Mese: Aprile 2023

The Wreck: i problemi nel comunicare un videogioco

Ho letto il post su RedditWhy the hell do we even bother making indie games?” di Florent Maurin (The Pixel Hunt), che ha di recente pubblicato The Wreck.

Il videogioco non è andato molto bene, in termini di vendite, per usare un eufemismo. Il post non parla solo di quello, e c’è una parte che ho trovato decisamente propositiva, sul perché andare a sviluppare videogiochi indie, nonostante tutto.

Nondimeno, mi sono trovato a riflettere su tutta una serie di punti, che ho voluto discutere qui sotto, dopo aver passato diverse ore ad analizzare tutto il materiale legato alla comunicazione di The Wreck, alle sue recensioni ecc.

Un paio di cose prima di cominciare: ci sono tutta una serie di dati interni che non conosco. Bisognerebbe, per esempio, capire quanto è costato il gioco, sulla base di quante persone ci hanno lavorato per quanto tempo. Mi sono fatto un’idea indicativa, ma evito di fare troppe supposizioni in merito.

The Wreck

Cosa mi sta raccontando The Wreck?

Parto con quello che è il problema di fondo. Tutti gli altri punti sono importanti, sì, ma alcuni sono più che altro dei corollari di quanto detto qui.

Al videogioco manca un tema riconoscibile.

Ci sono tanti temi che vengono presentati, andando sulla pagina di Steam, sulle recensioni ecc.

Ma quale dovrebbe essere il tema di fondo?

Ora, voglio che il mio discorso sia ben chiaro. Una storia può presentare un gran numero di tematiche, ma in generale – quando la storia funziona – ce n’è una al centro di tutto. Ed è quella che si lega all’arco di trasformazione del personaggio, per usare la terminologia di Dara Marks.

A prescindere dai termini, il personaggio si trova immerso in un conflitto, legato a un tema forte e a un qualcosa che lui o lei devono cambiare. Un “difetto fatale” che gli impedisce di andare nella giusta direzione, di prendere la direzione corretta, finché non si scioglie questo nodo interiore.

Sulla pagina di The Wreck leggo che il gioco è «Una visual novel 3D dai contenuti maturi che parla di sorellanza, maternità, lutto e sopravvivenza».

“Sorellanza” e “maternità” possono ancora ancora essere accorpabili, così come si può trovare un vago legame tra “lutto” e “sopravvivenza”, per quanto sia già necessario un salto logico. Ma, al fondo, di cosa parla questa storia? Quale tra questi è il punto centrale, il perno della vicenda? Se poi si guarda il post di Florent su Reddit, l’ampiezza cresce ulteriormente: « It deals with themes that have been haunting me since I became a dad, such as family relationships, love, loss, grief, and the ability to face even the worst things that can happen in our lives». E possiamo anche aggiungerci perlomeno l’autolesionismo e le relazioni tossiche.

The Wreck è difficile da riassumere, da “impacchettare” in modo rapido e funzionale in una presentazione che possa raggiungere le persone in target.

Riporto la descrizione presente su Steam: «All’età di 36 anni, la vita di Junon è allo sfascio: la sua carriera ristagna, è emotivamente apatica e la sua vita privata sta andando a rotoli. Il tutto raggiunge il culmine quando riceve una telefonata dal pronto soccorso e trova sua madre, con la quale non è più in contatto, in condizioni critiche. È il giorno più importante della vita di Junon e, a meno che qualcosa non cambi, potrebbe anche essere l’ultimo».

È vaga, troppo vaga, e apre la strada a un numero di sviluppi troppo differenti e difficili da comprendere a fondo. Forse è scritta male, ma temo che – per quanto detto in precedenza – sia proprio difficile riuscire a condensarla in modo efficace.

John Truby, nel suo Anatomia di una storia, parla di quanto sia importante la premessa drammaturgica, ovvero «la combinazione più semplice di trama e personaggio, [che] consiste in genere in un evento che dà l’avvio all’azione seguito da una descrizione sommaria del protagonista e dell’esito della storia» (Dino Audino, 2009, p. 16). Alcune storie non hanno chissà quale scavo psicologico o profondità, ma funzionano in maniera ottimale perché si riesce a mostrare in modo chiaro, immediato e diretto una premessa drammaturgica interessante.

Il fruitore – va anche detto – non andrà necessariamente a leggere la premessa drammaturgica in sé, ma questa sarà comunque alla base del modo con cui quella storia gli sarà comunicata.

Ma nel caso di The Wreck faccio fatica a trovare una premessa drammaturgica chiara ed efficace da esprimere in poche righe. Non saprei su cosa puntare. Sul fatto che la protagonista sia una sceneggiatrice e che ci sia un forte focus sulla scrittura? Sul lutto? Sulla vicinanza e la conflittualità intergenerazionale? Altro ancora?

Anche immaginando di poter trovare “il sugo” della storia, per usare un’espressione manzoniana, e già su questo ho qualche dubbio, di certo tutto ciò non è emerso nella comunicazione del videogioco. Non in modo efficace, perlomeno.

Sembra di essere davanti a un nuovo Where the Water Tastes Like Wine: un videogioco con alcune idee estremamente interessanti, ma anche molto difficili da comunicare in modo funzionale, e per di più affossato da tutta una serie di problematiche comunicative e ingenuità varie. Alcune di queste sono indicate dal creatore stesso nel postmortem del videogioco, ma non sono le sole. Probabilmente dedicherò un contributo alla vicenda di questo videogioco, in futuro, in cui approfondire tutta un’altra serie di questioni.

