Come noto, il termine avatar è abitualmente utilizzato nei videogiochi per descrivere le nostre protesi digitali, i simulacri di cui noi assumiamo il controllo per la durata dell’esperienza ludica. Avatar è un termine che è stato “preso in prestito” dall’induismo, in cui indica la discesa di una divinità sulla terra. È un termine certamente sensato, per descrivere l’esperienza videoludica, e su cui di quando in quando si torna a riflettere (per esempio Papale e Fazio 2018).

Non è però l’unico possibile. Sarebbe possibile prendere il lessico di un’altra tradizione religiosa e utilizzarla per descrivere questo rapporto tra giocatori e personaggi, da una differente prospettiva? È quanto si farà di seguito con il voodoo.

NOTA: quanto scritto qui di seguito è una parziale rielaborazione di un contributo che scrissi qualche anno fa, lasciandolo poi nel cassetto virtuale del computer. Oggi lo strutturerei diversamente e non escludo – nel futuro – di recuperare questi concetti in maniera più ordinata e robusta. Mi sembrava però che potesse comunque essere interessante, per cui – in attesa di eventuali sviluppi futuri – lo condivido qui. Mi sono giusto limitato a una ripulita generale del testo.

Tra i vari contenuti che vorrei approfondire in futuro c’è anche la possibilità di uno “spin-off” per la storia dei videogiochi horror che sto portando avanti qui sul sito, in cui parlare delle rappresentazioni voodoo nei videogiochi. Anche in vista di questa possibilità, dunque, pubblicare questo articolo può essere l’avvio di un discorso.

i simboli di due loa del voodoo

Breve definizione terminologica

Il voodoo, con tutte le sue grafie e varianti, è un termine problematico, sia per l’assommarsi di tradizioni e immagini non sempre pertinenti – se non del tutto fuorvianti – intorno al concetto, sia per l’ampiezza del termine, nei cui confini rientrano numerose e differenti entità, anche a seconda della tradizione considerata. I dizionari, e particolarmente quelli dedicati alla storia delle religioni, forniscono la cornice per un primo inquadramento:

«Vodu, vodun, voodoo sono varianti di trascrizione del termine africano, con il quale, nelle lingue fon[1], nel Dahomey e nel Togo, si designa un dio, uno spirito, un oggetto carico di potere numinoso. Il termine è servito a indicare la religione popolare dell’isola di Haiti […]. Nella sua origine e nelle sue attuali condizioni, il Voodoo è religione ‘popolare’, nel senso che è respinta dalle classi cd. colte o intermedie» (di Nola 1976, corsivo dell’autore)[2].

Si riscontrano qui almeno tre punti di interesse immediato. In primo luogo la trascrizione dell’originario termine fon presenta numerose variazioni, anche superiori a quelle riportate nella voce enciclopedica; si segnalano almeno vaudou, woodoo e vodhun. Secondariamente è possibile constatare la polisemia del termine, in quanto esso indica almeno tre differenti concetti, pur relativamente vicini fra loro: dio, spirito, oggetto; ma viene anche utilizzato per indicare – in maniera più o meno appropriata a seconda del caso – un luogo, una religione, una pratica magica ed altro ancora. Infine emergono due delle principali aree geografiche cui è legato il culto: l’Africa occidentale fra Ghana e Benin da un lato, l’isola di Haiti dall’altro.

Oltre a questa complessa struttura bisogna inoltre considerare le ‘sovrastrutture’[3] che nel corso degli anni si sono sviluppate nei media e nei discorsi, trasmettendo una immagine spesso distorta, oscura o riduttiva del voodoo. L’utilizzo stesso dei termini è dunque parzialmente compromesso da una lunga tradizione in cui il culto è unicamente associato «a un immaginario da film dell’orrore, fatto di magia nera, streghe, zombi e fantasmi e che ha trovato uno sbocco commerciale in un mercato affascinato dal gotico, dall’esoterico, dal dark e dall’horror» (Brivio 2012, p. 41).

