presentando quello che è poi divenuto il Resident Evil 4 definitivo. Quest’ultimo è divenuto un titolo particolarmente influente e ha inserito elementi che sono stati successivamente recuperati da diversi altri videogiochi. Anche a distanza di circa un decennio, Resident Evil 4 è stato esplicitamente citato (dal designer Ricky Cambier in Prestia, 2013) come fonte di ispirazione per un prodotto di ampio successo come The Last of Us (Naughty Dog, 2013).
Le principali modifiche introdotte hanno ovviamente mutato anche la stessa serie di Resident Evil. In una retrospettiva legata all’uscita del sesto capitolo, veniva sottolineato – con toni enfatici ma non a torto – la radicale svolta impressa alla serie da Resident Evil 4, fondata in primo luogo su «The behind-the-shoulder camera angles, the more intelligent enemies, the action focus, the quick-time events» (Thomas, 2012).
La gestione della telecamera ha una considerevole centralità. Vengono abbandonate le inquadrature fisse, ancora presenti in Resident Evil 3.5, a favore di una following camera (Nitsche, 2008) posta alle spalle del protagonista e controllabile dal giocatore. Quando viene premuto il pulsante per mirare, però, la telecamera compie un automatico zoom in avanti e si posiziona appena dietro la spalla di Leon Kennedy. Questo zoom «reduces our field of vision and makes us less aware of what’s around» (Perron, 2005) impedendo per esempio di individuare un nemico che sta per colpire Leon alle spalle, azione possibile quando si ha il controllo della following camera. Si tratta peraltro di un gesto con implicazioni visuali e testuali non scontate: «spostare il proprio sguardo dinnanzi a uno schermo cinematografico non comporta una variazione interna al mondo diegetico, cambiare l’angolazione della propria prospettiva in un mondo digitale tridimensionale conduce invece a una mutazione narrativa e dialogica – all’interno del testo sta accadendo qualcosa che altrimenti non sarebbe accaduto. […] Lo spostamento dello sguardo si compie perciò all’interno di una terra di nessuno, in un cortocircuito che opera una sintesi tra testo e fuori-testo» (Caselli, 2018).
Questo sistema di telecamera e mira è in seguito ricomparso in diversi altri videogiochi, sia survival horror come Dead Space (Visceral Games, 2008) sia sparatutto con tratti horror/fantascientifici come Gears of War (Epic Games, 2007).
Un altro evidente cambiamento riguarda il citato “action focus” di questo quarto capitolo, in cui Leon Kennedy affronta una serie di rocambolesche situazioni, prende a calci i nemici e effettua azioni acrobatiche, rispetto alla rigidità dei precedenti capitoli. Molte di queste azioni sono peraltro legate a dei quick–time events, che richiedono la pressione di un determinato pulsante al momento giusto, durante un combattimento o all’interno di una cutscene. Anche i nemici vengono modificati per rispondere all’accresciuta reattività del protagonista, e gli zombie sono sostituiti dai ganados, esseri umani infetti, capaci di compiere un maggior numero di azioni – e più rapidamente – rispetto ai non morti.
Resident Evil 5: ladri di tombe in Africa
Simili elementi ritornano, ulteriormente sviluppati in chiave action, nel successivo Resident Evil 5, uscito nel 2009 e ambientato in un’immaginaria regione dell’Africa subsahariana. La collocazione di questo videogioco in un genere, il survival horror, che stava progressivamente mutando, è passata in secondo piano per l’attenzione dedicata al dibattito su razzismo e postcolonialismo in Resident Evil 5. Un dibattito nato in seno alla stampa di settore già prima dell’uscita del gioco, andato in calando dopo alcuni articoli che avevano in parte disinnescato la problematica, soprattutto Yin–Poole (2009). Nell’articolo viene intervistato il professor Glenn Bowman, antropologo verso l’università del Kent, il quale propone un differente punto di vista, in cui Resident Evil 5 può essere persino interpretato in ottica anti–coloniale.