Where the Water Tastes Like Wine aveva venduto circa 2000 copie nel suo primo mese. Proprio come The Wreck nello stesso periodo di tempo, stando alla dichiarazione di Florent. Where the Water Tastes Like Wine ha poi continuato a vendere nel tempo e anche il postmortem generò un po’ di attenzione sul videogioco, ma siamo comunque sempre rimasti ben lontani da un buon risultato. Anche The Wreck, molto probabilmente, avrà la sua coda lunga di vendite e qualche impennata, magari dettata anche dall’onesto post di Florent su Reddit, ma – salvo miracoli – nulla di più.

Ed è un peccato, perché The Wreck ha diverse cose da poter dire. Così come le aveva Where the Water Tastes Like Wine. Ma bisogna saper far capire alle altre persone, possibilmente in modo rapido e ben mirato, che cosa si ha da raccontare, altrimenti è tutto inutile.

E, attenzione, ciò non significa svendersi, cambiare videogioco, fare il prodotto “per la massa” o chissà cosa. Significa avere consapevolezza di ciò che si ha tra le mani e, soprattutto, a chi ci si dovrebbe rivolgere.

Aggiungo un’ultima cosa, prima di riflettere più nel dettaglio su alcuni di questi aspetti. Ci sono videogiochi che non hanno bisogno di chissà quale premessa drammaturgica, ma anche loro devono far capire in modo efficace e diretto che tipo di videogioco sono, in termini di meccaniche e dintorni. Un esempio pratico e funzionale per me rimane l’analisi di Ryan Clark su Crypt of the Necrodancer, da questo punto di vista. Il fatto che The Wreck sia un videogioco fortemente narrativo rende però tanto più necessario puntare su questi aspetti.

Non c’è nulla di male nelle nicchie

Riporto il seguente passaggio del già citato post di Reddit, perché lo trovo particolarmente significativo:

«Here’s the thing: we’ve always known The Wreck would be a tough game to market and sell. First, it hardly fits in one particular genre, but the family it’s closest to, the visual novels (it’s not really one, but hey), often ranks among the worst sellers on Steam. Then, there’s the theme. Today’s world is a tough place, and people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it. Making a game about sick mothers and dysfunctional love relationships and terrible car crashes and then, woops, I almost spoiled the whole thing for you… let’s say, very sad stuff… Well, that was bound not to appeal to everyone – even though there definitely is an audience for deep, cathartic stories (as movies, books and graphic novels show)».

Già è interessante notare come non si riesca, neanche qui, a far capire bene cosa sia The Wreck. Non che si debba incasellare tutto, ma, come detto, sarebbe utile trovare una chiave per far arrivare in modo chiaro il prodotto ai potenziali acquirenti.

Sottolineo quest’ultima cosa: ai potenziali acquirenti.

The Wreck è una quasi-ma-non-proprio visual novel. Diamo un attimo per buono che lo sia a sufficienza e che possa piacere a chi, in generale, ama le visual novels, che sono un genere di nicchia.

Qui la cosa viene presentata come un elemento di difficoltà, ma non lo è necessariamente. Anzi, in moltissimi casi è molto più semplice puntare su una nicchia vitale e attiva che sul mainstream, specialmente quando si è “piccoli”. Ci sono degli ovvi problemi quando si toccano produzioni multimilionarie, perché allora la nicchia potrebbe non essere sufficiente, anche saturandola tutta. Ma per un videogioco come The Wreck e tantissimi altri non ci sarebbe alcun problema.

Puntare su una nicchia, anzi, ha il vantaggio di sapere a chi ci si vede rivolgere, quali sono le cose che gli piacciono, le parole su cui far leva per attirare la loro attenzione, e via dicendo. Per cui si può partire da lì, sapendo di avere una base di persone interessate e poi, partendo da lì, si può eventualmente tentare di allargarsi e raggiungere anche altre tipologie di persone.

Faccio un esempio letterario che è ben più “estremo”, in termini di nicchia, di The Wreck e delle visual novels. Io sono un amante della bizarro fiction e di Carlton Mellick III in particolare. Ci ho anche scritto un articolo accademico un paio di anni fa. Le opere di Mellick e di altri esponenti del genere sono tutto tranne che mainstream, sono sufficienti anche solo i titoli per farsene un’idea.

Però c’è una nicchia di persone interessate a quel genere di storie, su cui si può facilmente contare. Se scopro che Mellick ha pubblicato un nuovo romanzo lo compro volentieri, così come se mi arriva la notizia di un libro interessante di un’altra persona legata al genere. Ma questa uscita deve essere comunicata a me e alle altre persone della nicchia, in primo luogo. Non avrebbe alcun senso lanciare The Haunted Vagina nelle librerie e proporlo a chi legge Roberto Saviano o Chiara Gamberale. Richiederebbe un dispendio enorme di energie (anche monetarie) a fronte di un rientro minimale.

Ci sarebbero lettori e lettrici lì fuori che potrebbero innamorarsi di The Haunted Vagina o di I Knocked Up Satan’s Daughter? Sì, certamente, ma partire da loro con una comunicazione generica non sarebbe proprio funzionale, come strategia. Dubito che Mellick potrà mai fare i numeri di J.K. Rowling, ma non ha nemmeno la necessità di doversi mettere a competere con Harry Potter o qualsiasi altro best-seller.