Alla costruzione di questo immaginario hanno contribuito numerose opere letterarie, cinematografiche[4] e, negli ultimi anni, anche videoludiche. Per questo motivo si è qui scelto di utilizzare, un po’ provocatoriamente, il termine voodoo, proprio perché è la variante – fra le molte possibili – più compromessa rispetto a questo immaginario di bamboline e morti viventi, che costituiscono la categoria di recuperi più diffusi nei videogiochi. Verrà inoltre considerata principalmente, sebbene non esclusivamente, la tradizione voodoo di Haiti, per la stessa ragione.

Detto questo, occorre fornire almeno alcune indicazioni di carattere generale sulla religione voodoo, per rendere comprensibile quanto si dirà in seguito.

Il pantheon voodoo e le pratiche rituali a esso collegate costituiscono una materia multiforme, che presenta differenze considerevoli non solo fra il culto haitiano e quello africano, ma, ad esempio, anche all’interno della stessa Haiti. Una breve presentazione dell’argomento non può pertanto far altro che offrire alcune indicazioni generali. La struttura del culto poggia su quella che Maya Deren ha definito una Trinità, composta da Morti, Misteri e Marassa (Deren 1997, pp. 30-65). Questi ultimi sono i Gemelli Divini, e anche per i bambini gemelli di qualche famiglia sono previste determinate attenzioni rituali. Il culto dei morti invece, pur con le sue particolarità, si spiega da solo (si veda Métraux 1971, pp. 243-265).

I “Misteri” infine sono i loa, definiti spesso anche “spiriti”, “genî” e, in determinati contesti e territori, anche “santi” o “angeli”. Improprio invece definire i loa delle divinità, sebbene alcuni di loro derivino effettivamente da alcuni déi africani. Essi sono piuttosto gli intermediari fra un dio, unico, distante e disinteressato – Mawu-Lisa dell’Africa occidentale o il Bondyé haitiano (Thayer 2009), versione del Dio cristiano che assume la valenza del fato e del destino – e il mondo dei mortali.

Similmente, non è appropriato definire i loa “diavoli” o spiriti infernali, come è stato fatto in più occasioni dal clero haitiano, e come una loro rappresentazione in chiave oscura e diabolica continua a veicolare. I loa non sono malvagi, per quanto spesso appaiano permalosi e intrattabili. Anche i più “oscuri” fra loro (quelli che rientrano nella famiglia petro), che si prestano a essere invocati in rituali di magia nera, rivelano spesso anche una valenza positiva in altri contesti[5].

Esistono alcuni loa principali largamente conosciuti e adorati – e molti di questi si presentano anche in più ‘versioni’ differenti, sia all’interno di una stessa famiglia loa sia tramite controparti positive e negative di uno stesso archetipo – ma vi è poi un continuo proliferare di nuovi “misteri”, rivelati durante le possessioni, derivati dagli antenati o attraverso altre forme ancora. Métraux riporta il curioso episodio in cui un sasso con attaccate due conchiglie, rinvenuto per caso da un pescatore, diviene un nuovo loa sotto il nome di “Capitano Déba” (Métraux 1971, pp. 82-83).

Spesso inoltre i loa sono stati assimilati dai fedeli voodoo ai santi cristiani, per via di alcuni particolari iconografici dei santi che richiamano determinate caratteristiche di uno o più spiriti. Più in generale, diversi rituali sono stati modellati su quelli cristiani oppure, in Africa, su elementi della religione islamica, e se è pur vero che questi elementi sono spesso ripresi solo come patina superficiale, tanto da portare a discutere sull’effettivo sincretismo del voodoo, il loro impatto non è comunque indifferente (Hubron 1987, pp. 101-120; Métraux 1971, pp. 324-336; Brivio 2012, p. 12).