Il discorso si è poi spostato nel dibattito accademico, dove è rimasto – con analisi di alterna efficacia e non senza qualche incomprensione – fino a oggi (Brock A., 2011; Geyser, Tshabalala, 2011; LaLone, 2014; Harrer, Pichlmair, 2015; Martin, 2018 e Harrer, 2018). Anche in queste fonti sono però leggibili, perlomeno in filigrana, i cambiamenti all’interno di Resident Evil e del survival horror. Si prenda, come esempio, la seguente descrizione del videogioco:
«As a Japanese horror survival console game, RE5 taps many conventions of the adventure formula […]. The white, muscular explorer Chris Redfield meets the barbaric other in a monolithic fantasy Africa. In the single-player version, Chris is the only playable character. In the two-player version, the co-protagonist is the mixed-race character Sheva Alomar, whose first and last appearance is in RE5. Gameplay-wise, RE5’s focus is on managing resources […]; foraging for treasure; and mastering surprise attacks by black; genetically modified black characters» (Harrer, 2018: 4-5).
La presenza dei tesori, indicata in questa citazione, merita peraltro una piccola parentesi. La questione, qui solo rapidamente accennata, è importante in un quadro più ampio sull’evoluzione del genere e, in questo caso, all’inserimento di oggetti acquistabili. Questa aggiunta, come sottolinea Chris Pruett (2009), ha generato diversi contrasti fra meccaniche di gioco e narrazione. Nel caso di Resident Evil 5, anche tralasciando la potenziale lettura colonialista (l’invasore bianco che depreda l’Africa) risulta perlomeno strano, se non problematico, che due persone impegnate in una missione umanitaria vadano a depredare antichi templi per vendere monili e acquistare armi più potenti. La meccanica con cui è stato implementato il negozio (e soprattutto la raccolta del denaro necessario per fare acquisti al suo interno) trasforma pertanto, seppur involontariamente, Chris e Sheva in due ladri di tombe.
Meccaniche di gioco ed estetiche si intersecano nuovamente. Il cambiamento non avviene solo nella scelta di un ambiente lontano dagli stilemi più tradizionali del gotico, ma sposta la cornice di riferimento nell’adventure, non inteso qui in senso esclusivamente videoludico.
Le tracce gotiche erano invece ancora rintracciabili in Resident Evil 4, nel castello di Salazar, specialmente nella parte in cui si controlla direttamente la giovane Ashley Graham, la quale nel resto del gioco, come NPC, segue Leon e si lascia da lui proteggere, in qualità di damsel in distress. Ashley, disarmata, si addentra in una delle parti più oscure del castello, ricca di trappole e nemici. Questa parte del gioco, oltre a ricollegarsi a una tradizione gotica di più lunga data, si avvicina ai survival horror con una protagonista costretta a fuggire perennemente dai suoi inseguitori, come Clock Tower e Haunting Ground. Sempre a proposito di ambientazioni, comunque, già altri capitoli della serie avevano presentato scenari meno immediatamente legati alla tradizione gotica, come la Raccoon City di Resident Evil 2.
Tornando al quinto episodio, Chris Redfield, già protagonista del primo Resident Evil insieme a Jill Valentine (era possibile selezionare uno dei due a inizio partita), torna come eroe muscolare, con un fisico da culturista che lo avvicina idealmente ai protagonisti di numerosi film d’azione. La descrizione di Chris Redfield come «l’eroe bianco e scolpito [che] abbatte (letteralmente!) a colpi di fucile una tribù di nativi armati di lance» (Bissell, 2012: 139), tralasciando la “questione coloniale”, è comunque decisamente lontana da quello che è stato l’immaginario dei precedenti survival horror.
Chris è accompagnato da Sheva Alomar (La quale può essere direttamente controllata dal giocatore ricominciando il gioco dopo averlo finito almeno una volta), un elemento, quest’ultimo, vicino alla precedente tradizione dei survival horror, in cui sono spesso presenti più protagonisti, che possono alternarsi nel corso del gioco o essere compresenti. Dai primi esempi come Sweet Home al vasto numero di protagonisti in giochi come Eternal Darkness: Sanity’s Requiem e Forbidden Siren, questa caratteristica è sempre stata piuttosto diffusa, ed è ricollegabile alla narrazione frammentata di certa letteratura gotica (Kirkland, 2011: 25).
Anche in Resident Evil questi protagonisti multipli sono apparsi in più occasioni e con interazioni differenti, dalla scelta del personaggio giocabile nel primo Resident Evil al rapporto protettivo fra Leon Kennedy e Ashley Graham in Resident Evil 4, passando per la cooperazione fra i due protagonisti di Resident Evil 0. La novità di Resident Evil 5 riguarda la modalità cooperativa, in cui due giocatori possono collaborare controllando un personaggio ciascuno, mentre nei casi precedenti un personaggio non era mai giocabile, o un singolo giocatore controllava a turno entrambi.
