A differenza degli altri contenuti caricati in questa sezione del sito, che sono primariamente saggistici, qui vorrei fare un discorso un po’ differente.
L’idea è nata in seguito ad alcune domande che mi sono state fatte, nei post sui social ma soprattutto in privato, in questi giorni.
Il contesto è questo: qualche giorno fa è stata annunciata la data di uscita del mio manualetto Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali, pubblicato con Editrice Bibliografica. Credo che il titolo sia piuttosto esplicativo, è una guida alle professioni che ruotano intorno al mondo del videogioco. Il che è certamente vero, ma c’è di più.
E qui torno alle domande che mi sono state fatte. La maggior parte erano raggruppabili in “ma si parla anche di X?”, dove X era di volta in volta uno specifico ambito. Io rispondevo di sì, dicendo che si parla anche di X, di Y e di Z. Ma nel fornire queste risposte mi sono tornati in mente gli interrogativi che io, per primo, mi ero posto iniziando a lavorare.
Quegli interrogativi che mi hanno portato, dopo un po’, a capire che un elenco di professioni è condizione necessaria ma non sufficiente, se si vuole fare un vero discorso su cosa voglia dire lavorare con i videogiochi.
Potrei dire che è una questione di mentalità, ma magari a qualcuno il termine non piace, perché è stato un po’ troppo abusato da guru e ‘santoni’ di dubbio gusto. Diciamo allora che è una questione di scelte e decisioni da prendere (il che si fa con una certa mentalità, per cui torniamo comunque lì, ma vediamo se così si aggira l’ostacolo).
Purtroppo c’è più di una fonte che finisce per proporvi quello che è un approccio “da catoblepa”. Alcune lo fanno in buona fede, per ignoranza della materia, altre sono probabilmente in mala fede.
Ora, non so se vi è noto il catoblepa. Non è che sia la creatura fantastica più diffusa, sebbene venga recuperato in qualche videogioco. È una sorta di bue con la testa molto pesante, che tiene sempre abbassata. Secondo gli antichi ha anche uno sguardo che pietrifica e/o un alito velenoso, ma questo non ci interessa. Pensate al capo perennemente chino. Ecco, mi sembra l’immagine perfetta per chi avanza a spron battuto in una direzione senza mai controllare intorno a sé.
Torniamo indietro di un po’ di mesi. Siamo nel momento in cui mi sto preparando per la stesura del manuale. Rileggo tutto ciò che già conosco sull’argomento e che ritengo possa essere utile. Cerco nuove fonti, acquisto libri e manuali di vario genere. Leggo un gran numero di articoli e testimonianze di sviluppatori, come quelle pubblicate su Gamasutra, e leggo anche tutte le conversazioni che generano. Nel frattempo parlo con un po’ di persone che conosco, guardo diversi talk online e molto altro ancora. Raccolgo opinioni e testimonianze, insomma, e confrontandole emerge una cosa prevedibile, ma comunque piuttosto interessante.
Più si va sulle tecnicalità di un ruolo e più le esperienze divergono. Detta così ci si aspetterebbe l’esatto contrario, ma in realtà la cosa ha perfettamente senso. Ricordiamoci quanto siano differenziati tra loro i videogiochi e, di conseguenza, le loro modalità produttive. Anche la stessa, identica operazione se viene compiuta in un gigantesco team con milioni di budget o nel seminterrato del cugino non è davvero identica, perché va a inserirsi in contesti del tutto differenti fra loro.
Una volta acquisita la consapevolezza di questa realtà, l’esito è quello di liberarsi dall’ossessione per la tassonomia. Una fotografia al 100% dettagliata e completa di una certa professione, con tutte le sue ramificazioni interne è probabilmente impossibile, considerando l’ampiezza e mutevolezza del mercato. E se anche fosse possibile non è detto che sarebbe utile e sensata.
Per tornare al manuale, ciò non vuol dire che io sia rimasto sempre e solo sul generico, ci sono anche esempi e casi piuttosto specifici, e tutte le principali aree lavorative sono coperte. Sto dicendo una cosa differente. Immagino un ragazzo o una ragazza all’inizio di un percorso di studi, con questo libro tra le mani. Qual è la cosa di cui avranno probabilmente più bisogno? Direi che non è una panoramica minuta di tutte le varianti di una categoria professionale, che magari sono riscontrabili solo in pochissimi team di sviluppo con centinaia di dipendenti.