Il videogiocatore e il suo avatar

In un videogioco si assiste all’attorializzazione del videogiocatore, attraverso quella che Maietti ha definito «messa in ruolo videoludica» (Maietti 2004, p. 124, corsivo dell’autore). In altre parole si è chiamati a interpretare un ruolo coerente con il mondo narrato, diventandone un individuo. Non sempre tale messa in ruolo comporta una presenza a schermo; al contrario è possibile «conferire al fruitore il potere di abitare il mondo di gioco non solo concedendo la possibilità di incarnare un simulacro attorializzato […] ma semplicemente attribuendo facoltà interattive che modificano il mondo narrato, come in Tetris» (Trabattoni 2014, p. 19).

Sempre Maietti parla anche di «gradiente interattivo del simulacro» (Maietti 2004, pp. 127-128) (ossia in che misura il giocatore può modificare alcune caratteristiche del suo alter ego digitale) e classifica quattro differenti forme di attorialità, a seconda che il simulacro sia presente o assente, plurale o individuale (Maietti 2004, pp. 128-130).

Il passo successivo, anche in vista di queste diverse possibilità, è considerare il videogiocatore non necessariamente – o non solo – un attore, ossia un personaggio che agisce o subisce una azione, ma un attante, ossia un ruolo/funzione di uno o più attori (Bertolo e Mariani 2014, pp. 117-119). Esempio classico in tal direzione è costituito dagli strategici, in cui il giocatore, impartendo ordini a un intero esercito, è l’attante Destinante (colui che persuade il soggetto a compiere un’azione) che indirizza un attante Soggetto collettivo verso il suo Oggetto (lo scontro con gli avversari, la conquista di un presidio, ecc.).

Il termine qui impiegato, simulacro, è «in ultima istanza una strategia che si applica per simulare la presenza di una entità che è invece assente: non può descrivere il lavoro del giocatore, che è ben presente come strategia attanziale, discorsiva e interpretativa» (D’Armenio 2014, p. 35, corsivo dell’autore). Al di fuori di questa riserva sull’impiego del termine per le fasi interattive di un videogioco, “simulacro” ha avuto anche largo impiego nella fantascienza, in cui ha finito per indicare un ampio spettro di concetti e figure differenti. Questa varietà attributiva contribuisce a rendere meno univocamente definibile il termine, tanto più che, se effettivamente alcune sue applicazioni fantascientifiche hanno un legame più o meno stretto con la presenza del videogiocatore (un esempio potrebbe essere Matrix), in altri casi la distanza è marcata. La definizione stessa di “simulacro” si muove in tal senso[6].

Bruno Fraschini, in un suo testo, ha definito il simulacro con cui il giocatore interagisce col mondo digitale come «una protesi digitale, qualcosa che dona all’essere umano la possibilità di compiere azioni in un mondo di cui non fa “realmente” parte» (Fraschini 2004, pp. 110-111). Parlare di “protesi” vuol dire indicare non più un sostitutivo “ingannevole” (simulacro è, per definizione, umbratile, inautentico, esteriore), ma un sostitutivo “funzionale”, ossia in grado di replicare determinate funzioni in assenza dell’arto/organo a esse predisposto[7]. Nei mondi digitali, in particolare, a essere in posizione di assenza – nel senso di “non fisicamente presente col proprio corpo” – è l’intera corporeità del giocatore, che ha dunque bisogno di questa protesi digitale.

Un altro termine utilizzato – con molta più frequenza – per descrivere la protesi/simulacro è avatar. Non è infrequente, infatti, leggere che “Lara Croft è l’avatar del videogiocatore”, o che “in un MMORPG il giocatore personalizza il proprio avatar”. Si veda una definizione del termine sanscrito avatāra, da cui i suoi utilizzi odierni sono stati mutuati:

The idea of an avatāra, a form taken by a deity, is central in Hindu mithology, religion and philosophy. Lite rally the term means “a descent” and suggests the idea of a deity coming down from Heaven to Earth. The literal meaning also implies a certain diminuition of the deity when he or she assumes the form of an avatāra. Avatāras usually are understood to be only partial manifestations of the deity who assumes them […]. Theologically an avatāra is a specialized form assumed by Viṣṇu for the purpose of maintaining or restoring cosmic order (Kinsley 2005).

