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South of Midnight: gotico del sud, folklore e trapunte

South of Midnight, in uscita in questi giorni, si presenta come un’affascinante reinterpretazione del Southern Gothic, il “gotico sudista” o “gotico del sud”. Ma che cos’è esattamente questo genere? Siamo effettivamente in grado di riconoscerlo? Ci sono altri videogiochi con cui non è stato così semplice. Proveremo qui a ripercorrere le radici culturali del genere, arrivando poi a segnalare quali sono alcuni degli elementi su cui varrebbe maggiormente la pena soffermarsi, nel ricercare le radici culturali di South of Midnight. E questi elementi potrebbero aver a che fare meno col gotico e molto più con le… trapunte! Ma procediamo con ordine.

South of Midnight

Ah, se preferisci l’ascolto alla lettura c’è anche un mio video YouTube sull’argomento di questo articolo.

Sappiamo davvero definire il gotico?

Partiamo ricordando questa cosa: il “gotico” è uno di quei termini che evocano più o meno a tutti qualcosa di vago, ma che pochi sanno definire con chiarezza. Questo perché, effettivamente, esistono diverse accezioni di “gotico”, con vari livelli di ampiezza. Per cui a seconda di chi sia il vostro interlocutore potrebbero esserci risposte molto diverse, davanti alla domanda «che cos’è il gotico?». Sono comunque abbastanza sicuro che, in linea di massima, la risposta conterrebbe vecchi castelli, storie di paura e tetre magioni disperse nelle nebbie di qualche brughiera.

Nella sua accezione più ristretta, il “gotico” comprende un numero molto limitato di opere letterarie. Parliamo dei romanzi settecenteschi come Il castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, Il vecchio barone inglese (1777) di Clara Reeve, I misteri di Udolpho (1794) e L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri (1797) di Ann Radcliffe, Il monaco (1796) di Matthew Lewis e altre opere di quel periodo.

Il castello di Otranto

Tuttavia, al di fuori di qualche storia della letteratura, il “romanzo gotico” ha dei confini un po’ più ampi di così. Vengono generalmente considerati anche i romanzi della generazione successiva, come il Frankenstein (1818) di Mary Shelley, Il vampiro (1819) di Polidori, i racconti dello scrittore E.T.A. Hoffmann (come L’uomo della sabbia) e molti altri ancora, fino ad arrivare alle soglie del Novecento con opere come Dracula(1897) di Bram Stoker.

Direi che, fino a qui, troveremmo un certo accordo tra le persone. Che Dracula e Frankenstein siano dei romanzi “gotici” non penso susciti particolare stupore. Dopo di loro… dipende molto dal punto di vista. Prendiamo per esempio Howard Phillips Lovecraft, forse il più influente scrittore horror di tutto il Novecento, che con i suoi Grandi Antichi (Cthulhu, Nyarlatothep, Azathoth, ecc.) ha diffuso l’idea dell’orrore cosmico. Chi ha letto i suoi racconti più celebri, come Il richiamo di Cthulhu, generalmente non li considera “gotici”. Non ci sono fantasmi, castelli in rovina, vampiri, eroine che svengono per la paura e manoscritti polverosi. C’è un gigante-drago-piovra giunto dallo spazio profondo che dorme sul fondo dell’oceano in una città dalla geometria non euclidea e che sognando lancia messaggi ai cultisti in giro per il mondo.

Ma non tutti la pensano così. Prendiamo il libro The Literature of Terror: A History of Gothic Fictions from 1765 to the Present Day di David Punter: in questo saggio sulla letteratura “gotica” (già il titolo è indicativo), Lovecraft viene indicato come tardo epigono del “gotico” statunitense. Invece che sottolineare l’elemento di rottura con la tradizione precedente, quando David Punter parla di Lovecraft mette in risalto tutto ciò che egli riprese dalle opere del passato. Chi ha ragione? Tutti e nessuno. In certe sue opere, Lovecraft è effettivamente molto vicino ad alcuni suoi maestri come Poe. Evito di spingermi oltre Lovecraft, quel che mi premeva sottolineare qui è questo: se già con lui abbiamo questa differenziazione legata a come etichettarlo (epigono del gotico o elemento di rottura con la tradizione), tanto più questo avviene dopo di lui.

