Ho letto il post su Reddit “Why the hell do we even bother making indie games?” di Florent Maurin (The Pixel Hunt), che ha di recente pubblicato The Wreck.
Il videogioco non è andato molto bene, in termini di vendite, per usare un eufemismo. Il post non parla solo di quello, e c’è una parte che ho trovato decisamente propositiva, sul perché andare a sviluppare videogiochi indie, nonostante tutto.
Nondimeno, mi sono trovato a riflettere su tutta una serie di punti, che ho voluto discutere qui sotto, dopo aver passato diverse ore ad analizzare tutto il materiale legato alla comunicazione di The Wreck, alle sue recensioni ecc.
Un paio di cose prima di cominciare: ci sono tutta una serie di dati interni che non conosco. Bisognerebbe, per esempio, capire quanto è costato il gioco, sulla base di quante persone ci hanno lavorato per quanto tempo. Mi sono fatto un’idea indicativa, ma evito di fare troppe supposizioni in merito.
Cosa mi sta raccontando The Wreck?
Parto con quello che è il problema di fondo. Tutti gli altri punti sono importanti, sì, ma alcuni sono più che altro dei corollari di quanto detto qui.
Al videogioco manca un tema riconoscibile.
Ci sono tanti temi che vengono presentati, andando sulla pagina di Steam, sulle recensioni ecc.
Ma quale dovrebbe essere il tema di fondo?
Ora, voglio che il mio discorso sia ben chiaro. Una storia può presentare un gran numero di tematiche, ma in generale – quando la storia funziona – ce n’è una al centro di tutto. Ed è quella che si lega all’arco di trasformazione del personaggio, per usare la terminologia di Dara Marks.
A prescindere dai termini, il personaggio si trova immerso in un conflitto, legato a un tema forte e a un qualcosa che lui o lei devono cambiare. Un “difetto fatale” che gli impedisce di andare nella giusta direzione, di prendere la direzione corretta, finché non si scioglie questo nodo interiore.
Sulla pagina di The Wreck leggo che il gioco è «Una visual novel 3D dai contenuti maturi che parla di sorellanza, maternità, lutto e sopravvivenza».
“Sorellanza” e “maternità” possono ancora ancora essere accorpabili, così come si può trovare un vago legame tra “lutto” e “sopravvivenza”, per quanto sia già necessario un salto logico. Ma, al fondo, di cosa parla questa storia? Quale tra questi è il punto centrale, il perno della vicenda? Se poi si guarda il post di Florent su Reddit, l’ampiezza cresce ulteriormente: « It deals with themes that have been haunting me since I became a dad, such as family relationships, love, loss, grief, and the ability to face even the worst things that can happen in our lives». E possiamo anche aggiungerci perlomeno l’autolesionismo e le relazioni tossiche.
The Wreck è difficile da riassumere, da “impacchettare” in modo rapido e funzionale in una presentazione che possa raggiungere le persone in target.
Riporto la descrizione presente su Steam: «All’età di 36 anni, la vita di Junon è allo sfascio: la sua carriera ristagna, è emotivamente apatica e la sua vita privata sta andando a rotoli. Il tutto raggiunge il culmine quando riceve una telefonata dal pronto soccorso e trova sua madre, con la quale non è più in contatto, in condizioni critiche. È il giorno più importante della vita di Junon e, a meno che qualcosa non cambi, potrebbe anche essere l’ultimo».
È vaga, troppo vaga, e apre la strada a un numero di sviluppi troppo differenti e difficili da comprendere a fondo. Forse è scritta male, ma temo che – per quanto detto in precedenza – sia proprio difficile riuscire a condensarla in modo efficace.
John Truby, nel suo Anatomia di una storia, parla di quanto sia importante la premessa drammaturgica, ovvero «la combinazione più semplice di trama e personaggio, [che] consiste in genere in un evento che dà l’avvio all’azione seguito da una descrizione sommaria del protagonista e dell’esito della storia» (Dino Audino, 2009, p. 16). Alcune storie non hanno chissà quale scavo psicologico o profondità, ma funzionano in maniera ottimale perché si riesce a mostrare in modo chiaro, immediato e diretto una premessa drammaturgica interessante.
Il fruitore – va anche detto – non andrà necessariamente a leggere la premessa drammaturgica in sé, ma questa sarà comunque alla base del modo con cui quella storia gli sarà comunicata.