Una definizione, questa, che si ricollega alla già espressa idea di una entità sostitutiva, parziale, diminutiva, in cui trovarsi per un periodo più o meno duraturo al fine di realizzare un determinato obiettivo. Anche questo non è un termine univoco, non solo perché – banalmente – è ripreso da un concetto religioso, ma anche perché la sua applicazione attuale fa riferimento ad oggetti differenti. Alcuni di questi sono gli avatar di piattaforme digitali relativamente vicine ai videogiochi, come Second Life, mentre altri – esempio classico: l’avatar utilizzato in un forum – sono decisamente più distanti. Non mancano inoltre, anche in questo caso, contaminazioni fantascientifiche, fra cui il romanzo Snow Crash (1992) di Neal Stephenson o il film Avatar (2009).

In ambito videoludico, prescindendo dall’accennata questione terminologica, esiste un doppio scambio fra l’avatar digitale e il suo controllore nel mondo reale – o nel mondo “non-virtuale”, seguendo la proposta di Waggoner[8]. La prima direzione di questo passaggio è quella che va dall’utente al suo avatar; si tratta della personalizzazione estetica o delle decisioni comportamentali, in base al fine desiderato o al ruolo che si vuole ricoprire. Non necessariamente il risultato ottenuto rispecchia l’aspetto e la personalità di colui che impiega un determinato avatar – in campo videoludico e non – ma come accennato è anche possibile che l’utente desideri calarsi volontariamente in una rappresentazione molto diversa dal suo io non-virtuale[9].

Questo primo passaggio è, come intuibile, più forte ed esplicito in presenza di un avatar personalizzabile, o di cui è possibile controllare le decisioni. Un simile caso costituisce però solo una parte delle identità assumibili in un videogioco. Un esempio classico è quello di Mario, il noto idraulico baffuto: il suo aspetto non è personalizzabile, né il giocatore può influenzarne il comportamento al di fuori del controllo motorio (il che costituisce comunque una presa di posizione, una decisione, ma piuttosto blanda).

Eppure anche Mario è un avatar del giocatore. Questo perché, se spesso un avatar ha una funzione “sociale”, di doppio del proprio ruolo non-virtuale o di suo contraltare, per presentarsi e relazionarsi in un determinato contesto virtuale, altrettanto frequentemente esso viene impiegato in contesti narrativi, non necessariamente sociali.

Un episodio platform di Super Mario ha una storia già stabilita, che il giocatore più che influenzare deve concretizzare. Non si tratta di un racconto tradizionale, ma di un racconto ludico, ossia un elemento che rappresenta «l’aspetto narrativo delle meccaniche di gioco e l’aspetto interattivo della narrazione» (Fulco 2004, p. 66). Un racconto dettato da cambiamenti di stato, anche solo da quello di quiete a quello di moto o viceversa. Rimane dunque, a questo livello, la possibilità del giocatore di interagire sul mondo virtuale e la sua narrazione, attraverso il proprio avatar (facendo avanzare Mario lungo un livello di gioco, ad esempio), e in tal senso è ‘personalizzabile’ perlomeno la posizione di quest’ultimo nello spazio. Rimane evidente, però, la distanza di una simile situazione dalle personalizzazioni estetiche e relazionali/comportamentali offerte da un titolo come il già citato Word of Warcraft.

