Indika è il videogioco.
Il titolo non è sbagliato. Non volevo scrivere “Indika è un videogioco”, oppure “Indika e il videogioco” o qualche altra cosa del genere.
Sono convinto che, in un futuro più o meno prossimo, non mancheranno coloro che utilizzeranno questo videogioco per definire il medium stesso. Per cui mi porto semplicemente avanti, iniziando a definire la questione.
Alla base di tutto ciò ci sono alcuni spunti di partenza. Uno di questi è l’articolo di Giulia Martino su «Final Round» in cui parla di Indika, soffermandosi più volte su numeri e punteggi. Soprattutto, quando l’autrice parla di un momento all’inizio del gioco, in cui bisogna fare avanti e indietro per prendere l’acqua da un pozzo. Scrive allora che «In quel tragitto ripetuto più e più volte, gli sviluppatori di Odd Meter rivendicano il diritto di un videogioco di non “divertire” – una delle parole più abusate da parte di chi parla di videogiochi. Per essere compreso, Indika richiede necessariamente di espandere il nostro vocabolario, senza fossilizzarci su termini triti, logori, limitanti per ciò che il gioco è e può essere: un veicolo potentissimo per la registrazione e la trasmissione di idee ed esperienze umane».
Un videogioco atipico, di cui è effettivamente difficile trovare dei predecessori all’interno del medium. Subito sotto, sempre Giulia Martino prosegue dicendo che «Per molti versi, l’opera di Indika non ha precedenti nel panorama videoludico. Non stupisce che essa guardi, molto spesso, al cinema e alla letteratura».
A volte, serve proprio un po’ di distanza per poter riflettere al meglio su sé stessi. Lo ricordava Machiavelli quando, all’inizio del Principe, diceva che «coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra i monti». Se sei sulla cima della montagna hai una chiara visione della vallata, ma non del monte. E viceversa.
Se, allora, Indika è un videogioco tutto sommato “poco videoludico”, può essere proprio questo il giusto distacco con cui leggere il medium nelle sue caratteristiche di fondo.
Prima di fornire la risposta, tuttavia, devo introdurre un paio di altri concetti. Seguitemi, perché dobbiamo lasciare per un attimo Indika in sospeso.
Il cielo è un velo. Il velo nasconde e rivela
I medievali amavano false etimologie e accostamenti basati su giochi di parole. Una di queste legava, ai loro occhi, velum e coelum, ovvero “velo” e “cielo”. Con un altro passaggio, il coelum era legato a celare (Gérard de Champeaux, Sébastien Sterckx, I simboli del Medio Evo, Jaca Book, Milano 1981).
Velo, cielo, celato. Che il cielo sia un velo disteso sulla terra è un’immagine ricorrente, che presenta tutta una serie di variazioni sul tema (per esempio il “manto della notte”). È più interessante il fatto che il velo, ma anche il cielo, siano fatti per celare, per nascondere.
Quindi, se Dio ha steso il velo del cielo sul mondo, lo ha fatto per porre un tetto (o meglio, verrebbe da dire una tenda) sopra agli esseri umani, così che essi non vedessero il Paradiso. Eppure il cielo non si limita certo solo a nascondere, visto che rivela tante cose.
In effetti, se si osserva l’esperienza fatta con i veli (tra cui, come detto, rientra il cielo) ci si rende conto che essi nascondono e rivelano al tempo stesso. Proprio come gli schermi. Di questi ultimi e della loro duplice valenza ha parlato il filosofo Mauro Carbone nel suo libro Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (Raffaello Cortina, 2016). Il suo «archi-schermo» comprende in effetti anche più di un velo, tra cui il noto Velo del Tempio e l’altrettanto nota siepe dell’Infinito di Giacomo Leopardi.
Prendiamo quest’ultimo esempio. Come dice Leopardi nel suo componimento, quella siepe «da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», cioè copre la vista di buona parte dell’orizzonte. La siepe è dunque uno schermo, inteso come qualcosa che scherma, che copre. Subito dopo, però, il poeta aggiunge che «Ma sedendo e mirando, interminati /spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo». Proprio grazie a quel nascondimento, Leopardi immagina degli “interminati spazi” mentre sta seduto dietro alla siepe. Per cui quest’ultima è uno schermo in senso “cinematografico”, visto che mostra qualcosa.
Tornando ai veli, gli esempi potrebbero essere infiniti. Giusto per citarne uno, sempre famoso, il dipinto Donna che legge una lettera davanti alla finestra (1657) di Johannes Vermeer.