Ma nel caso di The Wreck faccio fatica a trovare una premessa drammaturgica chiara ed efficace da esprimere in poche righe. Non saprei su cosa puntare. Sul fatto che la protagonista sia una sceneggiatrice e che ci sia un forte focus sulla scrittura? Sul lutto? Sulla vicinanza e la conflittualità intergenerazionale? Altro ancora?
Anche immaginando di poter trovare “il sugo” della storia, per usare un’espressione manzoniana, e già su questo ho qualche dubbio, di certo tutto ciò non è emerso nella comunicazione del videogioco. Non in modo efficace, perlomeno.
Sembra di essere davanti a un nuovo Where the Water Tastes Like Wine: un videogioco con alcune idee estremamente interessanti, ma anche molto difficili da comunicare in modo funzionale, e per di più affossato da tutta una serie di problematiche comunicative e ingenuità varie. Alcune di queste sono indicate dal creatore stesso nel postmortem del videogioco, ma non sono le sole. Probabilmente dedicherò un contributo alla vicenda di questo videogioco, in futuro, in cui approfondire tutta un’altra serie di questioni.
Where the Water Tastes Like Wine aveva venduto circa 2000 copie nel suo primo mese. Proprio come The Wreck nello stesso periodo di tempo, stando alla dichiarazione di Florent. Where the Water Tastes Like Wine ha poi continuato a vendere nel tempo e anche il postmortem generò un po’ di attenzione sul videogioco, ma siamo comunque sempre rimasti ben lontani da un buon risultato. Anche The Wreck, molto probabilmente, avrà la sua coda lunga di vendite e qualche impennata, magari dettata anche dall’onesto post di Florent su Reddit, ma – salvo miracoli – nulla di più.
Ed è un peccato, perché The Wreck ha diverse cose da poter dire. Così come le aveva Where the Water Tastes Like Wine. Ma bisogna saper far capire alle altre persone, possibilmente in modo rapido e ben mirato, che cosa si ha da raccontare, altrimenti è tutto inutile.
E, attenzione, ciò non significa svendersi, cambiare videogioco, fare il prodotto “per la massa” o chissà cosa. Significa avere consapevolezza di ciò che si ha tra le mani e, soprattutto, a chi ci si dovrebbe rivolgere.
Aggiungo un’ultima cosa, prima di riflettere più nel dettaglio su alcuni di questi aspetti. Ci sono videogiochi che non hanno bisogno di chissà quale premessa drammaturgica, ma anche loro devono far capire in modo efficace e diretto che tipo di videogioco sono, in termini di meccaniche e dintorni. Un esempio pratico e funzionale per me rimane l’analisi di Ryan Clark su Crypt of the Necrodancer, da questo punto di vista. Il fatto che The Wreck sia un videogioco fortemente narrativo rende però tanto più necessario puntare su questi aspetti.
Non c’è nulla di male nelle nicchie
Riporto il seguente passaggio del già citato post di Reddit, perché lo trovo particolarmente significativo:
«Here’s the thing: we’ve always known The Wreck would be a tough game to market and sell. First, it hardly fits in one particular genre, but the family it’s closest to, the visual novels (it’s not really one, but hey), often ranks among the worst sellers on Steam. Then, there’s the theme. Today’s world is a tough place, and people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it. Making a game about sick mothers and dysfunctional love relationships and terrible car crashes and then, woops, I almost spoiled the whole thing for you… let’s say, very sad stuff… Well, that was bound not to appeal to everyone – even though there definitely is an audience for deep, cathartic stories (as movies, books and graphic novels show)».
Già è interessante notare come non si riesca, neanche qui, a far capire bene cosa sia The Wreck. Non che si debba incasellare tutto, ma, come detto, sarebbe utile trovare una chiave per far arrivare in modo chiaro il prodotto ai potenziali acquirenti.
Sottolineo quest’ultima cosa: ai potenziali acquirenti.
The Wreck è una quasi-ma-non-proprio visual novel. Diamo un attimo per buono che lo sia a sufficienza e che possa piacere a chi, in generale, ama le visual novels, che sono un genere di nicchia.
Qui la cosa viene presentata come un elemento di difficoltà, ma non lo è necessariamente. Anzi, in moltissimi casi è molto più semplice puntare su una nicchia vitale e attiva che sul mainstream, specialmente quando si è “piccoli”. Ci sono degli ovvi problemi quando si toccano produzioni multimilionarie, perché allora la nicchia potrebbe non essere sufficiente, anche saturandola tutta. Ma per un videogioco come The Wreck e tantissimi altri non ci sarebbe alcun problema.