The Wreck ha fatto qualcosa di mirato per parlare alla nicchia – peraltro ben più ampia dei lettori di bizarro fiction – di chi gioca a visual novels, videogiochi story-driven e dintorni? A me non sembra. Può essere che mi sia sfuggito qualche materiale o qualche iniziativa, ma quanto vedo è tutto molto generico. Ci sono troppi pochi elementi che possano raggiungere in maniera semplice e organica quel gruppo di appassionati. Certo, si può puntare sul progressivo passaparola, ma puntare su quello e basta significa fare marketing della speranza: comunichiamo un po’ a chiunque e poi speriamo che gli effettivi appassionati ci giochino e inizino a consigliarlo ad altri appassionati. Oppure sperare che arrivi un content creator che faccia esplodere la fama del gioco, ma questo capita poche volte e, anche in quelle particolari eccezioni, sono videogiochi molto diversi da The Wreck.

Sul passaggio del «people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it» ho qualche perplessità, ma servirebbero più dati empirici per poter confermare o smentire. Per quanto possa forse esserci – in termini assoluti – una base di verità se si guarda il medium nel suo insieme, direi che ci sono tanti videogiochi che hanno performato bene pur mantenendosi molto aderenti alla realtà e presentando anche tematiche non semplici. That Dragon, Cancer è probabilmente uno degli esempi più immediati che vengono in mente.

Ma That Dragon, Cancer è molto più chiaro nel definire quale sia il “sugo” della sua storia: «Joel Green’s 4-year fight against cancer». Poi, intorno a questo, ci sono la morte, la religione, l’amore familiare e tanto altro ancora, ma si capisce subito in che direzione ci si sta muovendo. Poi, certo, un That Dragon, Cancer probabilmente venderà sempre meno di un Dark Souls, ragionando per esempi stereotipici, ma non è all’acquirente tipico di Dark Souls che si sta parlando. Però, come dicevo, questo aspetto richiederebbe un supplemento di indagine. Ma il discorso si potrebbe fare anche sullo stesso Bury Me, My Love, sempre sviluppato da The Pixel Hunt, che ha un’idea di fondo molto più chiara, non offre comunque chissà quale fuga dalla realtà e non ha delle tematiche proprio “allegre”, ma ha venduto molto più di The Wreck.

Nel post su Reddit ci sono anche delle suggestioni, che seguono quanto si è detto sul fatto che un pubblico per un videogioco come questo ci sia: « It just makes me sad that The Wreck is out there and they don’t know about it, because no matter how much effort we put on spreading the word, there’s so many excellent games, and so much fight for attention, that being noticed is super, super complicated».

E questo è verissimo. Solo nei primi mesi del 2022 erano usciti 6000 nuovi videogiochi su Steam. E, tra questi 6000, c’è ovviamente parecchia robaccia, giochi troll e dintorni, ma ci sono anche tantissimi prodotti validi, per cui è chiaro che la competizione sia spietata. Non solo per il guadagno, ma proprio per l’attenzione stessa. Proprio per questo, allora, è necessario ragionare su chi sia la mia “nicchia”, come raggiungerla, che cosa raccontarle del mio gioco ecc.

Io stesso sono piuttosto in target con The Wreck, ma nessuno dei materiali promozionali mi ha fatto scattare chissà quale curiosità sul fatto di volerci giocare. Non una curiosità sufficientemente forte da farmi dire “sì, voglio dedicare parte del mio tempo proprio a questo videogioco”, perlomeno. Scorrendo i commenti al post, vedo peraltro di non essere l’unico. E, sempre in quei commenti, vedo che c’è anche chi ha dato dei consigli concreti e mirati su dove promuovere il videogioco per raggiungere gli appassionati di visual novels.

In molti casi, poi, all’interno di una nicchia la competizione si sovrappone a una sorta di cooperazione più o meno indiretta, soprattutto quando la nicchia è piccola e ben motivata. Tornando all’esempio della bizarro fiction, se io compro i libri di Mellick sarò poi più propenso a voler perlomeno provare anche quelli di Mykle Hansen, di Gina Ranalli o altri, e viceversa. Così come molti appassionati dei tower defense finiscono per comprarli un po’ tutti quanti, tanto per fare un esempio videoludico. E un videogioco come The Wreck non deve competere in qualche segmento grande e iper-saturo. In parte – certo – si trova a competere non solo con tutti gli altri videogiochi, ma con tutto il settore dell’intrattenimento. Questa è la guerra del tempo che riguarda tutte le industrie creative, e da lì non si scappa. Togliendo però questa condizione di fondo… tutto sommato non è che debba sgomitare con migliaia di altri prodotti, all’interno della sua nicchia. Anzi, avrebbe probabilmente modo di trarre vantaggio da un pubblico già interessato ad altri videogiochi similari, se riuscisse a parlar loro in modo coerente.

Ah, c’è anche un probabile problema percettivo di prezzo. Può avere un suo senso nell’ottica del “mantenerlo alto per puntare ai saldi” o simili, ma è certamente una riflessione che andrebbe fatta, attraverso un confronto con tutta una serie di comparables. Non è la sede per discutere su quel che un videogioco “dovrebbe” costare in senso assoluto, ma di certo 19 euro è un prezzo respingente per un gran numero di persone, dinnanzi a un prodotto come questo.