La destra del dipinto è coperta da una tenda scostata. Se essa venisse tirata, coprirebbe (schermerebbe) per intero la scena, impedendo di vederla. Ciò che occulta può anche mostrare, come nelle numerose rappresentazioni di Santa Veronica.
Indika è il velo
Torniamo a Indika. Tenendo a mente quanto detto sul velo che – come schermo – può rivelare o celare, la chiave di lettura dell’esperienza sta proprio qui, come modo per comprendere il medium stesso.
Indika è il velo del videogioco. Occulta e rivela.
Che cos’è un videogioco, se non una successione di gameplay loops? Essi si susseguono costantemente senza che ce ne si renda conto. Sono le azioni ripetute che facciamo. Dal microloop, il più “piccolo” e frequente, al core loop, ovvero il loop minimo che rende davvero significativa l’esperienza di gioco, che ci porta ad appassionarcene, ci mantiene legati a esso. E poi ci si sposta ancora più in là, verso loops ancora più ampi.
Il videogioco vive del nascondimento di tutto ciò. Tanto più se entra in gioco – per esempio – il monetization loop, quello che ti invoglia periodicamente ad andare nello store e a spendere dei soldi. Se il processo venisse alla luce, si incrinerebbe il meccanismo, come per qualsiasi altro loop.
Azioni ripetute, fini a sé stesse, perlomeno in termini estrinseci. Spesso sembra un lavoro e per certi aspetti lo è davvero (Matteo Lupetti, Videogiocare stanca, in «Menelique», 1, pp. 84-91). Non è un caso che, soprattutto quando si parla dei free-to-play di grande successo, le persone possono arrivare ad ammettere di sentirsi svuotate, dopo mesi e mesi di gioco portato avanti con dei ritmi lavorativi. Come George Yao, il campione di Clash of Clans (2012) che faceva la doccia con i suoi cinque iPhone imbustati per non perdere tempo. A un certo punto si è sentito prosciugato. Tutti i giorni ti connetti nello stesso momento, raccogli la stessa ricompensa, fai le stesse operazioni meccaniche…
Questo è un modo di giocare, un’esasperazione, ma il loop è sempre presente.
All’inizio di Indika, viene chiesto di andare a prendere per cinque volte l’acqua al pozzo, per riempire un barile. La classica missione videoludica. C’è però il diavolo a commentarla. Qui tocca a lui il disvelamento. La sua tentazione è proprio quella di sollevare il velo dell’attività ludica, scoprendo così il trucco.
Così come, in altri momenti del gioco, viene chiesto di accumulare dei punti che sono in realtà inutili, come segnalano le scritte stesse che si leggono in giro. Il diavolo lega la ripetizione del lavoro e della preghiera, il che non è nuova come idea. Segnalo, giusto per rimanere in tema, questo passaggio da un contributo che parla di veli e di opere d’arte:
«Nella seconda metà del XII secolo fiorirono nuove scuole, botteghe ed estetiche legate al pensiero antropocentrico, che portò gli artisti a identificarsi con la propria opera e a considerarla parte integrande della propria vita. il tempo impiegato nella realizzazione dei dipinti divenne un frammento tangibile dell’esistenza. I giorni dedicati alla realizzazione delle opere si trasformarono nelle pagine di un diario scandito dalle pennellate, dai ritocchi e dalle velature che, con il loro lentissimo sovrapporsi, ritmarono le ore e i minuti della loro realizzazione. Il lavoro coincideva, secondo la regola benedettina di “hora et labora”, allo sgranarsi dei grandi di un rosario e l’opera che veniva realizzata era la testimonianza fisica e tangibile del lavoro svolto» (Andrea Busto, Rivelazioni e coperture. Il velo dipinto come metafora del tempo e della passione, in Id, Il velo. Tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e religione, Silvana Editoriale, Milano 2007, p. 11).
La preghiera è “utile” per la propria anima. L’opera realizzata è una «testimonianza fisica» del lavoro compiuto. Ma con il “lavoro” videoludico? La tentazione di dire che sia tutto inutile è forte. Lo si vede sempre in Indika, dopo che abbiamo raccolto per cinque volte l’acqua. Un’altra suora la rovescia per terra, vanificando il lavoro compiuto.
Dunque ciò che è stato fatto, videoludicamente, è tutto inutile? La tentazione del diavolo-Indika sembrerebbe questa. Si potrebbe obiettare in tanti modi, ricordando per esempio quanto si possa imparare durante un videogioco (James Paul Gee, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, Raffaello Cortina, Milano 20013), ma almeno per un momento il velo ha rivelato. Si è sbirciato il loop, si è stati portati a soffermarsi sul suo funzionamento.