Puntare su una nicchia, anzi, ha il vantaggio di sapere a chi ci si vede rivolgere, quali sono le cose che gli piacciono, le parole su cui far leva per attirare la loro attenzione, e via dicendo. Per cui si può partire da lì, sapendo di avere una base di persone interessate e poi, partendo da lì, si può eventualmente tentare di allargarsi e raggiungere anche altre tipologie di persone.
Faccio un esempio letterario che è ben più “estremo”, in termini di nicchia, di The Wreck e delle visual novels. Io sono un amante della bizarro fiction e di Carlton Mellick III in particolare. Ci ho anche scritto un articolo accademico un paio di anni fa. Le opere di Mellick e di altri esponenti del genere sono tutto tranne che mainstream, sono sufficienti anche solo i titoli per farsene un’idea.
Però c’è una nicchia di persone interessate a quel genere di storie, su cui si può facilmente contare. Se scopro che Mellick ha pubblicato un nuovo romanzo lo compro volentieri, così come se mi arriva la notizia di un libro interessante di un’altra persona legata al genere. Ma questa uscita deve essere comunicata a me e alle altre persone della nicchia, in primo luogo. Non avrebbe alcun senso lanciare The Haunted Vagina nelle librerie e proporlo a chi legge Roberto Saviano o Chiara Gamberale. Richiederebbe un dispendio enorme di energie (anche monetarie) a fronte di un rientro minimale.
Ci sarebbero lettori e lettrici lì fuori che potrebbero innamorarsi di The Haunted Vagina o di I Knocked Up Satan’s Daughter? Sì, certamente, ma partire da loro con una comunicazione generica non sarebbe proprio funzionale, come strategia. Dubito che Mellick potrà mai fare i numeri di J.K. Rowling, ma non ha nemmeno la necessità di doversi mettere a competere con Harry Potter o qualsiasi altro best-seller.
The Wreck ha fatto qualcosa di mirato per parlare alla nicchia – peraltro ben più ampia dei lettori di bizarro fiction – di chi gioca a visual novels, videogiochi story-driven e dintorni? A me non sembra. Può essere che mi sia sfuggito qualche materiale o qualche iniziativa, ma quanto vedo è tutto molto generico. Ci sono troppi pochi elementi che possano raggiungere in maniera semplice e organica quel gruppo di appassionati. Certo, si può puntare sul progressivo passaparola, ma puntare su quello e basta significa fare marketing della speranza: comunichiamo un po’ a chiunque e poi speriamo che gli effettivi appassionati ci giochino e inizino a consigliarlo ad altri appassionati. Oppure sperare che arrivi un content creator che faccia esplodere la fama del gioco, ma questo capita poche volte e, anche in quelle particolari eccezioni, sono videogiochi molto diversi da The Wreck.
Sul passaggio del «people tend to play games to escape from the real world rather than get dragged right back into it» ho qualche perplessità, ma servirebbero più dati empirici per poter confermare o smentire. Per quanto possa forse esserci – in termini assoluti – una base di verità se si guarda il medium nel suo insieme, direi che ci sono tanti videogiochi che hanno performato bene pur mantenendosi molto aderenti alla realtà e presentando anche tematiche non semplici. That Dragon, Cancer è probabilmente uno degli esempi più immediati che vengono in mente.
Ma That Dragon, Cancer è molto più chiaro nel definire quale sia il “sugo” della sua storia: «Joel Green’s 4-year fight against cancer». Poi, intorno a questo, ci sono la morte, la religione, l’amore familiare e tanto altro ancora, ma si capisce subito in che direzione ci si sta muovendo. Poi, certo, un That Dragon, Cancer probabilmente venderà sempre meno di un Dark Souls, ragionando per esempi stereotipici, ma non è all’acquirente tipico di Dark Souls che si sta parlando. Però, come dicevo, questo aspetto richiederebbe un supplemento di indagine. Ma il discorso si potrebbe fare anche sullo stesso Bury Me, My Love, sempre sviluppato da The Pixel Hunt, che ha un’idea di fondo molto più chiara, non offre comunque chissà quale fuga dalla realtà e non ha delle tematiche proprio “allegre”, ma ha venduto molto più di The Wreck.
Nel post su Reddit ci sono anche delle suggestioni, che seguono quanto si è detto sul fatto che un pubblico per un videogioco come questo ci sia: « It just makes me sad that The Wreck is out there and they don’t know about it, because no matter how much effort we put on spreading the word, there’s so many excellent games, and so much fight for attention, that being noticed is super, super complicated».