Anche qui, non voglio dare una risposta univoca, ma direi che è fondamentale dar loro un aiuto per riflettere sull’approccio e sulle scelte future. E con “scelte future” non intendo tanto quella – faccio un esempio – tra programmare videogiochi o realizzarne le concept arts. Direi che una persona ha già un suo percorso legato alla programmazione o al disegno, e non va a modificarlo solo perché legge un manuale. Certo, il testo può fargli scoprire un po’ di cose in più sull’ambito di interesse, ma non sto parlando di queste scelte qui.
Sto parlando della scelta di lavorare effettivamente con i videogiochi.
Non è una provocazione, sia chiaro. Mi spiego meglio.
Rimuovendo la mitica patina di fascinazione, lavorare con i videogiochi vuol dire che si guadagna da quell’attività. E che ci si guadagna a sufficienza da potersi pagare le bollette, il cibo e tutto il resto. Lavorare con i videogiochi, in senso stretto, vuol dire che il vostro reddito viene da lì.
Aggiungiamo anche un altro dettaglio: quando si lavora con qualcosa che ci piace si possono innescare degli strani meccanismi. Quella cosa, in primo luogo, potrebbe finire per annoiarci o lasciarci indifferenti, non la vivremmo più come un divertimento e uno svago ma come un obbligo. Oppure potrebbe continuare ad appassionarci e, proprio per questo, finiremmo per lavorare in continuazione, senza più troppi confini tra lavoro e riposo, il che può portare a situazioni non proprio ottimali.
Questo è un discorso generico, se vogliamo, ma vale ancor più per i videogiochi. Diverse narrazioni sul medium videoludico sono infatti viziate da storie di ragazzini nerd e un po’ perdigiorno che nel tempo libero sviluppano un videogioco e lo pubblicano su Steam. E – attenzione – ci sono sicuramente dei ragazzini che hanno pubblicato un videogioco su Steam sviluppato nel tempo libero, ma le narrazioni che dicevo sopra sottendono più o meno implicitamente che questa cosa sia un lavoro. Quanto avranno guadagnato, da quel loro progetto? E quanto tempo ci hanno perso, prima di arrivare alla pubblicazione?
Non sto negando il fatto che ci siano casi eccezionali, in cui il videogioco sviluppato nel seminterrato del cugino in tre giorni diviene un fenomeno virale e genera una montagna di soldi. Questi casi esistono e anche nel libro ne ho riportato qualcuno. È utile sapere che ci sono e, in un certo senso, possono anche essere utili, come fonte di ispirazione. Bisogna però fare estrema attenzione nel modo in cui vengono comunicati. Bisogna sottolineare per bene che sono – per l’appunto – casi eccezionali, che non rappresentano assolutamente la norma. Ecco perché ho parlato anche di videogiochi fallimentari, di videogiochi “medi”, di videogiochi a cui è andata bene ma che avrebbero potuto far fare un tonfo incredibile a coloro che li hanno sviluppati. E sono tutte testimonianze pubbliche, ricavate dai postmortem o da dichiarazioni degli sviluppatori stessi.
Immaginate di lavorare due anni a un videogioco, investendoci tempo, energie e soldi, per poi scoprire che è un fiasco commerciale. La sfortuna clamorosa può sempre capitare, al pari della fortuna sfacciata, ma avere il giusto approccio mentale e lavorativo aiuta a ridurre i danni nella maggior parte dei casi. Il che significa entrare in un’ottica di professionalizzazione, in cui mettere in chiaro – prima di tutto a sé stessi – che da quel videogioco bisogna trarci un profitto.
Capisco che sia una prospettiva un po’ inquietante, ma lo è semplicemente perché si viene fin troppo coccolati da discorsi che vanno a ‘venderti’ una realtà differente, in cui esistono solo i casi fortuiti e le mirabolanti storie di successo.
Ma esiste una alternativa?
Questa domanda sarà balzata in mente a qualcuno, se è arrivato a leggere fino a qui. È per forza un prendere o lasciare?