La compartecipazione all’impresa di due giocatori rischia di depauperare fortemente la natura orrorifica dell’esperienza ludica, un fattore che è stato citato anche dal direttore di produzione Yasuhiro Anpo in un’intervista: «introducendo le dinamiche dei due personaggi all’inizio avevamo paura di guastare l’atmosfera tetra classica della serie. Ma poi abbiamo pensato che non era altro che far entrare due persone di [sic] una casa stregata. Abbiamo lavorato parecchio sul binomio collaborazione e sopravvivenza. Credo che questa combinazione abbia più vantaggi che svantaggi» (in Price, Nicholson, 2009: 201).
Multiplayer, sparatorie e scazzottate
Fuga, visione celata (da nebbia, oscurità…), solitudine e altri elementi altri elementi che hanno caratterizzato il survival horror fino a questi anni sono stati sostituiti da multiplayer cooperativo, azione e rapidità. Il cambiamento non ha riguardato solo la serie di Resident Evil, ma ha rapidamente modificato tutto il genere. Già prima dell’uscita di Resident Evil 5,in molti avevano iniziato a interrogarsi sulla “morte” del survival horror, perlomeno nella sua forma tradizionale, sostituito da una nuova ondata di prodotti action–horror. Bernard Perron, nell’introduzione a un volume miscellaneo uscito fra l’annuncio e la commercializzazione di Resident Evil 5, riporta alcuni di questi commenti (2009: 7). Le posizioni di Leigh Alexander (2008), Jim Sterling (Stanton, 2008) e Shuman e Shaw (2008) offrono un punto di vista giornalistico, non accademico, sull’evoluzione del genere, ma nel talvolta colorito linguaggio con cui descrivono i fatti ciò che emerge è una visione molto lucida sul cambiamento in corso.
E la lista potrebbe essere ulteriormente ampliata con altri articoli non riportati da Perron, come quello di Thomas Cross in cui Resident Evil 5 e Dead Space si collocano in «in a new quadrant of the survival horror genre» (2009). Non sono dunque ritenuti estranei al genere, ma propongono qualcosa che resta al di fuori dei precedenti paradigmi del survival horror.
I personaggi diventano muscolosi lottatori professionisti, le sparatorie sostituiscono la ricerca della paura, le munizioni disponibili sono sempre più numerose e le ambientazioni – quando non vengono a loro volta modificate – sono solo un omaggio formale al passato. Le ragioni dietro a queste scelte, sottolinea Alexander (2008) sono in primo luogo economiche: in quegli anni nascono e si affermano nuove serie di sparatutto come Call of Duty e Halo, capaci di attirare casual e hardcore gamers, le cui vendite considerevoli impongono nuovi standard e spingono molti a lanciarsi in una sorta di “corsa all’oro” verso questo genere (Cavaleri, 2010).
Pruett (2008) offre ulteriori precisazioni in un suo commento all’articolo di Jim Sterling: «I don’t think it’s quite as simple as “players are used to Halo and Resident Evil 4 and won’t accept anything else.” I think a better answer is “publishers don’t believe that anything other than Halo and Rock Band will sell, and it costs so much to make games nowadays that there’s no way they are going to take a risk on a niche genre.” […] the market climate that next-gen consoles create is one of conservatism and risk-aversion. You can’t double and triple development costs while erasing the installed base without some creative casualties, and genres like survival horror sound like risky bets to most publishers».
Anche le ibridazioni come Resident Evil 4 (sparatutto e survival horror), Mass Effect (sparatutto e gioco di ruolo; Bioware, 2007) e Bioshock (sparatutto e avventura; Irrational Games, 2007) si rivelano dei successi commerciali, invogliando ulteriori team di sviluppo a tentare questa via, non sempre ottenendo il risultato sperato.
In primo luogo altre saghe già avviate, al pari di Resident Evil, tentano uno svecchiamento della loro impostazione, spesso tramite un rinnovato sistema di combattimento. L’Alone in the Dark del 2008 (Eden Games) inserisce diversi combattimenti, sessioni di guida, arrampicate e altri momenti dal forte sapore action. Silent Hill: Homecoming (Double Helix, 2008) mantiene ambientazioni e nemici simili ai suoi predecessori, ma aumenta i combattimenti e li rende più dinamici, con combo e schivate. Siren: Blood Curse, remake di Forbidden Siren, «retells the events of the first game with changes aimed at a broader audience; more combat–oriented levels and a mixed American/Japanese cast» (McCrea, 2009: 227).
