Recentemente ho giocato a Is It That Deep, Bro? di Moawling. Si tratta di una piccola avventura testuale, della durata di 5-10 minuti circa, liberamente giocabile e scaricabile su Itch.io.
Si gioca nei panni di un ragazzo che va al cinema con il suo amico Clay. Il cinema è deserto, ci sono solo loro due. E il film che viene proiettato parla dell’amore omoerotico tra due cowboy. Stanno sostanzialmente vedendo I segreti di Brokeback Mountain, insomma. Ma anche tra i due ragazzi in sala sembra esserci una certa tensione affettiva. Attraverso le nostre scelte e alcuni brevissimi minigiochi è possibile indirizzare questa tensione, negandola fino alla fine o seguendone il flusso.
Questo, in estrema sintesi, è il gioco, che valeva la pena riassumere almeno in termini molto generali, visto che non è proprio così noto, per usare un eufemismo. Spulciando in rete ho trovato un breve articolo su Gaymingmag, uno su Indie Hell Zone e non molto altro, ma segnalo che – almeno sui social – ho visto che ne avevano parlato anche le persone di Owof games. E, peraltro, la loro sottolineatura è stata probabilmente la più interessante che ho trovato, sul fatto che in questo gioco venga messa in risalto una forma di tensione sessuale (che è differente dall’atto sessuale) spesso rimossa dalle rappresentazioni mediali.
Detto ciò, non mi metterò qui a discutere di rappresentazioni queer e teorie di genere. Semplicemente perché è un settore che non ritengo di conoscere a sufficienza, e di improvvisati tuttologi ce ne sono già abbastanza in giro (anche intorno a questi temi), con conseguente pioggia di banalità e ‘pensierini’. Per cui, qui come altrove, evito di sconfinare in territori che io per primo dovrei approfondire a dovere e lascio il campo a chi ne sa più di me.
Desidero, invece, lanciare tre rapidi spunti di riflessione che mi sono venuti in mente giocando a Is It That Deep, Bro?, che non hanno (non primariamente, per lo meno) a che fare con la rappresentazione dei personaggi, ma con altre questioni. Sempre nell’ottica di arricchire i dibattiti con differenti angolazioni.
Il mondo perduto
Dopo i primi secondi di gioco, una domanda è subito balzata nella mia mente: “per quanto ancora sarà possibile?”.
La domanda era riferita al contesto in cui i due ragazzi si trovano: un cinema praticamente deserto, in cui proiettano un film ormai vecchio.
Qui viene subito richiamato un vasto e tradizionale immaginario, con la coppietta nel cinema vuoto, che si lascia trasportare dal film. È un immaginario condiviso, che qui viene semplicemente declinato in una tensione amorosa omosessuale.
Ma è anche un immaginario che sarà probabilmente sempre più vecchio. Ora, bisogna anche intendersi meglio a riguardo, perché non sto parlando della “morte del cinema”. Negli ultimi anni, a suon di “Netflix and chill” e amenità simili, c’è chi annuncia costantemente la scomparsa ormai prossima delle sale cinematografiche. Ma queste ultime, almeno prima del lockdown, avevano comunque mantenuto un buon potere attrattivo anche sulla generazione Z (rimando su questo al Rapporto cinema 2019 di cui peraltro sono stato uno dei curatori). Già lì, però, si parlava di una esperienza “festiva”, “extra-ordinaria”, l’uscita da fare con gli amici in qualche occasione particolare, magari il sabato sera.
Il lockdown, a sua volta, non ha ucciso le sale cinematografiche, ma ha sicuramente accelerato molti processi. E sembra confermarsi proprio questa immagine di una visione “elettiva” nella sala cinematografica, buona per determinati tempi e contesti. Non sarei stupito se, in futuro, la visione nelle sale cinematografiche fosse esclusivamente di due tipi, entrambi in forma differente legati a quella visione festiva che dicevo prima.