No, non proprio, ma anche qui bisogna capirsi bene e – torno a dirlo ancora una volta – farsi le idee chiare su ciò che si desidera.
Immaginate uno scenario un po’ diverso da quello di prima. Voi tornate a casa dal lavoro, un lavoro che non ha a che fare con i videogiochi. Magari vi trovate a lavorare nella macelleria all’angolo, o in una ditta che produce palline antistress, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Tornate a casa, dicevo, e nel vostro tempo libero vi mettete a realizzare un videogioco. È possibile, si può fare. Certo, se sperate che esca fuori GTA V siete fuori strada, ma un piccolo videogioco potete crearvelo senza troppi problemi. Se quello è il vostro hobby, il vostro passatempo, potrebbe essere una attività bellissima ed estremamente soddisfacente, da portare avanti senza nessun assillo monetario.
Andiamo avanti a immaginare questa cosa. Finite il vostro videogioco e lo mettete in vendita da qualche parte. Con l’autopubblicazione è molto semplice. Nessuno compra il vostro videogioco? Probabilmente ci rimarrete male, ma economicamente non è un grosso problema, perché la vostra attività lavorativa è un’altra. È la stessa differenza tra un informatico di mestiere e uno ‘smanettone’ per passione. Magari il secondo va una volta dal vicino ad assemblargli il pc e si porta a casa 50 euro per l’operazione, ma non è che questo sia il suo lavoro.
Non è nemmeno una divisione in compartimenti stagni assolutamente irraggiungibili fra loro. Ci si può sempre professionalizzare, se una attività portata avanti come hobby comincia a diventare un qualcosa di più, ma bisogna sempre avere la propria mente ben indirizzata, come una bussola, su dove si vuole andare.
Con queste poche righe non voglio scoraggiare nessuno. Tantomeno col manuale. Ho appositamente inserito al suo interno tante testimonianze di persone che lavorano nel settore per raccontare anche quale sia la fascinazione delle sfide a cui vanno incontro. Così come ho inserito anche casi interessanti, curiosità e situazioni particolari legate a questa galassia lavorativa.
Al tempo stesso, però, ho sentito il dovere di ricalibrare certe narrazioni fin troppo entusiastiche o semplicistiche. Perché c’è anche chi ti dice che, sì, è difficile, ma solo per qualche tecnicismo della situazione, come se fosse un sapere esoterico e settario, che una volta compreso ti spalancherà in automatico tutte le porte. C’è una parte di verità, ma senza il giusto approccio si possono conoscere tutti i tecnicismi che si vuole e non riuscire a combinare nulla. Taccio poi di tutte le storie motivazionali pensate per ‘accalappiare’ persone affascinate dal mondo dei videogiochi.
Uno spoiler per chi volesse leggere il manuale Lavorare con i videogiochi: lì dentro non c’è nessun catoblepa. Ma potreste trovare qualche suggerimento per non diventarlo, oltre a una panoramica su come funzionano i vari lavori che ruotano dentro e intorno a questa industria.
La seguente analisi scaturisce dai recenti discorsi sui video di Horizon Forbidden West e sulla caratterizzazione di Aloy.
Come in tanti altri casi, è impossibile non notare una polarizzazione molto forte, da “o bianco o nero”, in cui però nessuna delle due parti sembra cogliere effettivamente il punto, il nocciolo.
In buona sostanza, ciò avviene perché simili dibattiti si verificano sui social, in cui la brevità di scrittura e fruizione dei post è inevitabilmente contraria all’approfondimento. E gli articoli sulla questione, in diversi casi a loro volta sbrigativi, si limitano a fotografare un dibattito più che a vedere cosa ci sia al di sotto.
Tutta la questione è nata dalle ‘guanciotte’ che Aloy mostra nel trailer di questo videogioco, che appaiono un pochino più piene rispetto al suo modello in Horizon Zero Dawn.
Questa cosa, da un lato, ha istantaneamente prodotto un gran numero di meme e sfottò. E questi materiali e commenti, come risposta, hanno generato levate di scudi sull’importanza di rappresentazioni femminili più credibili e meno stereotipate, al di fuori della ‘bambolona’ ipersessualizzata.