Cos’è il gotico del sud

Arriviamo quindi al Southern Gothic, il “gotico del sud”, in cui si collocherebbe l’immaginario di South of Midnight. Se già è difficile definire con precisione cosa sia il “gotico” nel suo insieme, questa sua sottocategoria appare a tratti ancor più ingarbugliata. Provo comunque a sintetizzare quelli che sono gli elementi più frequentemente citati quando si parla di Southern Gothic:

  • Ambientazione legata al sud degli Stati Uniti. E fin qui ci siamo, nulla di inaspettato.
  • Ripugnanza fisica. Troviamo esseri deformi e freaks di varia natura. Nel gotico letterario i mostri erano molto più legati all’ambivalenza del monstrum (prodigio) latino: esseri brutti ma a loro modo anche affascinanti. Come l’originario conte Dracula: animalesco e brutto ma non privo di nobiltà. Nel Southern Gothic il prodigio si perde per strada e resta solo il mostruoso, solitamente legato a famiglie di esseri deformi, interiormente ed esteriormente repellenti.
  • Critica sociale. La prima cosa che viene in mente sono le perduranti ostilità razziali, spesso legato a una denuncia della disparità tra classi sociali che va oltre le distinzioni etniche.
  • Sessualità proibita e/o nascosta. Direi che è da sempre presente anche nel “gotico” tradizionale, in varie forme. Talvolta come tensione sessuale latente (tutto il filone dei vampiri va molto in questa direzione), talvolta come peccato da nascondere, talvolta come origine delle sopra citate mostruosità fisiche. I malvagi e deformi freaks del Southern Gothic sono spesso il frutto di rapporti incestuosi o comunque proibiti.
  • Ambientazioni decadenti. La decadenza fisica e morale – come spesso avviene – trova un corrispettivo paesaggistico e architettonico simile a quello del gotico tradizionale, con la differenza che in questo caso non troviamo castelli in rovina ma vecchie case coloniali.

È una lista ovviamente indicativa, un tentativo di razionalizzare un’etichetta sfuggente, dai confini poco definiti (come molte altre etichette legate ai generi letterari, cinematografici e videoludici, mi verrebbe da aggiungere).

Rileggendo questo elenco, continuava a venirmi in mente il nome di un videogioco, ancor prima di South of Midnight: sto parlando di Resident Evil 7: Biohazard (2017).

Resident Evil 7 Biohazard

Se ci pensiamo, ha molto senso. La serie Resident Evil ha attinto a molti elementi gotici, al fianco di altre suggestioni più contemporanee. La villa del primo Resident Evil (1996) è inequivocabilmente gotica, così come lo è l’utilizzo di diari e lettere per fornire indizi, ecc. Ancor più, Resident Evil Village (2021) è un concentrato di recuperi gotici. Non c’è quindi da stupirsi che anche Resident Evil 7 sia strettamente legato a un differente filone gotico, in questa sua veste Southern.

Per pura curiosità personale, mi sono messo a fare qualche ricerca: sono molto poche le persone che hanno parlato di Resident Evil 7 in ottica Southern Gothic, soprattutto in Italia, mentre questa etichetta si è ritrovata molto più spesso in questi ultimi giorni, applicata a South of Midnight. Credo che la spiegazione sia semplice: South of Midnight si è esplicitamente proposto come esponente videoludico di quel filone, mentre non ricordo comunicazioni in tal senso da parte di Capcom. Rimane comunque un dato alquanto curioso da sottolineare, perché vuol dire che la comunicazione ufficiale va ancora a indirizzare fortemente il modo con cui si incasellano e analizzano molti videogiochi.

Mostri leggendari in South of Midnight

Sicuramente South of Midnight è molto Southern. Sul fatto che sia pure Gothic ne sono meno sicuro, ma ciascuno può dire la sua. Come detto, il “gotico” è un concetto alquanto labile, interpretabile diversamente da varie persone.