Videogiochi per professione o per hobby

Un paio di anni fa mi è stato chiesto di scrivere un libro sulle professioni del videogioco: Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali. Un aspetto del libro che diverse persone mi hanno detto di aver apprezzato è la sua parte iniziale, in cui parlo dello sviluppare videogiochi per hobby o per lavoro. Se sviluppare videogiochi è il proprio lavoro, significa che con quell’attività si pagano bollette e spesa, per cui significa anche approcciarsi a essi con un approccio attento. Come ho detto sopra, ciò non deve essere inteso come “facciamo la commercialata”, anche perché non tutti possono competere efficacemente in quell’ambito. Ma può significare scegliere una nicchia, capire cosa gli piace e come raggiungerla. E poi, sulla base di quello, capire quale prodotto proporre loro e in che modo.

Se invece i videogiochi sono un hobby tutto cambia. Anche qui, hobby non significa per forza “lo faccio gratis”. Si può guadagnare anche da un hobby e a volte le cifre possono essere interessanti, ma l’approccio è differente. Se quel videogioco vende poco o nulla non mi sono esposto economicamente. Posso rimanere insoddisfatto per il fatto che abbia raggiunto poche persone o cose del genere, ma ho una maggiore tranquillità.

Non conosco abbastanza la situazione di Florent per poter dire dove si collochi lo sviluppo di The Wreck. Mi sembra comunque che abbia preso la cosa con positività e questo mi fa piacere. Spero soprattutto che non abbia avuto una esposizione monetaria troppo forte legata a questo videogioco.

C’è però un ulteriore punto, che ho visto sottolineato in almeno un commento al post: lo sto facendo per me o per gli altri?

Anche questo ha molto a che fare con il binomio lavoro/hobby. Quando faccio qualcosa per hobby, posso farla primariamente per me. Posso scrivere – tanto per dire – un romanzo partendo da un’idea che mi interessa tantissimo, e lo faccio per me stesso, perché magari ritengo che la scrittura sia terapeutica. Poi magari autopubblico quel romanzo e scopro che interessa a qualche centinaio di persone.

Ma se scrivessi romanzi per mestiere? Allora dovrei pensare anche agli altri. John Truby sottolinea questo “anche”. Scrivere solo per sé stessi è autoreferenziale, forse persino egoista in certe situazioni. Scrivere solo per gli altri è spesso poco interessante, talvolta alienante. Si può fare in determinate occasioni, ma a lungo andare è difficile che sia la soluzione.

Bisogna, allora, trovare una via di mezzo. Qualcosa che possa “cambiarci la vita”, per usare sempre le parole di Truby, ma che sappiamo possa risuonare con altre persone. Non con tutte quante, quello è impossibile, ma almeno con una buona dose di persone all’interno della nicchia che ho scelto.

La storia scelta è troppo personale? Non credo che sia necessariamente quello il punto. Ci sono storie altrettanto personali che trovano però un pubblico ben più ampio e motivato ad accoglierle. Alle volte è semplice fortuna, quella può sempre saltare fuori, ma in altre occasioni è perché c’è quel punto di incontro di cui parlava Truby: qualcosa che possa interessare al mio pubblico e anche a me.

Leggendo il post, ho il timore che Florent abbia ragionato solamente sul “voglio raccontare questa storia personale”, riflettendo poco su chi avrebbe poi fruito di quella storia. Poi magari ci sono state delle riflessioni, ma anche in quel caso credo che qualcosa si sia inceppato.

Le recensioni

Torno a citare il post di Florent: « Then came the big day, and with it, the first reviews. And they were… Incredibly good. I mean, really good. Rock Paper Shotgun’s Bestest best good. 9/10 on Pocket Tactics, 8/10 on Gamespew and 8.5 on Well Played good. We were absolutely ecstatic, and we started believing that, maybe, this excellent reception was a sign of a nice commercial success to come».

È qualcosa che ho già visto anche in passato, con Where the Water Tastes Like Wine e non solo. Ricordo anche il caso di Sunset dei Tale of Tales, tanto per fare un altro esempio che vorrei analizzare in un futuro spero prossimo.

Le recensioni hanno poco o nulla a che fare con le vendite. Non è un discorso di lontananza tra pubblico e critica, per quanto – soprattutto al di fuori del medium videoludico – vengono in mente diversi esempi emblematici in tal senso. Anche quando c’è un allineamento tra opinioni del pubblico e della critica, il pubblico potrebbe rimanere un gruppo estremamente ristretto. Che magari conferma le opinioni della critica, ma che non viene influenzato da essa.

In merito a questo punto segnalo un paio di miei precedenti articoli, uno sul giornalismo videoludico e uno sulla critica videoludica, per chi volesse approfondire, visto che lì avevo già toccato la questione, citando diverse fonti in merito.

Volendo qui riassumere la questione: la recensione non sposta vendite. Può avere un’altra utilità, ma non ha più (se mai lo ha effettivamente avuto) questo potere.

Sicuramente le diverse recensioni, nell’insieme, qualche vendita la hanno prodotta, quello sì. In molti casi perché hanno semplicemente fatto sì che The Wreck raggiungesse qualche persona in target che non conosceva il videogioco.