Ora, metto subito in chiaro che quest’ultimo punto è importante e mi trova concorde, ma se ci si ferma qui si sta solo ribadendo ciò che è autoevidente. Sarebbe semmai molto più utile capire se, e quali, siano le caratteristiche precipue di Aloy che generano certe risposte, da entrambe le parti.
A margine, vorrei anche aggiungere che la tesi della Aloy ‘cicciottella’ (che poi sarebbe difficile definirla tale, ma diamolo per buono) come antidoto alla sessualizzazione è una posizione piuttosto innocente. Perché sarebbe un invito a nozze per coloro che seguono un numero di feticismi piuttosto ampio e differenziato. Mi limito a dire che praticamente qualsiasi personaggio femminile (e, sempre più, anche quelli maschili) dei videogiochi già viene ‘inciccito’ in numerose fanart. A partire da Aloy stessa.
Ma, come detto, questa è la buccia della questione. Si trova già abbastanza gente pronta a scannarsi su questa cosa e fin quando ci si ferma qui è solo un dibattito di “mi piace” vs “non mi piace”. Magari un po’ più condito con quelle che rimangono però pur sempre opinioni dettate da gusti personali.
Gusti giustissimi, sia chiaro, ma non sono una base solida per un effettivo ragionamento. Un ragionamento che deve servire non tanto a eleggere un vincitore del dibattito (spoiler: non ci sono vincitori né vinti), ma capire perché quest’ultimo si è innescato.
Per fare ciò, è doveroso partire da quel che è stata Aloy in Horizon Zero Dawn.
Due precisazioni forse ovvie, prima di cominciare. La prima è che ci saranno spoiler. La seconda è che non si sta tenendo conto qui di eventuali questioni ‘morali’ legate al dibattito. Non perché non siano rilevanti, ma perché in molti altri contesti si è parlato solo di quello.
Dubbi ecocritici, briganti massacrati e signori del male
Aloy è stata in più occasioni (per esempio Forni, 2017; Parenzi Vieira e Mota, 2018) identificata come un modello positivo di superamento dei tradizionali ruoli di genere.
Da questo punto di vista è sicuramente un personaggio che può essere definito come motivante, fonte di ispirazione, un modello da seguire.
D’altra parte, Aloy è anche inserita in un videogioco che – pur essendo certamente ricco di pregi – presenta alcuni elementi narrativi che aprono a qualche dubbio in più. Per cui, se ci spostiamo su un altro piano, al di fuori della rappresentazione di genere positiva e propositiva, bisogna fare dei discorsi ulteriori.
C’è un primo aspetto, molto importante, che riguarda molto più la struttura di gioco e la visione del mondo, che lo specifico personaggio di Aloy. Per cui questo aspetto finisce comunque per riguardarla, ma solo in qualità di protagonista del videogioco.
Coloro che si sono approcciati a Horizon Zero Dawn con un approccio ecocritico o environmentalista (per esempio Woolbright, 2018; Condis, 2020; Nae, 2020) hanno, in primo luogo, sottolineato alcune discrepanze fra il tema centrale della narrazione e le caratteristiche portanti del gameplay.
Il videogioco, nella sua essenza, parla di un conflitto tra natura e tecnologia. E considerando il suo legame con il passato (la piaga dei robot di Faro, collocata in un futuro poco successivo al nostro presente) può anche essere facilmente identificato come una critica al capitalismo e, se si vuole, anche alla corsa agli armamenti.
Eppure quel che Horizon Zero Dawn ci propone è proprio un approccio capitalistico e una corsa agli armamenti. Bisogna accumulare risorse, depauperando idealmente il territorio, e bisogna equipaggiarsi al meglio per sconfiggere i propri avversari. Avversari che non sono solo gli iconici robottoni, ma anche un gran numero di nemici umani. Se ci si ferma a riflettere, può suonare un po’ curioso che la paladina dell’umanità abbia stroncato qualche centinaio di vite, lungo il suo viaggio. Certo, in questi casi si attiva una dicotomia fra la dimensione della “città” e quella della “wilderness”: i briganti, i traditori ecc. sono idealmente inseriti in quest’ultima, per cui rientrano tra coloro che sono eliminabili (ho accennato alla cosa in Toniolo, 2020).