Alcuni aspetti Southern del videogioco sono abbastanza evidenti. Altri sono più sottili e sono forse anche quelli più interessanti da indagare e approfondire. Tra quelli più evidenti c’è per esempio il recupero di diversi miti locali. Uno di questi è il leggendario alligatore Two-Toed Tom, talvolta anche noto come Red-Eye. La sua storia ha origine agli inizi del Novecento, tra Florida e Alabama, dove si vociferava di un gigantesco alligatore di quattro metri, con gli occhi rosso fuoco, che razziava le fattorie divorando umani e animali. Il suo nome deriva dal fatto che gli erano rimaste solo due dita, perché le altre erano state tranciate via da una trappola. Two-Toed Tom torna in South of Midnight, dove appare come un colossale alligatore albino, così grande da portarsi dietro un’isola sulla sua schiena.

Two-Toed Tom in South of Midnight
Two-Toed Tom in South of Midnight

È più trasformativo il recupero del Rougarou, per come viene visivamente proposto all’interno del videogioco. Tradizionalmente, il Rougarou è una sorta di licantropo. Non a caso, il suo nome deriva dal francese loup-garou, che significa proprio lupo mannaro. Nel tradizionale immaginario creolo e cajun, il Rougarou è simile all’uomo lupo europeo, ma in South of Midnight la creatura ha un aspetto differente e si presenta come una sorta di gufo mannaro. Questa è una mia ipotesi, ma mi chiedo se questa scelta del team nasca da qualche influsso del voodoo haitiano, nel cui folklore sono presenti dei mutaforma mannari capaci di volare. Vedo che online c’è chi propone invece l’Uccello del Tuono dei nativi americani come fonte di ispirazione. Può essere che il team avesse in mente quello, ma sarebbe una commistione con un immaginario molto più lontano da quello creolo, rispetto al folklore voodoo.

Il Rougarou in South of Midnight
Il Rougarou in South of Midnight

Più in generale, South of Midnight propone una bella collezione di criptidi e mostri locali. Oltre a Two-Toed Tom e al Rougarou ci sono anche il mostro della palude di Honey Island (una sorta di Bigfoot della Louisiana), l’Altamaha-ha (un mostro acquatico che ricorda la creatura di Loch Ness) e la Huggin’ Molly. Quest’ultima nasce da una storia locale dell’Alabama, che parla di una donna molto alta che si aggira di notte per stritolare gli ignari passanti, con un abbraccio letale. Come altre creature citate, anche la Huggin’ Molly è stata riproposta con un differente aspetto, in South of Midnight, dove appare come una sorta di donna ragno gigante ricoperta di tessuti.

Trapunte colorate

Proprio parlando di tessuti emerge uno dei richiami meno evidenti (ma anche più interessanti) di South of Midnight alla cultura Southern. I poteri di Hazel, la protagonista del gioco, sono infatti legati a questo mondo. Acquisendo le abilità da Tessitrice, Hazel deve aggiustare il Grande Arazzo della realtà, squarciato dai traumi subiti dalle persone. Direi che questa parte della storia si lega alla tradizione del quilting presente negli Stati Uniti del Sud.

Un quilt viene realizzato attraverso appliqué (applicazione) e trapuntatura di tessuto. E, per l’appunto, somiglia a una trapunta. Negli Stati Uniti si è diffuso in due modalità differenti. All’inizio il quilting era praticato dalle donne ricche, quando i tessuti utilizzabili venivano importati dall’Europa ed erano pertanto piuttosto costosi. Per queste donne, un quilt non aveva utilità pratica, era uno strumento di espressione creativa con cui poter realizzare qualcosa di visivamente gradevole.

Tuttavia, negli Stati Uniti del Sud, si diffuse un’altra forma di quilting, praticato da donne afroamericane e povere. In questo caso, le donne dovevano realizzare coperte per proteggersi dal gelo che penetrava all’interno delle baracche di legno in cui abitavano. Non avendo altro a disposizione, queste tessitrici utilizzavano vari pezzi di tessuto, ricavati da vecchi abiti dismessi. Nonostante ciò, le donne davano una grande impronta personale a queste loro creazioni, di cui andavano fiere e che amavano esibire, stendendole su cataste di legna o sui fili usati per asciugare il bucato. Negli ultimi anni, questa pratica del quilt è entrata anche nel mondo dell’arte “ufficiale”, dopo che le donne di Gee’s Bend (una comunità dell’Alabama) hanno esposto le loro creazioni in importanti musei statunitensi.