Non so però quante possano essere queste persone. Anche immaginando che 2-300 acquirenti siano giunti dalle recensioni, non sono numeri che possono impattare più di tanto in un simile contesto. E, pensando a casi analoghi su cui è emerso qualche dato, sono forse numeri anche ottimistici.

Certo, le recensioni aiutano a far capire che un videogioco esiste, come è emerso in diversi casi (come detto, ho approfondito altrove), ma di per sé non sono un indicatore affidabile.

Ulteriori disallineamenti

Chiudo segnalando un ulteriore disallineamento. Marginale, rispetto ad altre questioni, ma comunque significativo. Sembra esserci una generale ritrosia nel voler dire di cosa si parla in The Wreck. Lo si vede anche nel post di Florent, ma questo attraversa tutta la comunicazione. Capisco che ci sia la necessità di evitare lo spoiler, ma tutto ciò stride con l’altra necessità, quella di mettere tutta una serie di trigger warning sui contenuti potenzialmente “disturbanti” del videogioco.

Trovo che la combinazione di queste due cose abbia contributo a produrre una comunicazione molto disallineata, in cui si accenna costantemente a certe tematiche (come detto sopra, fin troppo numerose) senza però far mai capire cosa potremmo effettivamente aspettarci.

Naturalmente gioco – fase I: raccolta di contributi

Qui di seguito la call for papers per i contributi legati al progetto, dedicato a videogiochi e ambiente, col fine di organizzare una raccolta fondi.

AGGIORNAMENTO: la call for papers è CHIUSA. Forniremo in futuro informazioni sul testo, quando sarà prossimo alla pubblicazione. Tenete d’occhio questo sito o i miei profili social per maggiori informazioni.

Raccolta contributi su videogiochi e natura, per un libro di beneficenza

Videogiochi per l’ambiente

Il futuro è qualcosa che noi costruiamo. Se, però, manca la speranza, cosa si può costruire?

L’incertezza spaventa. È chiaro. Tutte le grandi certezze del passato sembrano crollate, si affronta una crisi (economica, geopolitica, sanitaria, ecc.) dopo l’altra e sembra impossibile riuscire a pianificare. Osservando l’ambiente, inoltre, il quadro sembra ancora più inquietante.

Crescono le risposte, in tal senso, e questo è sicuramente positivo. Si nota però un elemento, al loro interno. Nella maggior parte dei casi è la negazione a prevalere, il “non fare”. È chiaro che la riduzione o il mutamento di determinate pratiche sia un punto focale, ma manca l’altro versante.

In senso attivo, propositivo, che cosa posso fare io?

Ci vorrebbero più iniziative legate a un cambiamento attivo e propositivo. Qualcosa che segua L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono, tanto per fare un esempio concreto.

Per questo abbiamo deciso di lanciare un’iniziativa corale, finalizzata a una raccolta fondi per chi si occupa di tutto questo. Così che possa attingere a nuove risorse per mantenere il patrimonio boschivo già presente e per arricchirlo con nuovi alberi.

Ci rivolgiamo, primariamente, a chi segue il mondo dei videogiochi, per lavoro o per passione.

Perché proprio a queste persone?

Intanto perché è anche il nostro mondo. È quello che conosciamo dall’interno e sappiamo quanto sia ricco di persone capaci e – nonostante quel che si potrebbe pensare dall’esterno – attente a questioni sociali e ambientali.

In secondo luogo perché sembrano due mondi lontanissimi tra di loro, ma hanno in realtà tanti punti di contatto. Pensiamo, per esempio, alla capacità che hanno i videogiochi di generare awareness e attenzione a proposito di tematiche ambientali.

Un caso concreto, molto bello, è la campagna “To The Last Tree Standing” realizzata nel 2017 dall’agenzia pubblicitaria Ogilvy Poland per Greenpeace. Se volete approfondire questo caso, potete leggere la tesi di Gaia Amadori, che ha vinto il premio Archivio Videoludico 2020 per la migliore tesi sui videogiochi.

Nel nostro caso, noi abbiamo deciso di collaborare con una realtà italiana: l’Oasi Lipu Bosco del Vignolo di Garlasco, in provincia di Pavia.

Perché il Bosco del Vignolo?

Perché questa Oasi Lipu è un simbolo di rinascita. Negli anni sessanta e fino agli anni ottanta, in questa zona non c’erano prati e boschi: c’erano una discarica di rifiuti solidi e una pista da motocross gestita da privati. Poi però, negli anni successivi, cominciarono a esserci dei ripensamenti, sulla destinazione di quell’area, con tutta una serie di iniziative che hanno infine visto la nascita dell’Oasi Lipu, nel 1998. Da allora la sua superficie si è estesa, passando dai sette ettari iniziali agli oltre venticinque attuali.

Visitando oggi il bosco, sono ancora rintracciabili alcuni indizi della sua natura passata, ma la trasformazione è enorme, con una grande varietà di ambienti che ospitano numerose specie animali.

Dove c’era la discarica a cielo aperto, i rifiuti sono stati ricoperti da spessi teli, a loro volta ricoperti di terra, su cui sono stati piantati degli alberi. Si cammina sui resti dell’antica discarica, su cui però la natura – con un piccolo aiuto – ha avuto modo di riprendere i propri spazi.