I combattimenti più veloci, numerosi e dinamici citati in tutti questi casi sono peraltro anche resi possibili dall’evoluzione tecnologica, ma il loro inserimento in serie già avviate da alcuni anni genera una sorta di sfasamento, con doppia velocità. Perdurano meccaniche di gioco nate anni prima e magari derivate dalle limitazioni tecniche del tempo, affiancate però da inserimenti del decennio successivo, caratterizzato da differenti possibilità di programmazione e un diverso gusto nel pubblico.
Molti nuovi survival horror, nel frattempo, emergono con un focus più o meno forte sulle componenti action, come The Suffering (Surreal Software, 2004) e The Suffering: Ties that Bind (Surreal Software, 2005); Cold Fear; Condemned: Criminal Origins (Monolith Productions, 2005) e Dead Space. Quest’ultimo, in particolare, nasce con diverse impostazioni simili a Resident Evil 4, come il sistema di mira, con la differenza che Isaac Clarke (il protagonista del gioco) può anche camminare mentre spara. Questa piccola ma significativa differenza è sufficiente, secondo Pruett (2011), a rendere Resident Evil 4 molto più difficile di Dead Space. I successivi Dead Space 2 (Visceral Games, 2011) e soprattutto Dead Space 3 (Visceral Games, 2013) virano ulteriormente verso l’action, moltiplicando i nemici da affrontare contemporaneamente e aggiungendo una modalità cooperativa.
In questo terzo episodio vengono inoltre aggiunte delle microtransizioni legate alla modalità per giocatore singolo. È infatti possibile acquistare le risorse per il crafting delle armi tramite pacchetti da due o tre dollari. Questo inserimento, in un periodo di forte contestazione del modello (Švelch, 2017), ha inasprito le critiche verso il videogioco.
E, ancora, è possibile citare sparatutto in prima e terza persona con componenti horror più o meno centrali, come i già citati Gears of War e Bioshock, Clive Barker’s Jericho (Mercury Steam, 2007), F.E.A.R. – First Encounter Assault Recon (Monolith Productions, 2005), Darkwatch: Curse of the West (High Moon Studios, 2005) e Left 4 Dead (Valve, 2008). Quest’ultimo, peraltro, è fortemente cinematografico e incentrato sul multiplayer. Ogni partita, attraverso elementi generati casualmente e la «recitazione “automatica”» dei protagonisti e l’alta spettacolarizzazione può apparire come una sorta di film action–horror sempre differente (Zanoli, 2011: 44).
Le classificazioni di Chris Pruett
La prospettiva di una evoluzione action del survival horror è corretta, in termini generali, ma non delinea l’intero quadro del genere nel periodo di tempo considerato. Uno sguardo più ampio può essere recuperato dall’analisi di Chris Pruett (2012), veterano dell’industria videoludica ed esperto di videogiochi horror.
Andate a questa pagina e guardate i suoi piani cartesiani riassuntivi. Uno dei due assi è “easy-hard”, l’altro è “thinking-doing”. Nei quadranti egli ha collocato i vari videogiochi, seguendo di volta in volta suddivisioni di questo genere:
Fra gli horror prodotti in Giappone e in Occidente.
In base ai punteggi ottenuti dalla critica
In base all’anno di uscita.
Pur con il caveat da lui stesso fornito, relativo alla soggettività del posizionamento (specialmente per quanto riguarda l’asse della difficoltà) e alla non esaustività degli esempi forniti, la mappatura di Pruett rimane un utile strumento. In questo caso è utile osservare, in particolare, il quadrante doing/hard in basso a destra, dove è collocabile la maggior parte degli horror di carattere più action. I videogiochi qui presenti sono, in primo luogo, quasi tutti prodotti in Occidente, con l’eccezione di Resident Evil 4 (ma, come indicato in precedenza, è una serie che ha comunque sempre guardato verso modelli occidentali). È peraltro interessante osservare che i videogiochi giapponesi occupano i due estremi sull’asse della difficoltà. Il lato “easy” è quasi interamente occupato da loro, ma la punta più esterna del lato “hard” è occupata da Siren e Catherine (Atlus, 2011).