I quilts di Gee’s Bend

In riferimento a South of Midnight, tuttavia, direi che è soprattutto interessante ricordare casi come quello di Harriet Powers (1837-1910), una donna afroamericana della Georgia, nata schiava, che aveva realizzato dei quilt con lo scopo di raccontare eventi biblici e storici. Oggi ne rimangono solo due: il Bible Quilt del 1886 e il Pictorial Quilt del 1898. Le sue trapunte erano una sorta di sermone visivo che serviva probabilmente a trasmettere un’immagine del mondo, condensato in alcuni eventi significativi.

bible quilt
Il Bible Quilt di Harriet Powers
pictorial quilt
Il Pictorial Quilt di Harriet Powers

Proprio come il Grande Arazzo di South of Midnight, mi verrebbe da dire. Un’immagine della totalità, fatta di tessuto. I quilt di Harriet Powers non erano solo manufatti artistici. Erano anche strumenti di narrazione e di memoria culturale. Credo che South of Midnight voglia fare qualcosa di simile: va a “tessere” una trama che vuole fornire una nuova visione del folklore creolo e cajun, trasformando il videogioco stesso in un nuovo racconto visivo. Un insieme di episodi della tradizione, da mostrare e tramandare, proprio come gli episodi presenti nei quilt della Powers.

The Duskbloods: analisi del trailer… o meglio, della finestra

Il trailer di The Duskbloods, appena mostrato, mi ha suscitato subito un certo interesse e curiosità. Immagino di non essere l’unico ad averlo apprezzato.

Probabilmente apprezzerò meno il gioco. E anche qui credo di non essere l’unico.

Se, come dicono, sarà un PvPvE… non è una tipologia di gioco che mi interessa particolarmente. E leggendo i commenti in giro, molti speravano che fosse un effettivo “Souls“.

Pazienza. Piacerà ad altre persone. E magari ci sarà comunque un po’ di lore da discutere.

L’inizio del trailer è però apprezzabile e si unisce bene nel solco di FromSoftware.

Si possono dire tante cose su di esso e sono sicuro che non mancheranno le varie reaction con commento.

Da parte mia, ho voluto scrivere questo primo articolo a caldo, soffermandomi sulla finestra che si vede all’inizio del trailer di The Duskbloods.

Penso sia un dettaglio su cui si soffermeranno in pochi. Anche comprensibilmente, ciò che si vede nel resto del trailer apre a un maggior numero di speculazioni possibili.

Ma magari fornisco qualche spunto utile di riflessione.

Il trailer di The Duskbloods si apre così.

The Duskbloods

Una bella composizione. Oserei dire pittorica.

Anche quando un’immagine è statica, noi percepiamo comunque una certa direzionalità. In questo caso è quella della luce lunare che entra dalla finestra.

In termini tecnici, il vettore della luce va da sinistra a destra e segue quella che è la diagonale discendente (o disarmonica).

Duskbloods con diagonale discendente

Il fatto che il trailer si apra proprio in questo modo non è casuale, visto che si lega a tutta una serie di “ingressi” presenti nei Souls, oltre che a una certa tradizione iconografica, volendo allargare il campo.

Quel che mi interessa sottolineare qui è soprattutto il fatto che sia la prima cosa che vediamo nel trailer. E non mi stupirei se all’inizio di The Duskbloods ci fosse un inizio similare, visto che è qualcosa che già si è visto nei Souls precedenti.

La finestra è una delle tante rappresentazioni della soglia. Per questo, quando appare all’inizio di un videogioco (o di un trailer, in questo caso) non è un elemento neutrale.

Nei videogiochi sono presenti tanti archetipi legati alla soglia, che accompagnano l’ingresso nel mondo di gioco. Giusto per fare qualche esempio, potremmo trovarci davanti a un ponte (Shadow of the Colossus, Resident Evil 4, ecc.), all’uscita da un sarcofago (ICO), all’ingresso in una casa (il primo Resident Evil, Gone Home, ecc.), al passaggio dal sonno alla veglia (molti The Legend of Zelda) e altro ancora.