Non è che questa discrepanza sia presente solo in Horizon Zero Dawn, sia chiaro. Un gran numero di GDR più o meno open world presentano grosso modo queste problematiche. Qui sono semplicemente un po’ più evidenti per via della proposta ecologica di fondo, che – se analizzata più nel dettaglio – va a porre anche qualche domanda su quale sia l’effettivo contrasto in atto.
La natura in Horizon Zero Dawn esiste perché lo ha voluto un software. Aloy stessa esiste perché lo ha voluto un software. Il contrasto di fondo non è quindi tra natura e tecnologia, o tra natura e cultura, o tra due visioni dello sfruttamento delle risorse. È il contrasto manicheo fra due programmi che incarnano un principio di creazione e uno di distruzione.
Il videogioco semina anche degli spunti di maggiore interesse, a tal proposito, ma non va poi a coglierne i frutti. Viene detto infatti che ADE, il programma legato alla distruzione, era stato ideato col compito di bloccare la terraformazione di GAIA, se essa non fosse stata eseguita correttamente. Un simile dettaglio avrebbe facilmente aperto la strada a una conflittualità per più stratificata e anche più vicina a quel messaggio ecocritico che, in modo incerto, Horizon Zero Dawn sembra pur voler veicolare. Se, per esempio, ADE avesse voluto annientare l’umanità dopo essersi reso conto che essa stava ripercorrendo lo stesso sentiero distruttivo del passato. Invece viene semplicemente reso un software impazzito, relegato nella posizione da tradizionale signore del male che deve distruggere tutto senza un perché.
L’altra soluzione non è che sarebbe stata la più interessante di tutte, ma almeno sarebbe stata in linea con l’ambientalismo identificato in Horizon Zero Dawn, che è di matrice piuttosto tradizionale. Ovvero con una natura minacciata dagli esseri umani (in questo caso da una tecnologia creata dagli esseri umani), strutturata quindi in termini di negazione. Sarebbe ovviamente ben più apprezzabile e originale un approccio post-ambientalista, attivo e propositivo, come suggeriva Peter Berg (2001). Ma sarebbe comunque stato un elemento di complessificazione rispetto all’avversario ontologicamente malvagio.
Come detto sopra, Horizon Zero Dawn condivide simili aspetti con un gran numero di altri videogiochi, e non si tratta certo di ‘peccati mortali’ che rendono impossibile godersi il videogioco. Anzi, l’avventura mantiene numerosi tratti di piacevolezza.
Tuttavia, già questo fattore è una spia del fatto che anche certe scelte compiute su Aloy, che sono state dettate da ragioni di giocabilità, non siano necessariamente le migliori in termini assoluti.
Sono il factotum della città
Tanti protagonisti videoludici sono delle Mary Sue o dei Gary Stu. E in molti contesti la cosa è praticamente inevitabile.
Chi bazzica un po’ il mondo delle fanfiction probabilmente già sa cosa vogliano dire questi termini. Essi nascono nel mondo delle fanfiction, per l’appunto, ma sono stati poi applicati anche a un gran numero di personaggi letterari più o meno famosi. Attualmente, dire che un personaggio è una Mary Sue (se femmina) o un Gary Stu (se maschio), significa definirlo un personaggio fin troppo perfetto, prescelto ed eletto, al quale tutti si affidano per qualsiasi incarico rilevante, che è amato da tutti (solo i cattivi la/lo disprezzano e, in quanto cattivi, è chiaro che siano nel torto) e possiede caratteristiche o poteri praticamente unici.
Abbiamo anche diversi esempi famosi. Harry Potter, per esempio, è un perfetto Gary Stu. Oltre a essere l’eletto, il prescelto, l’unico e l’inimitabile, ogni volta che si trova in difficoltà c’è sempre un qualcosa che risolve miracolosamente la situazione. Silente che regala a casaccio punti a Grifondoro è divenuto un meme, ma in realtà è proprio una spia molto evidente di questa cosa.