Mi sembra un’ottima immagine di rinascita e di speranza, oltre che di ripensamento del rapporto con la natura. A volte non è semplice o immediato far scomparire gli errori del passato. E infatti lì, sotto alla superficie, quei rifiuti sono ancora presenti. Ma ciò non significa arrendersi all’idea che tutto dovrà continuare ad andare così. Si può intervenire per cambiare gli eventi. E trasformare un cumulo di rifiuti in un’altra parte del bosco.

Non solo: il suo responsabile, Fausto Pistoja, appassionato di natura (e di botanica in particolare), ha fondato un’associazione che si occupa di forestazione seguendo un metodo molto promettente, il metodo Miyawaki. L’associazione si chiama Tiny Forest Italia e il loro motto è: “Noi non piantiamo alberi, creiamo piccoli ecosistemi!”. Al loro attivo hanno già la creazione di 2 Tiny Forest, fra cui la prima piccola foresta italiana in ambito scolastico.

Non precludiamo comunque di portare avanti iniziative analoghe, in futuro, anche con altre realtà.

Ok, mi piace. Cosa posso fare?

Mandare un contributo!

Vogliamo che il libro sia un bel progetto corale, con tante voci differenti coinvolte, ciascuna delle quali andrà a declinare il binomio di fondo tra videogiochi e ambiente.

Non vogliamo dare troppi limiti, in termini di ampiezza. C’è chi preferisce un piccolo contributo più agile, magari legato a qualche ricordo personale, e chi vuole invece cogliere l’occasione per approfondire un certo argomento, proponendo un saggio più ampio e strutturato.

Per cui il contributo potrà essere tra i 5000 e i 30.000 caratteri circa (spazi compresi).

Per l’eventuale inserimento di bibliografia scrivete a naturalmentegiocolibro@gmail.com chiedendo informazioni e vi manderemo le norme redazionali da seguire.

Vi chiediamo di NON mettere immagini per non andare a pesare sul costo di stampa.

Di cosa potete parlare?

Di una qualsiasi declinazione del rapporto tra videogiochi e ambiente.

Volete parlare di uno specifico videogioco? Va benissimo.

Volete parlare di una singola ambientazione all’interno di uno specifico videogioco? Va altrettanto bene. Se quel posto ha lasciato un segno nella vostra esperienza e avete abbastanza da dire, la scelta va benone.

Volete fare un discorso trasversale che vada a toccare più videogiochi? Ottimo.

Volete parlare di iniziative benefiche per l’ambiente in cui è entrato di mezzo il medium videoludico? Bene anche questo.

Più in generale, comunque, vi invitiamo a mandarci qualche riga a naturalmentegiocolibro@gmail.com in cui ci spiegate brevemente il vostro contributo, se avete dei dubbi. E di farlo prima di iniziare a scrivere. Così vi diremo se è qualcosa di troppo lontano dal filo conduttore del libro. O vi diremo anche se è già un argomento selezionato da altre persone (nel caso vedremo di trovare insieme a voi un modo differente per parlarne).

Vi chiediamo di mandare il vostro contributo definitivo entro il 15/06/2023 a naturalmentegiocolibro@gmail.com

Noi controlleremo i contributi e ve li rimanderemo con eventuali richieste di correzione, approfondimento ecc.

Di base ci interessa raccogliere il maggior numero possibile di contributi, per dare vita a un bel progetto corale. Quindi punteremo a sistemare insieme a voi il contributo, più che a scartarlo, se ci fosse qualche problema.

Nonostante questo, ci riserviamo l’eventuale possibilità di rifiutare un contributo, se dovesse presentare particolari problematiche.  

Bene, e poi?

E poi pubblicheremo il libro e partirà la raccolta fondi, con la fase II.

Ne parleremo in dettaglio in futuro, ma possiamo già dare qualche informazione.

Ci saranno due canali per la raccolta fondi. Canali che possono ovviamente essere combinati tra loro.

Uno sarà l’acquisto del libro in formato digitale o cartaceo. Io (Francesco Toniolo) raccoglierò i soldi e li donerò al Bosco del Vignolo. Pubblicherò sul mio sito personale e segnalerò sui social l’entità della donazione, spiegando anche la cifra.

Detto chiaro e tondo: non terrò un euro per me, ma ovviamente bisognerà sottrarre dal prezzo di copertina i costi di stampa, distribuzione e dintorni.

Anche per questo stiamo ragionando su quale sia il canale migliore, per trovare il giusto equilibrio tra percentuale ricevuta e praticità.

Detto chiaro e tondo (di nuovo): questo esclude l’editoria tradizionale, in cui la stragrande maggioranza del prezzo di copertina (il 90% circa) NON finirebbe come donazione. Tra le forme di self publishing e simili, stiamo valutando la proposta che ci permetta di trovare una quadra. Perché, anche qui, se dovete spendere 10 euro di spedizione non è proprio il massimo, tanto per dirne una. Ovviamente i problemi riguardano soprattutto il cartaceo, ma ci teniamo a far sì che sia possibile avere anche un oggetto fisico, se lo si desidera.

C’è poi la seconda opzione: la donazione diretta. Lasceremo tutti i riferimenti sia all’interno del libro sia nelle varie pagine in cui parleremo dell’iniziativa.

Vi daremo comunque ulteriori indicazioni in futuro, quando partirà la fase due.