Il ponte in Shadow of the Colossus
Il ponte in Rsident Evil 4

Sono tutti elementi che attingono da tradizioni antiche, non a caso rappresentano una simbologia molto potente, che parte dai riti di passaggio e che ha trovato mille declinazioni narrative nel corso del tempo. In narratologia una delle soglie per eccellenza è quella che separa il “mondo ordinario” (in cui l’eroe o l’eroina conducono la loro vita prima della chiamata all’avventura) dal mondo straordinario, quello dove inizia il loro effettivo viaggio.

Nei videogiochi, tutto ciò è espanso e potenziato dal fatto che si sottolinea la separazione tra il “mondo ordinario” di noi giocatori, quindi la realtà esterna al videogioco, e il mondo narrativo in cui ci caliamo attraverso il nostro avatar. Ecco perché c’è spesso una sottolineatura visiva di questo passaggio, all’inizio di molti giochi.

Compresi i Souls. Sia nel primo Dark Souls sia in Sekiro c’è un gioco di inquadrature tra l’esterno e l’interno di uno spazio che, in quel caso, è una prigione.

In Dark Souls 2 il momento in cui si assume il controllo del proprio avatar è preceduto dal filmato con l’ingresso in un vortice acquatico. In Dark Souls 3 c’è l’uscita da una bara (simile al citato inizio di ICO). E via dicendo.

Qui in The Duskbloods siamo accompagnati all’interno del mondo di gioco dalla luce lunare.

Come dicevo prima, noi percepiamo il movimento anche nella staticità. Capiamo che la presenza di quella finestra ci invita a entrare perché “sappiamo” che la luce (della luna) entra nelle case.

E che cosa va a illuminare? Un corpo, disteso su una sedia. Ora, ho ovviamente molte poche informazioni sul gioco, ma mi verrebbe da dire che quel corpo rappresenta il nostro avatar.

Noi giocatori siamo la luce lunare che “entra” – dall’esterno all’interno – e si riversa in lui.

In fondo è questa una delle funzioni delle finestre, no? Riversare luce nello spazio interno. Lo vediamo anche in pittura, perlomeno dai tempi della Lattaia (1660) di Jan Vermeer.

Lattaia di Vermeer

Ma a questo punto potrebbe anche sorgere una – giustissima – domanda: se noi “siamo” la luce lunare che entra dalla finestra e illumina il personaggio, perché il nostro punto di vista è collocato altrove? Detto in altre parole, non dovremmo trovarci al di fuori della finestra e guardare all’interno della stanza?

Idealmente corretto, ma credo che qui si sia attivata una lunga tradizione iconografica, che si è già vista anche in altri videogiochi di FromSoftware e attinge le sue radici nel passato. Restiamo su Jan Vermeer, con la sua Ragazza (o Donna) che legge una lettera presso una finestra (1657).

ragazza che legge di Vermeer

Come scrivevano Umberto Eco e Omar Calabrese a proposito di questo quadro, «si ha la sensazione di entrare in uno spazio privato, come se la scena proposta fosse un momento di vita privata, “rubato” da un osservatore indiscreto. È come se il produttore avesse guardato dalla toppa della serratura» (Le figure del tempo, Mondadori 1987, p. 104).

Quindi, sì, noi stiamo entrando in uno spazio privato, in cui è ben visibile una finestra, e lo facciamo come osservatori indiscreti, ma il nostro punto di vista è collocato in modo da rendere visibile anche la citata finestra. Come se, appunto, stessimo guardando dalla toppa della serratura.

Esiste anche un’altra tipologia di sguardi “spioni”, quelli che penetrano direttamente nelle case passando dalle finestre, ma hanno una differente storia evolutiva. Sono gli sguardi di cui ha parlato Salvatore Silvano Nigro, all’inizio del suo saggio Il portinaio del diavolo. Occhiali e altre inquietudini (2014), ricordando tra le altre cose il celebre film La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock. Uno sguardo da spettatore cinematografico, che spia senza essere visto.