Indika e il velo (e il diavolo)
Se, come detto, Indika è un velo che prima occulta e poi espone le logiche videoludiche, Indika contiene anche un velo. Più di uno in realtà. Ma partiamo un attimo da lontano.
Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), nota per le sue “estasi”, testimonia che durante il noviziato fu tentata dai demoni in numerosissime occasioni. Un’esperienza condivisa da diversi altri religiosi, peraltro, per cui Indika sarebbe in buona compagnia. Ciò che racconta la santa nei suoi Colloqui è che, durante queste tribolazioni, si rivolse alla Vergine implorando soccorso. E la Madonna le apparve, consolandola e avvolgendola con un “velo bianchissimo”.
Un riferimento molto chiaro alla velatio, ossia la «copertura della testa della professanda da parte del vescovo nel corso di una cerimonia liturgica, [che] sintetizza il concetto stesso della professione religiosa» (Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto. Storie di donne e di veli, Il Mulino, Bologna 2016,p. 147).
Il velo, oltre che emblema della professione religiosa, rappresenta la protezione, come nel caso di Maria Maddalena de’ Pazzi, che si trova difesa dal “velo bianchissimo” che le offre la Madonna. Il velo è un elmo che protegge da tentazioni e insidie, come diceva Tertulliano (De virginibus velandis).
Ritornando all’articolo di «FinalRound», Giulia Martino scrive: «Il Diavolo è protagonista anche a livello di gameplay. A lui sono associati alcuni dei momenti più potenti del gioco: quando Indika compie un peccato, la voce del demonio si tramuta in uno sberleffo crudele, ammantato in una sconvolgente musica chiptune-dubstep. Il mondo si frattura, e sta a Indika ricomporlo pregando: lo si fa tenendo premuto un tasto, ma la suora, dopo un po’, inevitabilmente si stancherà, e tornerà ad ascoltare il Diavolo che la prende in giro per la sua mancanza di rettitudine, le prefigura la perdita del velo e la scomunica, le fa presente che tutti – suo padre, le sorelle, le persone che incontra – la odiano e la disprezzano».
Ci sarebbe molto da dire su Indika, sul suo passato, su come fu costretta a prendere i voti, sul suo conflitto interiore ecc., ma qui rimango sul discorso videoludico. Il velo protettivo rischia di cadere, insidiato dal dubbio e dal diavolo. Durante una partita, il giocatore è avvolto nei suoi “veli”. È dotato di una forte agency, compie delle scelte, è in uno stato di flow, ecc.
Velato in tal modo, continua a giocare tranquillo e sicuro. Talvolta asservito a un loop, ma ne è ben felice. Ci vuole un diavolo, come accennato in precedenza, per minacciare di sconvolgere questa routine. Con una parola o uno sguardo.
Il diavolo di Indika è un (abile e curioso) narratore, ma la componente visiva del gioco non può essere messa in secondo piano. Essa è talvolta volutamente uncanny, con il suo iperrealismo a tratti grottesco che si alterna a minigames in 16-bit, a esplosioni di monete pixellose e a vari altri bizzarri e grotteschi artifici visivi (come l’omino che esce dalla bocca della suora, senza alcun preavviso).
Ricordando il vecchio adagio secondo cui “un’immagine vale mille parole”, tutti questi elementi di scombussolamento visivo sono di grande aiuto, nell’andare a discostare il velo che copre la verità videoludica, con un processo indubbiamente diabolico. Nel Corpum Thomisticum si legge non a caso che l’occhio è il “portinaio” del diavolo. E in effetti quest’ultimo, nella letteratura, è spesso accostato a occhiali, monocoli e altri dispositivi legati alla vista (Salvatore Silvano Nigro, Il portinaio del diavolo, Bompiani 2023).
Vorrei chiudere ricordando un ultimo velo, quello che appare nel titolo di un’opera di Pierre Hadot: Il velo di Iside (Le voile d’Isis). In questo testo si parla della Natura “velata” a cui è possibile approcciarsi in due modi. Il primo è quello prometeico, in cui si tenta di “strappare via” questo velo. Il secondo è quello orfico, in cui si cerca di “svelare” la natura con un approccio meno diretto, sfruttando l’arte e la poesia.
Indika è il disvelamento orfico del videogioco. O perlomeno un suo tentativo.