È soprattutto – ma non esclusivamente – in casi come quello di Mario che emerge il secondo “scambio” fra avatar e videogiocatore, opposto al precedente. Papale utilizza il termine identificazione, in contrasto con proiezione, per descrivere questo fenomeno, in cui «il giocatore introietta il tratto caratteriale predominante del personaggio, facendolo suo e vivendolo come se fosse parte del suo essere» (Papale 2013, pp. 85-86). Più in generale si parla di Proteus effect (effetto Proteo, dal nome del mutaforme dio greco), in base al quale il comportamento di un individuo in un mondo virtuale – e in una certa misura al di fuori di esso – sarebbe regolato dalle caratteristiche visive dell’avatar (genere, colore degli abiti, carnagione, ecc.). Questo effetto, insieme a similari espressioni e teorie correlate, rappresenta l’altra faccia della medaglia nel rapporto videogiocatore-avatar. Su questo interscambio è possibile segnalare un parallelismo con il culto voodoo.

Il videogiocatore: cavallo e cavaliere

Uno dei fondamenti del voodoo è costituito dal fenomeno della possessione. Un loa, durante una cerimonia ma anche nella vita quotidiana, discende su un fedele e lo “cavalca” per un certo lasso di tempo. Per tutta la durata della possessione il “cavallo” assume le caratteristiche di quello specifico loa che lo controlla: richiede determinati vestiti e cibi, utilizza un particolare linguaggio e compie una serie di gesti inconsueti. Coloro che assistono a un fenomeno simile si rivolgono al posseduto come se fosse il loa, e un mancato riconoscimento della sua identità o autorità provocherebbe collera e sdegno. Si tratta inoltre di una possessione volutamente ricercata, per quanto temuta, essendo spesso la sua manifestazione preceduta da vertigini, senso di smarrimento e terrore.

Tutto ciò ha portato a un’ulteriore condanna del clero locale contro il voodoo, in cui si è vista una sorta di possessione demoniaca. I fedeli del culto però, al contrario, distinguono le possessioni degli spiriti maligni – pericolose, da evitare – da quelle dei loa, pur talvolta violente, sfiancanti e in una certa misura pericolose. A differenza di quella che, grosso modo, è la tradizione africana, nel voodoo haitiano non sono solamente gli iniziati a essere posseduti, ma è un fenomeno che può capitare a qualsiasi fedele e, in casi particolari, anche ad alcuni estranei. Celebre in tal senso il caso di Maya Deren, studiosa e artista americana entrata in contatto col voodoo per un documentario sulle danze indigene, che è stata “cavalcata” dalla loa Erzulie.

La cineasta ha parlato di “bianca oscurità”, espressione divenuta poi piuttosto celebre, per raccontare la sua esperienza di possessione, e soprattutto dei momenti che l’hanno preceduta (Deren 1997, pp. 292-308). A prescindere dall’effettiva ‘autenticità’ delle possessioni[10] – che nel sistema-voodoo sono effettivamente “autentiche”, nel senso di “fondanti” – ciò che interessa sottolineare è il rapporto fra loa e fedele che viene ad instaurarsi. Autosuggestionato, attore consapevole di un gioco delle parti, o realmente posseduto, il “cavallo” segue le indicazioni del suo “cavaliere” divino anche quando esse lo pongono in situazioni socialmente imbarazzanti o pericolose (a cui pur vengono posti dei taciti limiti dalla comunità, difficilmente oltrepassati).

L’“interpretazione” del loa di turno avviene inoltre secondo le caratteristiche del “cavallo”. Un uomo e una donna saranno “cavalcati” differentemente da uno stesso loa (solitamente la possessione riguarda un loa del proprio genere, ma non è una regola costante), così come una mambo posseduta agirà diversamente rispetto a una hunsi sua sottoposta. Si potrebbe affermare, pur con una certa dose di approssimazione, che ciascun loa abbia un suo “canovaccio” da seguire, fatto di specifiche richieste (ogni loa apprezza un particolare cibo, o del tabacco, o altro), movenze particolari ed espressioni ricorrenti. Su questa base, piuttosto stringente in linea di massima, si innestano alcune peculiarità del “cavallo” di turno.