I punteggi di questi videogiochi sono inoltre tendenzialmente elevati e si collocano nei periodi 2001–2005 e 2006–2011. Quest’ultimo periodo è tuttavia presente anche in un altro punto del grafico, grosso modo collocato fra l’intersezione degli assi e il quadrante “thinking/hard”. Sono qui collocati alcuni videogiochi come Cursed Mountain (Sproing Interactive Media, 2009), Deadly Premonition (Access Games, 2010) e Alan Wake (Remedy Entertainment, 2010). Questi e altri esempi coevi rappresentano una differente evoluzione del survival horror, in cui gli elementi action risultano più contenuti e inseriti all’interno di un contesto più tradizionale.
Per esempio in Alan Wake sono presenti delle pagine che contengono ulteriori dettagli sulla storia in corso, secondo la già citata tradizione gotica. In Alan Wake queste pagine sono presenti come “collezionabili” da rintracciare in punti nascosti dei livelli (insieme a dei thermos del caffè, anch’essi collezionabili finalizzati a ottenere tutti gli achievements del gioco). In alcuni momenti questa scelta, però, genera uno scollamento fra il piano ludico e il piano narrativo simile alla raccolta dei tesori in Resident Evil 5.
Laddove la narrazione spinge Wake (e il giocatore) ad affrettarsi, la caccia ai collezionabili lo spinge a rallentare per esplorare a fondo le ambientazioni. Come ha correttamente osservato Chris Pruett in proposito «rather than playing the character, you have to treat the game like a system, try to second-guess the level designers, and always avoid the main path to the next checkpoint. Wake will say, “I had to get there as quickly as possible,” and the game will present you with a straight shot to “there,” but instead of just running down that strip like we would expect this character to do, Wake (per your command) spends his time running around the edges of the area, trying to jump over boxes and stuff, and generally acting drunk» (2010). Si tratta peraltro di un problema riguardante anche altri survival horror e diversi videogiochi appartenenti ad altri generi.
Alan Wake pone il giocatore nei panni di uno scrittore (il protagonista di Cursed Mountain è invece un alpinista, mentre quello di Deadly Premonition èun agente dell’FBI) e presenza numerose sequenze con vagabondaggi notturni nei boschi e fasi più distese, di indagine e dialogo. I combattimenti fanno ampio uso della torcia. Quest’ultima, utilizzata come elemento di gameplay, ha una lunga tradizione nel genere horror (McCrea, 2009: 225). In questo caso deve essere utilizzata per indebolire i nemici, avvolti da un manto d’ombra protettivo, prima di poterli eliminare con un’arma da fuoco.
Almeno nella prima parte del gioco si affronta un numero ridotto di avversari, anche se nella parte finale dell’avventura sono inserite situazioni di carattere differente, fra cui una battaglia sul palco di una band metal.
Si tratta però di videogiochi che non hanno avuto una diffusione rilevante e sono stati realizzati con un budget ridotto. Questo perché, come Pruett aveva sottolineato già alcuni anni prima (2008) i costi di produzione stavano progressivamente crescendo, e per i titoli con un alto budget si preferiva puntare su tipologie di gioco ritenute sicure, come gli sparatutto. Per le differenti nicchie, invece, fra cui quella del survival horror, venivano al più realizzati dei progetti più contenuti, per evitare grosse perdite in caso di un fallimento. Questa è la situazione dei team di sviluppo “tradizionali” come per esempio Capcom, la quale ha proseguito anche con Resident Evil 6 (Capcom, 2012) nella commistione fra horror e azione, ricercata anche in molti degli spin–off e capitoli minori rilasciati nello stesso periodo (come Resident Evil: Operation Raccoon City, Capcom, Slant Six Games, 2012, uno sparatutto multigiocatore).
Nel frattempo stavano però affermandosi alcuni esponenti della scena indie, con differenti tipologie di gioco. Uno di questi prodotti, che compare nella tabella di Pruett, è Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010), strettamente legato anche all’ascesa del gaming su YouTube.
Questo e altri videogiochi avrebbero dato una nuova direzione al genere, in un momento in cui il suo unico futuro sembrava quello dell’ibridazione con l’action/sparatutto.
Continua nella quarta parte.
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