Proprio a proposito dell’esempio fatto con Harry Potter riporto un parere di Chiara “Gamberetta” che è molto utile per portare avanti il discorso:
«Io ho l’impressione che un’ampia fascia di pubblico non voglia (più?) storie costruite in maniera “tradizionale” e basate sul conflitto, ma cerchi solo un personaggio con cui identificarsi e attraverso il quale vivere i propri sogni senza ostacoli. Niente di male. Il mio problema però è che trovo questo tipo di narrativa noiosa. È come giocare con un videogioco in cui non puoi mai morire: senza sfida che divertimento c’è?» (Gamberetta, 2011).
Bisogna capirsi un attimo. Nessun corso serio di narratologia e scrittura creativa vi direbbe che va bene scrivere una storia in cui il conflitto viene abbassato in continuazione, in cui c’è un personaggio che non compie alcun reale arco di trasformazione e che se la cava sempre perché è l’eletto o per l’intervento di un deus ex machina. Se si legge anche solo il corso base di Marco Carrara (2021) emerge con chiarezza quanto sia importante strutturare il tutto in un certo modo. Allo stesso modo se acquistate qualche buon manuale come quello di Dara Marks (2007) e John Truby (2009).
Ciò che emerge qui è che una storia può affascinare un gran numero di lettori e lettrici anche se la sua struttura non è ottimale, perché riesce a far leva su altre caratteristiche (di identificazione, di rispecchiamento dei propri bias, ecc.). Tuttavia, se quella stessa storia vincente fosse stata strutturata in un altro modo avrebbe ricevuto anche apprezzamenti più solidi e variegati.
Arriviamo ai videogiochi. Soprattutto se siamo davanti a prodotti più o meno ruolistici e più o meno open world, è molto facile che i protagonisti virino fortemente verso un certo grado di ‘marysuismo’. Questo perché, in quanto protagonisti di un videogioco di questo tipo, devono avere una fortissima agency. Deve essere lasciato loro il potere di intervenire sempre e comunque.
Pensiamo al comandante Shepard di Mass Effect. Il destino della galassia intera è letteralmente nelle sue mani. Le sue scelte possono essere aspramente criticate da altri personaggi, ma niente e nessuno gli toglieranno il suo potere decisionale, e sarà sempre lui/lei a occuparsi di tutto. E Shepard è già un personaggio con qualche elemento di complessificazione in più, per cui pensiamo anche solo a Link di The Legend of Zelda. È il prescelto, il campione delle dee, il migliore di tutti i guerrieri, l’unico che può maneggiare la Spada Suprema e tanto altro ancora. Ed è lui a poter e dover fare tutto.
Questo perché giocare nei panni dei comprimari non è altrettanto divertente. È quanto per esempio fecero, per ragioni di crossmedialità, nel videogioco Enter the Matrix (2003), il che generò diversi problemi (si veda Carr, 2008). Certo, ci sono delle eccezioni, così come non mancano storie corali in cui si ha una squadra di eroi ed eroine, ma alla fine anche lì emerge sempre un protagonista primario.
In questo senso, Aloy non è né “migliore” né “peggiore” di Link o di tanti altri personaggi che l’hanno preceduta e seguita. È una prescelta di prima categoria (la ‘reincarnazione’ della più grande scienziata di tutti i tempi), forse la più abile guerriera del suo mondo, tutti quanti pendono dalle sue labbra e nessuno mette mai in dubbio il suo operato.
È una reietta solo a parole, cosa che peraltro è una caratteristica di molte Mary Sue e Gary Stu. Viene presentata come una sorta di emarginata, l’ultima degli ultimi, ma questa cosa è solo dichiarata a parole e non ha alcun impatto narrativo, al di fuori di un paio di dialoghi. Nella sostanza, piuttosto, Aloy si comporta sempre allo stesso modo, sia che abbia davanti a sé l’ultimo dei mendicanti, sia che stia parlando con il sovrano del sole. Ha sempre lo stesso atteggiamento di forte determinazione che talvolta sfiora l’arroganza.
E, come detto, in un certo ‘senso’ deve avere questo potere di imporsi, di non essere mai contrastata, perché altrimenti sarebbe impossibile abbinarla alla modalità di gioco, con tutte le missioni primarie e secondarie che è chiamata a svolgere. Però è anche un personaggio senza un arco di trasformazione profondo e senza un difetto fatale. Ci sono alcuni (pochi) momenti in cui la storia sembrerebbe aprire degli spiragli in tal senso, come quando muore il suo padre adottivo. Sarebbe stato un possibile cambiamento per innescare un percorso di trasformazione interiore e di cambiamento, se fosse morto a causa del difetto fatale di Aloy. Ma dopo un breve filmato l’episodio viene lasciato alle spalle senza alcuna conseguenza, e Aloy rimane quella che era prima.