Si consideri ora un videogiocatore, alle prese con una proiezione – per riutilizzare l’espressione citata in precedenza – sul proprio avatar. Quest’ultimo va a rispecchiare i pensieri, i desideri, i gusti, o anche l’aspetto fisico dell’individuo al di fuori dello schermo, temporaneamente calatosi in lui, o che l’ha addirittura plasmato per tale funzione, e ritorna l’immagine dell’avatāra, del dio incarnato, pur qui in una “disincarnazione” digitale. Si può, adesso, sostituire i loa a Viṣṇu, e i fedeli voodoo alle sue incarnazioni.

L’immagine – perché, in entrambi i casi, di immagini si tratta – guadagna in efficacia, in termini di parallelismo. La natura della possessione loa – multipla, scambievole, di differente durata ma spesso piuttosto breve – rispecchia la natura di un videogiocatore, abituato a ‘saltare’ frequentemente da un personaggio all’altro, andando anche a controllare personaggi prima impiegati da altri videogiocatori. Più giocatori per più avatar, con legami preferenziali ma non univoci, proprio come i fedeli voodoo sono spesso “prediletti” da un determinato loa, ma possono essere “cavalcati” anche da altri, così come quel loa può “cavalcare” altre persone. Viṣṇu, al contrario presenta incarnazioni di volta in volta differenti ed uniche.

Inoltre, anche laddove è il movimento della proiezione a prevalere, l’avatar videoludico ha spesso alcune caratteristiche basilari che non possono essere modificate. Un esempio: è possibile modificare l’etnia, l’aspetto, il genere e le origini del protagonista di Dragon Age: Origins, così come è possibile fargli compiere una sequela di scelte morali differenti; non si può tuttavia, fra le altre cose, evitare che il personaggio divenga un Custode Grigio. Ogni origine, una volta selezionata, incasella il protagonista in un determinato schema, piuttosto che in un altro, senza grosse variazioni interne: i personaggi “Elfo Dalish” avranno tutti un background quasi uguale, all’interno del loro gruppo, mentre saranno totalmente differenti dagli appartenenti al gruppo “Nobile Umano”.

Andando a controllare il proprio avatar, ciascun videogiocatore lo farà agire in base ai propri desideri, pertanto uno stesso personaggio, controllato da due persone differenti, agirebbe in maniera diversa, modellandosi di volta in volta sul suo controllore[11]. Al tempo stesso, però, lo stesso giocatore, andando a controllare un Elfo Dalish o un Nobile Umano, agirà in modo differente, anche soltanto a livello microscopico, pur mantenendo le stesse idee e gli stessi interessi. I giocatori sono i “cavalieri” voodoo, il loa, che controllano di volta in volta differenti “cavalcature”, immettendovi la propria personalità per tutta la durata della possessione, ma presentando anche – pur minimi – adattamenti alla natura del proprio “cavallo”.

Nel movimento opposto, l’identificazione, i ruoli sono invertiti, o invertibili. Se nel parallelismo precedente la possessione voodoo è stata considerata come fenomeno autentico, in questo caso essa ritorna come finzione. Il fedele saprebbe – anche solo inconsciamente – che durante la possessione è tenuto ad interpretare il loa di turno in base alla sua personalità. Se “cavalcato” da Baron Samedi, ad esempio, farà in modo di procurarsi degli occhiali scuri, mentre una “interpretazione” di Damballah Wedo lo porterà a gettarsi in acqua e arrampicarsi sugli alberi, e una di Ogun (o Ogoun) Badagris vedrà un frequente ricorso ad espressioni come “Foutre tonerre!” o “Grains moin fret![12].