Da un lato un’esperienza di altissima qualità in concomitanza con un particolare evento filmico. Il modello dell’Arcadia di Melzo, insomma, per fare un esempio concreto. Altissima qualità audiovisiva, eventi speciali per il blockbusterone di turno ed eventuali raduni di cosplay come contorno. La sala cinematografica come “limited edition” dell’esperienza audiovisiva, insomma. Dall’altro lato il rito collettivo a bassa intensità del sabato sera al multisala: pizza o hamburger, poi visione di un film e poi eventuale proseguimento di serata altrove.
È ovviamente una semplificazione, ma non sarei affatto stupito se ci fosse questa evoluzione delle sale, con una loro iperspecializzazione su determinati pubblici e determinati film, lasciando al consumo domestico tutto il resto.
Ma questo significherebbe anche la sostanziale scomparsa di quell’immaginario della coppietta nel cinemino mezzo vuoto di periferia. A prescindere dal fatto che sia una coppietta omo o eterosessuale. Anche perché un imbarazzato avvio di pomiciata potrebbe non essere altrettanto agevole in una sala strapiena di marmocchi che lanciano pop corn e caramelle, oppure in un “tempio” silenzioso dove tutti i presenti trattengono il respiro per capire se l’impianto audio della sala gli permette di udire il fruscio dei peli nasali Tom Holland.
Ci si trova, insomma, davanti a un anticipo della nostalgia futura. A un qualcosa che tra qualche anno potrebbe essere visto come un residuo del passato. Qualcosa che sarà inserito nello Stranger Things del 2040, in cui evocheranno le atmosfere e le sensazioni dei primi anni 2000. Un po’ come sentire oggi l’inizio di Summer on a solitary beach di Battiato, quando dice «Passammo l’estate / su una spiaggia solitaria / e ci arrivava l’eco di un cinema all’aperto».
Il cambiamento
Mi è piaciuto il fatto che i protagonisti di Is It That Deep, Bro? siano due giovani ragazzi. Non saprei quantificarne precisamente l’età, e non mi sembra venga indicata da nessuna parte, ma dalla loro rappresentazione non appaiono certamente come “adulti”.
Questo perché, andando al fondo di quel che c’è alla base del gioco, volendolo universalizzare il più possibile, c’è la grande questione del cambiamento, che può essere accettato o meno. Nel caso specifico è un cambiamento sentimentale, che andrebbe presumibilmente anche a ridefinire l’identità del protagonista.
Lui, in quel cinema, davanti a quel film, sente di provare qualcosa per il suo amico Clay. È questo il vento del cambiamento che sfiora la sua vita. Può lasciarsi trasportare da esso o può resistervi. O meglio, siamo noi giocatori a deciderlo per lui. E noi giocatori potremmo essere degli adulti. L’adultità porta, in molti casi, una fossilizzazione dinnanzi alla prospettiva del cambiamento. Il che non vuol dire che non si facciano spesso cose differenti, ma le si vive sempre con un certo schema di lettura del mondo che abbiamo ormai sviluppato e consolidato. Per cui in realtà non ci si aspetta mai che qualcosa cambi davvero, e quando si apre questa possibilità si guarda da un’altra parte.
Magari un “adulto” di questo genere farebbe aprire il protagonista nei confronti di Clay. Ma sarebbe per via della distanza data dal personaggio, dal fatto che non si sta davvero operando sulla propria vita. O potrebbe anche esserlo per l’adesione a una certa visione delle cose.
Se, però, questo adulto fosse chiamato in prima persona a scegliere come comportarsi, di fronte a un cambiamento significativo?
D’altro canto, se è vero che un giovane può essere più propenso ad accogliere il cambiamento, c’è un altro potenziale problema che emerge in lui: saper discernere il desiderio del cambiamento dall’irrequietezza del vivere.
L’irrequietezza del vivere è quella che, per esempio, può spingere a viaggiare in continuazione senza vedere mai niente (nella distinzione tradizionale e specifica tra vedere e guardare), mossi dal desiderio dello spostamento in sé e da una “collezione” di luoghi. Come diceva John Ruskin, «gli uomini non hanno visto granché del mondo andando lenti, figuriamoci se vedranno di più andando veloci!». C’è di positivo, però, che l’irrequietezza del vivere può spingere verso il desiderio di cambiamento con maggior felicità rispetto all’immobilismo. Bisogna solo smettere di muoversi come trottole da un’esperienza all’altra (che, peraltro, è una differente e più sottile forma di immobilismo mentale, se ci si riflette a fondo) e avere la predisposizione d’animo al cambiamento.