Un progetto a cura di:

Francesco Toniolo, PhD, insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia e alla NABA di Milano. Tiene anche delle lezioni in altre realtà come la scuola Mohole di Milano e il master di game design dell’Università di Camerino oltre a corsi di formazione per docenti e altro ancora. Le sue attività di insegnamento e le sue pubblicazioni riguardano principalmente i videogiochi, ma si è anche occupato di altri settori delle industrie culturali e creative. Ha pubblicato numerosi contributi accademici tra saggi, curatele, articoli in rivista e capitoli in miscellanee. Ha anche lavorato nella manualistica per le scuole secondarie di secondo grado, dove è in particolare coautore del manuale Corrispondenze. Scrive contributi divulgativi per realtà come «Everyeye.it», «FinalRound.it» e «La lettura delle ragazze e dei ragazzi» (l’inserto del «Corriere della sera»).

Chiara Ambrogio, laureata triennale e magistrale in comunicazione e marketing all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Videogiocatrice sin dall’infanzia e profonda conoscitrice del cinema d’animazione, ha sempre nutrito una grande passione verso l’universo dei media digitali in tutte le sue innumerevoli declinazioni. Nella vita si destreggia tra volontariato, attività di social media managing e la scrittura di articoli. Uno di questi, direttamente ispirato alla sua tesi di laurea triennale sul rapporto tra i videogiochi e il teatro, è stato pubblicato sul sito «IPID.dev» (Italian Party of Indie Developers) e successivamente ripreso dal portale «Everyeye.it». Il suo elaborato per il conseguimento della laurea magistrale si è occupato di analizzare il fenomeno (tanto sfuggente quanto capillare) della gamification.

Moushley: la topizzazione di Ashley Graham (RE 4)

Quanto segue è un mio piccolo contributo su Moushley, la versione di Ashley Graham (Resident Evil 4) come topolina, che sta girando sui social in questi giorni.

Più che una riflessione completa, sono come degli appunti o, se vogliamo, uno spin-off di altre mie più estese e strutturate riflessioni precedenti. Queste ultime le ho segnalate in fondo all’articolo.

Moushley

Meme magic

Tutto è iniziato su Twitter, nel profilo di Agrimmora, che ha immaginato Ashley Graham come un piccolo topolino. Non c’è un accordo assoluto sul perché di questa riproposizione, anche se sembra legarsi – secondo le opinioni di molti – alle orecchie di Ashley nella prima versione di Resident Evil 4. Delle orecchie che sarebbero state percepite come particolarmente grandi, degne di una topolina.

Il fenomeno è subito esploso, ricollegandosi a tutta un’altra serie di contenuti memetici preesistenti basati su topi e dintorni, tra cui It’s on the Mouse, Jerry di Tom e Jerry quando ingoia un pezzo intero di formaggio e molti altri. Così come, allo stesso modo, non sono mancate le riproposizioni legate a diversi stili di corti e lungometraggi d’animazione in cui appaiono dei topi, tra cui The Rescuers, noto in Italia come Le avventure di Bianca e Bernie.

Moushley in stile "Le avventure di Bianca e Bernie"
Moushley come se fosse un personaggio de Le avventure di Bianca e Bernie.

Capcom stessa ha deciso di seguire questa ondata memetico-produttiva, con un semplice ma chiaro tweet postato il 31 marzo, in cui si limita a inserire le emoji di un topo e di un pezzo di formaggio. Alla luce del successo di Moushley negli ultimi giorni si tratta di un messaggio chiarissimo.   

Nel trovarsi davanti a una simile notizia, alcuni commentatori hanno ricordato altri avvenimenti, come il peculiare culto nato in Russia, intorno alla figura di Gadget, chiamata Scheggia nel doppiaggio italiano, la topina inventrice della serie animata Cip e Ciop Agenti Speciali. In realtà, però, i punti di contatto non sono così stretti.

Zoomorfismi

Quanto si è visto è, semmai, un interessante caso di zoomorfizzazione fanmade. Interessante perché, se si osserva il medium videoludico nel suo insieme (a livello “ufficiale”, non di pratiche della community), ci si trova davanti a un grandissimo numero di animali antropomorfizzati, ma il caso contrario è meno diffuso. Ci sono, certo, eccezioni anche illustri, come Night in the Woods (2017), i cui personaggi sono degli esseri umani, rappresentati però come se fossero animali. Tolte queste eccezioni, però, è ben più forte l’altra tendenza rappresentativa, in cui vengono umanizzati animali di vario genere. In passato ho condotto una ricerca su queste rappresentazioni, con un particolare focus sul loro legame con la dimensione comunitaria (potete guardare questo mio articolo accademico, a tal proposito).

Qui ci si muove chiaramente in un altro contesto. Lontano anche dalle operazioni che si trovano talvolta nella community furry, in cui capita di trovare una zoomorfizzazione generale dei personaggi di un film, un videogioco o un altro prodotto di qualche genere. La reimmaginazione riguarda qui la sola Ashley Graham. Leon Kennedy e tutti gli altri personaggi di Resident Evil 4 rimangono degli esseri umani.

Ragionando in termini furry, si potrebbe forse immaginare Moushley come la fursona di Ashley. La fursona (contrazione dei termini “furry” e “persona”) è una sorta di alter ego che hanno numerosi furry (addirittura “quasi tutti”, secondo Reysen et al. 2019, p. 2), che condivide alcune caratteristiche con la persona che l’ha ideata, sebbene possano esserci scollamenti comportamentali e caratteriali tra le due (Plante et al. 2015; Plante et al. 2016). Di solito la fursona è una versione più fiduciosa, sicura di sé e capace del furry che si rispecchia in essa (Roberts et al. 2015), con un certo desiderio proiettivo alla base. In larga misura, l’attività di creazione della propria fursona non nasce dal tentativo di essere non umani, visto che, in ultima analisi, essa è legata alla performance dell’antropomorfismo (Dunn 2019, p. 4).