E questo è verissimo. Solo nei primi mesi del 2022 erano usciti 6000 nuovi videogiochi su Steam. E, tra questi 6000, c’è ovviamente parecchia robaccia, giochi troll e dintorni, ma ci sono anche tantissimi prodotti validi, per cui è chiaro che la competizione sia spietata. Non solo per il guadagno, ma proprio per l’attenzione stessa. Proprio per questo, allora, è necessario ragionare su chi sia la mia “nicchia”, come raggiungerla, che cosa raccontarle del mio gioco ecc.
Io stesso sono piuttosto in target con The Wreck, ma nessuno dei materiali promozionali mi ha fatto scattare chissà quale curiosità sul fatto di volerci giocare. Non una curiosità sufficientemente forte da farmi dire “sì, voglio dedicare parte del mio tempo proprio a questo videogioco”, perlomeno. Scorrendo i commenti al post, vedo peraltro di non essere l’unico. E, sempre in quei commenti, vedo che c’è anche chi ha dato dei consigli concreti e mirati su dove promuovere il videogioco per raggiungere gli appassionati di visual novels.
In molti casi, poi, all’interno di una nicchia la competizione si sovrappone a una sorta di cooperazione più o meno indiretta, soprattutto quando la nicchia è piccola e ben motivata. Tornando all’esempio della bizarro fiction, se io compro i libri di Mellick sarò poi più propenso a voler perlomeno provare anche quelli di Mykle Hansen, di Gina Ranalli o altri, e viceversa. Così come molti appassionati dei tower defense finiscono per comprarli un po’ tutti quanti, tanto per fare un esempio videoludico. E un videogioco come The Wreck non deve competere in qualche segmento grande e iper-saturo. In parte – certo – si trova a competere non solo con tutti gli altri videogiochi, ma con tutto il settore dell’intrattenimento. Questa è la guerra del tempo che riguarda tutte le industrie creative, e da lì non si scappa. Togliendo però questa condizione di fondo… tutto sommato non è che debba sgomitare con migliaia di altri prodotti, all’interno della sua nicchia. Anzi, avrebbe probabilmente modo di trarre vantaggio da un pubblico già interessato ad altri videogiochi similari, se riuscisse a parlar loro in modo coerente.
Ah, c’è anche un probabile problema percettivo di prezzo. Può avere un suo senso nell’ottica del “mantenerlo alto per puntare ai saldi” o simili, ma è certamente una riflessione che andrebbe fatta, attraverso un confronto con tutta una serie di comparables. Non è la sede per discutere su quel che un videogioco “dovrebbe” costare in senso assoluto, ma di certo 19 euro è un prezzo respingente per un gran numero di persone, dinnanzi a un prodotto come questo.
Videogiochi per professione o per hobby
Un paio di anni fa mi è stato chiesto di scrivere un libro sulle professioni del videogioco: Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali. Un aspetto del libro che diverse persone mi hanno detto di aver apprezzato è la sua parte iniziale, in cui parlo dello sviluppare videogiochi per hobby o per lavoro. Se sviluppare videogiochi è il proprio lavoro, significa che con quell’attività si pagano bollette e spesa, per cui significa anche approcciarsi a essi con un approccio attento. Come ho detto sopra, ciò non deve essere inteso come “facciamo la commercialata”, anche perché non tutti possono competere efficacemente in quell’ambito. Ma può significare scegliere una nicchia, capire cosa gli piace e come raggiungerla. E poi, sulla base di quello, capire quale prodotto proporre loro e in che modo.
Se invece i videogiochi sono un hobby tutto cambia. Anche qui, hobby non significa per forza “lo faccio gratis”. Si può guadagnare anche da un hobby e a volte le cifre possono essere interessanti, ma l’approccio è differente. Se quel videogioco vende poco o nulla non mi sono esposto economicamente. Posso rimanere insoddisfatto per il fatto che abbia raggiunto poche persone o cose del genere, ma ho una maggiore tranquillità.
Non conosco abbastanza la situazione di Florent per poter dire dove si collochi lo sviluppo di The Wreck. Mi sembra comunque che abbia preso la cosa con positività e questo mi fa piacere. Spero soprattutto che non abbia avuto una esposizione monetaria troppo forte legata a questo videogioco.
C’è però un ulteriore punto, che ho visto sottolineato in almeno un commento al post: lo sto facendo per me o per gli altri?
Anche questo ha molto a che fare con il binomio lavoro/hobby. Quando faccio qualcosa per hobby, posso farla primariamente per me. Posso scrivere – tanto per dire – un romanzo partendo da un’idea che mi interessa tantissimo, e lo faccio per me stesso, perché magari ritengo che la scrittura sia terapeutica. Poi magari autopubblico quel romanzo e scopro che interessa a qualche centinaio di persone.