Qui siamo davanti a un rapporto diverso, in cui una delle due parti chiamate in causa è prima immobile e poi prende vita (fuor di metafora: assumiamo il controllo del personaggio e possiamo muoverlo).

Più o meno il contrario di quanto si vedeva in una xilografia di Albrecht Dürer (1538), con l’artista che fissava sulla carta (e quindi “immobilizzava”) il mobile corpo della modella davanti a lui.

Ora, in The Duskbloods siamo davanti a un trailer, per il momento. Quindi non c’è ancora nessun effettivo inizio del gioco. Può anche essere che il momento iniziale di The Duskbloods sarà molto diverso da così, ma se ci dovessi scommettere, direi che sarà comunque presente una qualche forma ben evidente di soglia.

In ogni caso, questo fattore del risveglio è anche qui ben presente.

Il punto di vista si sposta. Ora siamo vicini al corpo. Una delle sue mani penzola inerte verso il basso. Appare un’altra mano, che risale dal basso.

The Duskbloods, mani con finestra sullo sfondo

La finestra rimane presente sullo sfondo, a sottolineatura della sua importanza. Ma questa volta più che una soglia è una cornice. È come un quadro nel quadro. Sta inquadrando la luna, che come si può intuire ricoprirà un ruolo fondamentale all’interno di The Duskbloods.

Non che sia una novità, considerando i precedenti Souls. Mi sento comunque di ripetere un consiglio di lettura che ho già fornito in diverse altre occasioni: recuperate il saggio L’occulto di Colin Wilson.

Hidetaka Miyazaki stesso lo ha citato tra le sue letture ma, nonostante ciò, non ne parla quasi nessuno. Così come quasi nessuno parla del Campione eterno di Moorcock in riferimento a Elden Ring, nonostante anch’esso sia stato esplicitamente citato da Miyazaki come una delle sue fonti di ispirazione per quel gioco. Per cui, certo, va benissimo ricordare Berserk, ma tante altre fonti di Miyazaki sono rimaste quasi sempre nell’ombra.

L’occulto contiene un lungo capitolo sulla magia lunare. Aiuta a comprendere perché siano state fatte certe scelte nella storia di Ranni in Elden Ring e credo che sarà utile anche per capire meglio The Duskbloods.

Io lancio la palla, come si suol dire. Poi lascio ai “cacciatori di lore” divertirsi nel realizzarci sopra tutta una serie di contenuti. Magari ricordatevi di citare questo articolo, se il suggerimento che ho dato sarà effettivamente utile per farvi creare qualche contenuto interessante.

Per chi volesse approfondire il discorso, in passato avevo scritto questo: La cornice del cominciamento: calarsi nell’avatar in Dark Souls e Sekiro, che potete leggere qui.

In generale, se spulciate nell’elenco delle mie pubblicazioni trovate un po’ di materiale sui Souls.

Hideo nasconde qualcosa: nota del curatore

Hideo nasconde qualcosa: Come Metal Gear Solid 2 ha sfidato il mondo otaku (2025) è il secondo libro di Fabio Di Felice.

Sia questo sia il precedente (Keiichirō: La vera storia del team di reietti che ha inventato Silent Hill, 2024) sono stati pubblicati nella collana Loading che dirigo.

A partire dal secondo volume della collana ho iniziato a scrivere un breve testo finale, una sorta di nota del direttore di collana.

Fabio Di Felice con il suo libro

Nel caso di Hideo nasconde qualcosa ho deciso di condividerla anche qui sotto, perché penso possa essere utile farla circolare.

Ho infatti voluto parlare di Bruno Fraschini, nella mia nota conclusiva. L’idea mi è venuta visto che Fabio ha dedicato proprio a lui il suo ultimo libro.

Ma chi è Bruno Fraschini?

Fraschini è stato uno studioso di videogiochi della “generazione” precedente alla mia. Quella di figure come Matteo Bittanti e Francesco Alinovi, giusto per fare due nomi.

Fraschini scrisse un saggio su Metal Gear Solid, in passato. Il libro venne pubblicato nel 2003 nella collana Ludologica di Bittanti.

Il libro di Bruno Fraschini

L’anno seguente, Fraschini «ha ufficialmente smesso di giocare», sempre per usare le parole di Matteo Bittanti.