Conviene anche precisarlo: Moushley non è in senso stretto la fursona di Ashley. Lo sarebbe se Ashley Graham fosse una ragazza reale, che decide di esprimere il proprio sé attraverso una fursona, in cui si immagina come un topo antropomorfo. O, ancor più precisamente, se vedesse in quel topo antropomorfo una versione ampliata, “arricchita”, del proprio sé (Dunn 2019, p. 5).

Nondimeno, il parallelismo aiuta a introdurre la componente performativa legata all’operazione.

Le ere performative di Resident Evil

Resident Evil 4 è stato un punto di svolta nell’approccio del fandom alla serie. La sua uscita è arrivata in concomitanza con un momento espansivo delle pratiche fanmade su internet, che negli anni successivi avrebbero anche portato alla nascita di numerosi video su YouTube, in cui i personaggi della serie venivano presentati in un’ottica performativa.

Ashley e Leon nel video "Resident Evil Numa REMake" di Shadowleggy
Ashley e Leon nel video “Resident Evil Numa REMake” di Shadowleggy

Erano loro, ma al tempo stesso stavano interpretando un ruolo, soprattutto durante numerosi video musicali. Ho trattato più nel dettaglio la questione altrove, per cui rimando alle letture ulteriori più sotto per approfondimenti. Qui ci si può limitare a ricordare come Resident Evil 4 abbia chiuso una fase, in tal senso. I personaggi dei successivi Resident Evil hanno infatti perso questa caratteristica, in larga parte. Non sono mancati – è chiaro – riferimenti memetici a Resident Evil 5, ma essi sono nati internamente al gioco stesso, con ben poca rielaborazione. Chris che prende a pugni i sassi, Wesker coi suoi “7 minutes” e dintorni. C’è ben poco di quell’elemento performativo e trasformativo sopra indicato, di quel gioco delle parti in cui la community va a ripensare i personaggi della serie.

Questo, almeno, fino a Resident Evil Village, che ha dato una seconda svolta in tal senso, aprendo una nuova fase di possibilità. Anche qui, come sopra, rimando alle letture di approfondimento.

Il remake di Resident Evil 4 era allora da guardare con particolare attenzione, da questo punto di vista. Potrebbe essere presto per una piena valutazione complessiva, ma il fenomeno di Moushley è un buon indicatore. Soprattutto perché è divenuto relativamente mainstream, uscendo dalle nicchie in cui simili operazioni sono ricorrenti, senza però andare a toccare la massa. Se, per capirsi, Moushley fosse nata in un ambiente come Furaffinity, e lì fosse rimasta, il fenomeno sarebbe stato per certo da ridimensionare. Così, invece, ha un portato decisamente più ampio, indice di una certa voglia di ripensamento performativo legato ai personaggi di questo videogioco.

Anche se, va detto, il vero banco di prova sarà l’eventuale remake di Resident Evil 5, per capire se i suoi personaggi verranno a loro volta inseriti in quel gioco delle parti da cui erano rimasti in larga parte esclusi, in passato, o se quanto avvenuto con Village e con il remake di Resident Evil 4 non avrà lasciato un segno sufficiente.

Bibliografia

Dunn J. (2019), Self as Gem, Fursona as Facet(s): Constructions and Performances of Self in Furry Fandom, «Award Winning Anthropology Papers», 5.

Plante C. N., Roberts S. E., Reysen S., Gerbasi K. C. (2015), ‘By the numbers’: Comparing furries and related fandoms, in Howl T. (Ed.), Furries among us: Essays on furries by the most prominent members of the fandom, Thurston Howl Publications, Nashville, pp. 106–126.

Plante C. N., Reysen S., Roberts S. E., Gerbasi K. C. (2016), FurScience! A summary of five years of research from the International Anthropomorphic Research Project, FurScience, Waterloo, Ontario.

Reysen S., Plante C. N., Roberts S. E., Gerbasi K. C. (2019), My Animal Self: The Importance of Preserving Fantasy-Themed Identity Uniqueness, «Identity: An International Journal of Theory and Research», vol. 20, pp. 1-8.

Roberts S. E., Plante C. N., Gerbasi K. C., Reysen S. (2015), Clinical interaction with anthropomorphic phenomenon: Notes for health professionals about interacting with clients who possess this unusual identity, «Health & Social Work», vol. 40, pp. 42-50.

Letture ulteriori sull’argomento (miei contributi):

(2022) Geiru Toneido: corpi post-ludici ed ero-carnevale. Su questo sito.

(2021) Lady Dimitrescu: fenomenologia di una vampira. Su questo sito.

(2021) Alcina Dimitrescu di RE Village: la performance e l’interesse dei fan, «Everyeye».

(2021) Antro-zoomorfismo videoludico e rappresentazioni comunitarie, «Altre Modernità», 26, pp. 232-245. QUI.

(2020) La costruzione della fursona come antimimesi dell’umano e timore della copia, «Elephant&Castle», 24, 2020, pp. 1-24. QUI.

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