Così anche il videogiocatore, in differenti gradazioni a seconda della libertà concessagli, agirà in base al ruolo che viene chiamato ad interpretare. Questo come generica tendenza, e non legge immutabile, naturalmente, anche in vista della differenza fondante che rimane col culto voodoo. Per i fedeli la possessione è parte di una ritualità, anche quando si svolge in contesti quotidiani, e mantiene una sua sacralità; l’atto del videogiocare è un rituale a bassa intensità: «cerimoniali instant, fondati non tanto sulla condivisione di valori quanto sul radicarsi, magari effimero ma dilagante, di abitudini comuni, nella vita urbana come nei momenti di pausa sociale dal lavoro» (Ortoleva 2009, p. 84. Corsivo dell’autore).

Pertanto è possibile ‘giocare’ col proprio ruolo – cosa che un fedele del voodoo posseduto non può fare con leggerezza – andando tuttavia perlomeno ad incrinare quel cerchio magico che caratterizza un «mondo provvisorio entro il mondo ordinario, destinato a compiere un’azione conchiusa in sé» (Huizinga 2002, p. 13). Al di fuori di queste quasi fisiologiche differenze l’analogia rimane. Il personaggio videoludico, a partire dal suo stesso aspetto, offre al giocatore un implicito ‘canovaccio’ che sarà poi messo in ruolo in differente misura. Banalmente, un personaggio vestito di nero, dallo sguardo truce e dai trascorsi ambigui porterebbe magari il videogiocatore ad avere un approccio più subdolo e aggressivo, rispetto a un leale paladino dall’armatura lucente. Questo non perché il giocatore abbia particolari pulsioni violente, o predilezioni per un approccio “malvagio” al gioco[13], ma perché in quel determinato momento è chiamato a mettere in scena quel tale ruolo, così come un adepto voodoo può ritrovarsi “cavalcato” da qualche loa violento e “oscuro”.

In conclusione il parallelismo presentato non è esattamente combaciante, né probabilmente proponibile come alternativa alla terminologia già impiegata, tecnica o di uso comune che sia, in vista anche della sua minore immediatezza. Rimane però una casualità potenzialmente affascinante, questa doppia somiglianza che pone il videogiocatore ad essere, al tempo stesso, “cavallo” e “cavaliere” di una figura virtuale, tramite una corrispondenza bidirezionale nella messa in ruolo.

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[1] «Gli Ewe e i Fon sono popoli linguisticamente e culturalmente imparentati che vivono in Africa occidentale, lungo la costa e nell’entroterra del Benin (antico Dahomey), del Togo e del Ghana orientale. Sono circa tre milioni di persone; vivono per la maggior parte in città o in grandi villaggi e dipendono dalla pesca, da coltivazioni intensive e dall’artigianato […]. Il culto degli antenati, che è ritenuto necessario per la perpetuazione del clan, è l’elemento centrale dell’organizzazione sociale dei Fon e di molte delle loro attività religiose. […] All’incirca ogni dieci anni, inoltre, gli antenati vengono “stabiliti”, cioè divinizzati come tovudu (divinità della famiglia)» (Gilbert 2009, corsivo dell’autore.)

[2] Cfr. anche Lovell (2006) e McCarthy Brown (2005).

[3] L’insistenza sull’idea di un accrescimento, di un assommarsi di immagini e concetti intorno ad un nucleo, di “accrezione”, non è casuale, ma si ricollega ai santuari gorovodu (e non solo), costituiti da oggetti progressivamente ricoperti di sangue e materia organica fino ad essere irriconoscibili. Così come in questi santuari, detti tron, l’originario nucleo interno è irraggiungibile o non identificabile, allo stesso modo le comuni idee sul voodoo si basano su opinioni ed immagini stratificate intorno ad un ‘cuore’ pulsante ma spesso inconoscibile. Sul gorovodu ed i suoi rituali cfr.Rosenthal (1998). Sul lato visibile e nascosto degli altari si veda anche Lalèyê (2009).