È una leva potente ma anche molto spesso fraintesa. Anche perché, da quando la pubblicità si è diffusa, il “cambiamento” è stato utilizzato come leva di acquisto costante, andando però a diluirne in maniera estrema il senso profondo. Rimangono dei percorsi interessanti se si pesca nel vasto mondo del “guru marketing”, ma anche lì è una ricerca con il lanternino, di quali siano i percorsi che mirano effettivamente a questo, rispetto a quelli che vendono la facile promessa di un cambiamento.
Tornando a Is It That Deep, Bro? e al suo protagonista, comunque, è interessante la possibilità di accogliere o rifiutare questo cambiamento che, molto probabilmente, andrà a ridefinire l’identità di quella persona. È il motivo per cui, molto più in generale, i videogiochi sono interessanti, nel momento in cui propongono scelte significative. Le narrazioni lineari sono piene di scelte significative, sia chiaro, soprattutto quando le storie sono ben strutturate, ma in quel caso il personaggio prenderà sempre e comunque una determinata decisione, dopo un momento di incertezza. Qui, invece, le diverse possibilità sul piatto sono tutte quante selezionabili e percorribili. Un fattore scontato (ma neanche così tanto, alle volte) per chi gioca abitualmente ai videogiochi, ma che non lo è per nulla per chi ha avuto come unica esperienza interattiva Bandersnatch di Black Mirror o qualcosa di similare.
Tenero ma non troppo
Qui mi rifaccio in particolare alle citate parole di Owof Games, sulla percepibile tensione sessuale tra i due protagonisti.
È una dimensione interstiziale di grande rilievo, anche per la sua carenza nelle rappresentazioni mediali. È direi che è una carenza che non coinvolge solo il mondo queer. Anche le rappresentazioni eterosessuali – pur con, ovviamente, più eccezioni – sono molto polarizzate. Da un lato tutta la narrazione e la retorica di un amore asettico, ‘angelico’ e fisicamente distaccato. Dall’altro l’atto sessuale deromanticizzato. E non è una critica, sia chiaro. Va benissimo che ci siano simili rappresentazioni in quanto facenti parte della vita, ma talvolta sembra effettivamente mancare un certo equilibrio, anche nell’ottica dei modelli a cui attingere.
Si sono spesi fiumi d’inchiostro sul perché sarebbero “problematiche” le rappresentazioni in stile Disney dell’amore, in quanto fonte di irrealistiche aspettative. Come detto, non mi trovo d’accordo nel definirle un “problema”, ma per certo sono una visione parziale. Al polo opposto, tuttavia, è sempre più frequente anche chi definisce “problematico” il settore pornografico, non per un bigottismo di ritorno ma – nuovamente – per le irrealistiche aspettative che produce. In entrambi i casi, ci si crogiola e trastulla con qualcosa che difficilmente corrisponderà all’esperienza effettiva, perché non è così frequente avere a che fare con, da un lato, partner che sono principi e principesse e, dall’altro, partner che sono pornostar. A volte capita, ma non è certo la norma.
L’innamoramento è, invece, per molte persone quell’imbarazzato e al tempo stesso eccitante confronto in cui amore romantico e attrazione fisica vanno a mescolarsi, proiettando in vario modo la tua mente sul futuro. Una congiuntura che alcuni vedono sempre più “minacciata” da più fronti. La de-sessualizzazione da un lato. L’iper-sessualizzazione dall’altro. E, come ulteriore sfida, la costante diffusione delle app di dating, con la promessa di un match algoritmicamente corretto che, in una maniera ancora differente, vende come promessa la sicurezza, la possibilità di evitare quell’imbarazzo di cui si diceva poco sopra (ne ho parlato anche in un mio recente video).
Insomma, ben vengano i videogiochi (e non solo) che cercano di riproporre quel peculiare momento in cui due cuori e due corpi cercano di entrare in contatto, muovendosi in quel garbuglio di emozioni che stanno provando. Omo o etero. Senza principesse, senza pornostar e senza algoritmi.