In questa mia nota conclusiva nel libro di Fabio Di Felice ho voluto ricordare la sua produzione saggistica.

Tra l’altro, proprio nei giorni in cui l’avevo scritta, era venuto a mancare il prof. Fausto Colombo dell’Università Cattolica, che è stato un “maestro” per me anche se non ho mai avuto il piacere di frequentare uno dei suoi corsi, quando ero studente.

Per cui avevo messo insieme le due cose, per ricordare di essere grati ai “maestri”, a coloro che hanno iniziato prima di noi a tracciare una strada che ora stiamo portando avanti.

Come nella saggistica sui videogiochi, nel caso di Fraschini. Ma anche di Fausto Colombo, in verità, visto che già nel 1996 dedicò un capitolo di un suo libro a Myst.

Qui sotto trovate la mia nota conclusiva al libro di Fabio. Se volete acquistarlo, questo è il link di Amazon.

Bruno Fraschini: il serpente si è evoluto in una catena di legami

«A Bruno Fraschini, il tuo spirito è ancora forte». Se tornate un attimo all’inizio del libro, avrete modo di rileggere questa frase.

Per chi non è particolarmente addentro al mondo dei game studies italiani, questo nome dice probabilmente poco. Bruno Fraschini è – o meglio, è stato – l’autore di Metal Gear Solid. L’evoluzione del Serpente, un saggio sull’opera videoludica di Kojima, che venne pubblicato nel 2003. L’evoluzione del Serpente è stato il secondo libro pubblicato nella storica collana “Ludologica: Videogame d’autore” (il primo libro fu Age of Empires. Simulazione videogiocata della vita di Carlo Molina). Era la prima collana italiana dedicata ai game studies, e anche all’estero non è che ce ne fossero moltissime, prima di Ludologica. Questa collana, curata da Matteo Bittanti e da Gianni Canova, è andata avanti fino al 2016, pubblicando ben ventotto volumi di saggistica videoludica. Casomai voleste un parallelismo, Hideo nasconde qualcosa di Fabio Di Felice è il quinto volume della collana “Loading. Il videogioco tra produzione, arte e cultura” che dirigo presso Ledizioni.

Oggi esistono un gran numero di pubblicazioni sui videogiochi ed è anche facile reperire molti libri in inglese, semplicemente buttando un occhio su Amazon o su qualche altro store online. Ma in passato non era così. Per chi voleva capire meglio i videogiochi, per chi voleva studiarli, Ludologica era un passaggio praticamente obbligato. Io stesso cominciai chiedendo come regalo di Natale il saggio I mondi di Super Mario: Azioni, Interazioni & Esplorazioni (2003) di Andrea Babich, il quarto volume della collana Ludologica, di cui avevo scoperto l’esistenza grazie a un trafiletto su «Nintendo. La rivista ufficiale». E qualche anno dopo comprai anche Metal Gear Solid. L’evoluzione del Serpente.

Come si legge sul sito di Ludologica, Bruno Fraschini «ha ufficialmente smesso di giocare nel novembre del 2004». Vorrei poter avere qualche ricordo da condividere, ma ho conosciuto Fraschini solo attraverso il suo libro. Nel 2004 avevo quattordici anni, andavo al liceo e ancora non avevo iniziato a bazzicare eventi legati ai videogiochi. Ma se cercate online troverete alcune testimonianze che ricordano Fraschini con affetto.

Oltre all’Evoluzione del Serpente, Fraschini aveva anche scritto Le affinità elettive. Il linguaggio del cinema nei videogiochi, con un’analisi di Project Zero, che era stato condiviso come PDF online e che oggi è reperibile solo su «Internet Archive»[1]. Si trova in giro per internet anche la sua tesi di laurea, Strategie comunicazionali e linguistiche del videogame, realizzata all’università IULM sotto la supervisione di Gianni Canova e discussa nel 1999. È infine possibile trovare un contributo di Fraschini nel libro miscellaneo Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare, curato da Matteo Bittanti e pubblicato nel 2002 (e poi riproposto due anni dopo in un’edizione aggiornata). Il capitolo di Fraschini, con la sua suddivisione delle protesi digitali che incontriamo nei videogiochi, viene tutt’oggi citato piuttosto spesso, perlomeno nelle pubblicazioni in lingua italiana. Al fianco di queste pubblicazioni, Fraschini collaborava con diverse riviste: «Xbox Magazine Ufficiale», «PlayNation Magazine», «Super Console», «Videogiochi», «PSM» e altre ancora. Era anche un docente (NABA e IED) e un cantante (nel gruppo Je ne t’aime Plus).