[4] Alessandra Brivio (2012 p. 40) ricorda come esempi le pellicole Il serpente e l’arcobaleno (The Serpent and the Rainbow, Wes Craven, 1988; tratto dall’omonimo libro di Wade Davis) e Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie, Jacques Tourneur, 1943), ma si può citare come precursore anche il celebre L’isola degli zombies (White Zombie, Victor Halperin, 1932), ambientato ad Haiti ed indicato come il primo film a presentare la figura dello zombie.

[5] Fermo restando quanto affermato, esistono loa con valenze “demoniache”, come Marinette Bwa Chech (Marinette dalle braccia secche), signora del fuoco e dei lupi mannari – che nel voodoo sono esclusivamente di sesso femminile e non corrispondono all’immaginario tradizionale – e divoratrice di uomini (Mennesson-Rigaud e Denis 1947).

[6] Fra le definizioni di “simulacro”: «Riproduzione o imitazione di un oggetto, di un corpo; sagoma […]. Esercitazione o gara spettacolare che simula il combattimento o ne è la trasposizione ludica […]. Simulazione o imitazione di un gesto, di un atteggiamento, di un’azione […]. Figura, immagine di un ente materiale o ideale, che attua in modo imperfetto o provvisorio o che richiama per somiglianza o per imitazione […]. Apparenza, parvenza; indizio o presenza ridotta e appena rilevabile di una condizione ambientale o stagionale o di un’istituzione o di un valore politico o morale […]. Fantasma, spettro, ombra, spirito di un trapassato […] per estens. Apparenza illusoria o fittizia, anche per opera di magia […]. Immagine riflessa in uno specchio o nell’acqua […]. Invenzione fantastica o della mente» (Voce Simulacro, 1998).

[7] «Medic. Sostituzione di una parte anatomica mancante con una artificiale avente analoga funzionalità – In senso concreto: struttura fabbricata un tempo con legno, più recentemente con metallo e resine plastiche, che serve a tale scopo […]. Figur., con riferimento alle facoltà intellettuali indebolite o mutile» (Voce Pròtesi, 1988).

[8] Brevemente: una identità virtuale può essere “reale”, in una certa ottica, per il suo fruitore, tanto quanto la sua identità non-virtuale. Waggoner propone anche il termine verisimulacratude per descrivere il processo con cui gli utenti entrano a far parte di un mondo simulacrale virtuale (Waggoner 2009).

[9] Ad esempio nel film Ben X (Ben X, Nic Balthazar, 2007) il protagonista, affetto dalla sindrome di Asperger, gioca tutti i giorni ad Archlord. Il suo doppio virtuale, dai lineamenti simili ai suoi, è un potente eroe che ha compiuto qualsiasi impresa, mentre lui nella quotidianità non-virtuale subisce continui assalti da alcuni bulli e fatica a relazionarsi con altre persone.

[10] Già Métraux aveva ampiamente trattato l’argomento, escludendo spiegazioni di carattere psicopatologico e simili, arrivando ad affermare che «lo stato di possessione è dunque spiegabile con il clima intensamente religioso vissuto degli ambienti voduisti» (Métraux 1971, p. 141).

[11] Anche in presenza di scelte assolutamente identiche, all’interno delle opzioni ‘fisse’ di scelta (dialoghi, decisioni per la trama, ecc.) perlomeno il racconto ludico sarebbe sempre diverso, andando ugualmente a rispecchiare un utente piuttosto che un altro. Far soffermare il proprio avatar in città a parlare, piuttosto che tornare subito in missione, è un – banale – esempio di due differenti racconti ludici, che corrispondono a differenti interessi e personalità da parte dei due ipotetici videogiocatori.

[12] Deren (1997, pp. 132-155). Le due espressioni citate, che Ogun impiega come intercalare, sono rispettivamente traducibili come “tuoni e fulmini!” e “i miei testicoli sono freddi!”.

[13] Anche perché, nei videogiochi che prevedono scelte morali, solitamente gli utenti optano per il percorso “buono”, almeno alla prima giocata (Lange 2014).