Ma se scrivessi romanzi per mestiere? Allora dovrei pensare anche agli altri. John Truby sottolinea questo “anche”. Scrivere solo per sé stessi è autoreferenziale, forse persino egoista in certe situazioni. Scrivere solo per gli altri è spesso poco interessante, talvolta alienante. Si può fare in determinate occasioni, ma a lungo andare è difficile che sia la soluzione.
Bisogna, allora, trovare una via di mezzo. Qualcosa che possa “cambiarci la vita”, per usare sempre le parole di Truby, ma che sappiamo possa risuonare con altre persone. Non con tutte quante, quello è impossibile, ma almeno con una buona dose di persone all’interno della nicchia che ho scelto.
La storia scelta è troppo personale? Non credo che sia necessariamente quello il punto. Ci sono storie altrettanto personali che trovano però un pubblico ben più ampio e motivato ad accoglierle. Alle volte è semplice fortuna, quella può sempre saltare fuori, ma in altre occasioni è perché c’è quel punto di incontro di cui parlava Truby: qualcosa che possa interessare al mio pubblico e anche a me.
Leggendo il post, ho il timore che Florent abbia ragionato solamente sul “voglio raccontare questa storia personale”, riflettendo poco su chi avrebbe poi fruito di quella storia. Poi magari ci sono state delle riflessioni, ma anche in quel caso credo che qualcosa si sia inceppato.
Le recensioni
Torno a citare il post di Florent: « Then came the big day, and with it, the first reviews. And they were… Incredibly good. I mean, really good. Rock Paper Shotgun’s Bestest best good. 9/10 on Pocket Tactics, 8/10 on Gamespew and 8.5 on Well Played good. We were absolutely ecstatic, and we started believing that, maybe, this excellent reception was a sign of a nice commercial success to come».
È qualcosa che ho già visto anche in passato, con Where the Water Tastes Like Wine e non solo. Ricordo anche il caso di Sunset dei Tale of Tales, tanto per fare un altro esempio che vorrei analizzare in un futuro spero prossimo.
Le recensioni hanno poco o nulla a che fare con le vendite. Non è un discorso di lontananza tra pubblico e critica, per quanto – soprattutto al di fuori del medium videoludico – vengono in mente diversi esempi emblematici in tal senso. Anche quando c’è un allineamento tra opinioni del pubblico e della critica, il pubblico potrebbe rimanere un gruppo estremamente ristretto. Che magari conferma le opinioni della critica, ma che non viene influenzato da essa.
In merito a questo punto segnalo un paio di miei precedenti articoli, uno sul giornalismo videoludico e uno sulla critica videoludica, per chi volesse approfondire, visto che lì avevo già toccato la questione, citando diverse fonti in merito.
Volendo qui riassumere la questione: la recensione non sposta vendite. Può avere un’altra utilità, ma non ha più (se mai lo ha effettivamente avuto) questo potere.
Sicuramente le diverse recensioni, nell’insieme, qualche vendita la hanno prodotta, quello sì. In molti casi perché hanno semplicemente fatto sì che The Wreck raggiungesse qualche persona in target che non conosceva il videogioco.
Non so però quante possano essere queste persone. Anche immaginando che 2-300 acquirenti siano giunti dalle recensioni, non sono numeri che possono impattare più di tanto in un simile contesto. E, pensando a casi analoghi su cui è emerso qualche dato, sono forse numeri anche ottimistici.
Certo, le recensioni aiutano a far capire che un videogioco esiste, come è emerso in diversi casi (come detto, ho approfondito altrove), ma di per sé non sono un indicatore affidabile.
Ulteriori disallineamenti
Chiudo segnalando un ulteriore disallineamento. Marginale, rispetto ad altre questioni, ma comunque significativo. Sembra esserci una generale ritrosia nel voler dire di cosa si parla in The Wreck. Lo si vede anche nel post di Florent, ma questo attraversa tutta la comunicazione. Capisco che ci sia la necessità di evitare lo spoiler, ma tutto ciò stride con l’altra necessità, quella di mettere tutta una serie di trigger warning sui contenuti potenzialmente “disturbanti” del videogioco.
Trovo che la combinazione di queste due cose abbia contributo a produrre una comunicazione molto disallineata, in cui si accenna costantemente a certe tematiche (come detto sopra, fin troppo numerose) senza però far mai capire cosa potremmo effettivamente aspettarci.