Perché fare questo discorso? Perché, quando Fabio Di Felice mi ha parlato della sua idea per Hideo nasconde qualcosa, con la mente sono subito tornato all’Evoluzione del Serpente. Su Hideo Kojima e su Metal Gear Solid 2 avete già letto questo ottimo testo di Fabio, ulteriormente arricchito dalle aggiunte di Stefania Sperandio e di Federico Ercole. Su questo punto, mi limito solo a riportare alcune parole dello stesso Fraschini, quando gli chiesero il perché di un libro su Metal Gear: «Primo motivo: perché sono convinto che i videogiochi possano essere molto più che semplice intrattenimento. Hideo Kojima è un autore che utilizza i videogiochi per dire qualcosa di interessante e non, più semplicemente, per divertire i giocatori. Secondo motivo: MGS2: Sons of Liberty è stato frainteso da molti (d’altronde è un testo ambiguo). Il libro vuole essere un contributo utile a comprendere meglio un’opera complessa» (in «Ring», n. 6, 2003, p. 41).

Qui, invece, vorrei ricordare che siamo tutti parte di una sorta di grande catena. Nella vita, nel lavoro e in tanti altri ambiti. Tra cui anche le pubblicazioni. Quando scriviamo, raccogliamo sempre il lascito di qualcun altro. Portiamo avanti un cammino che altri hanno intrapreso prima di noi, per provare a fare un passo in più, a scoprire qualche altra diramazione. A meno di non essere davanti a qualche plagiatore seriale, ma per fortuna non è il nostro caso. Sono pertanto contento che questo libro si apra ricordando che lo spirito di Bruno Fraschini è «ancora forte» per Fabio Di Felice. Dovrebbe sempre esserlo, nei confronti dei nostri “maestri”, diretti o indiretti. Tutt’oggi, io sono estremamente grato a Valter Binaghi, romanziere e filosofo che ebbi l’onore di avere come professore durante gli anni del liceo. Mi ha insegnato tantissimo e avrei voluto avere più occasioni per esprimergli la mia gratitudine, prima che ci lasciasse. Oggi, che mi trovo io nei panni del docente, spero di avere almeno un quinto del suo carisma. Metto al suo fianco un altro nome, visto che sto scrivendo queste righe il 17 gennaio 2025. Ieri sono stato al funerale di Fausto Colombo, sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Pur non avendo mai frequentato un suo corso, ho avuto occasione di collaborare con lui dopo gli anni del dottorato e sono rimasto sempre colpito dalla sua enorme vivacità intellettuale, unita a un’umanità veramente rara. Peraltro, in mezzo alle sue moltissime pubblicazioni, c’era anche un capitolo sul videogioco Myst (1993), in un suo libro curato con Ruggero Eugeni (Il testo visibile. Storia, teoria e modelli di analisi, 1996). Era una rarità, nell’Italia del 1996, vedere una pubblicazione accademica che parlasse anche di videogiochi. Mi scuso per questo aneddoto, che è anche banale rispetto a tante altre cose che potrei ricordare su Fausto Colombo, ma non vorrei allontanarmi ancora di più dall’argomento di questo libro.

Mi sento solo di dire, per concludere, di essere grati ai propri maestri. E, ove possibile, di dirglielo. Altrimenti potremmo poi pentirci per non averlo fatto in tempo. Questo vale anche al di fuori dell’istruzione, è chiaro. Anche il medium videoludico ha i suoi maestri e probabilmente Kojima stesso lo è stato per molti.


[1] Ringrazio Andrea Pachetti, storico del videogioco italiano, per la segnalazione. Il libro di Fraschini è scaricabile al seguente link, nella cartella “Ring12”: https://archive.org/details/project-ring.

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