In questo è in buona compagnia, lo abbiamo già ricordato, ma è bene ricordarlo ulteriormente per evitare fraintendimenti (magari voluti e strumentali). Aloy e tanti altri protagonisti videoludici possono rimanere personaggi molto interessanti per altre ragioni, e nei quali è bello immedesimarsi, anche grazie a questa loro grande agency. Ciò non vuol dire però che siano grandi personaggi in senso assoluto.
Non è un caso che, per esempio, quando realizzano delle trasposizioni a fumetti di The Legend of Zelda, Link viene trasformato in un eroe molto più dubbioso, che talvolta pecca di arroganza e deve pertanto cambiare interiormente per essere in grado di trionfare, ecc. Perché di base il Link videoludico funzionerebbe molto poco. Ha bisogno di essere umanizzato, e ciò prevede che abbia un qualche difetto e un conflitto che non sia solo quello contro Ganondorf. Il Link videoludico è, da questo punto di vista, troppo statico e troppo perfetto, così come Aloy e così come lo sono tanti altri protagonisti e protagoniste.
Tengo anche a precisare che non si sta parlando del mero viaggio dell’eroe. Nella sua forma basilare è chiaro che sia ben applicabile anche a questi personaggi, con qualche minima attenzione per l’iperfetazione di prove intermedie che caratterizza questi videogiochi.
Il marmo e l’argilla
È tempo di tornare alla questione delle ‘guanciotte’ di Aloy. Se le polemiche sull’aspetto di Aloy sono più che pretestuose, le sue difese paiono fin troppo passionali e sovradimensionate. In alcuni casi si può immaginare che ci sia dietro del semplice baiting, con l’interesse per sfruttare la polemichetta del giorno. In altri casi potrebbe non essere così.Aloy è un personaggio ‘pietrificato’. È fatta per costituire un modello, è fatta per potersi identificare in lei. Ma non è assolutamente progettata per la trasformatività.
Anche i contenuti della fanbase su di lei sono molto più celebrativi che performativi. Tolto qualche contenuto erotico – immancabile, secondo i principi della regola 34 dell’internet – molti dei contenuti su di lei mostrano una Aloy che… è semplicemente la Aloy del videogioco. Questo deriva da due fattori. Il primo è quel che è stato trattato in precedenza: la Aloy videoludica è un personaggio un po’ ingessato, fin troppo perfetto. E ci sono anche ragioni comprensibili per cui sia così, ma ciò non cambia la sua natura. Per cui già ha un gradiente di rielaborazione performativa più basso di altri personaggi.
A questo si aggiungono le talvolta fin troppo pronte levate di scudi, contro chi mira a trasformare in qualche modo Aloy, anche ridicolizzandola come ‘cicciona’. Il punto della questione non riguarda la sciocchezza – ed è tale – di definire grassa Aloy perché ha delle guance un filo più tondeggianti. Il punto è che questo episodio aiuta a porre in evidenza la differenza di performatività di certi personaggi. Il che non vuol dire che alcuni siano ‘giusti’ e altri ‘sbagliati’, vuol dire che hanno un destino differente in quelle che sono le reazioni del fandom.
Farò un parallelismo con i quattro lord di Resident Evil Village, perché me ne sono occupato di recente, con una particolare attenzione per Lady Dimitrescu. Loro quattro sono stati fin da subito trasformati e rielaborati in tantissimi modi. E non si tratta solo della feticizzazione di Alcina Dimitrescu, per quanto ovviamente presente. Su Tumblr sono divenuti – tutti e quattro – icone LGBTQIA+. Ci sono fumetti in cui sono una grande famiglia felice. Altri in cui litigano come in una sitcom. Alcuni nobilitanti e alcuni più che degradanti. E sono in tal senso ‘avvantaggiati’ sotto numerosi aspetti.
Non sono i protagonisti, tanto per cominciare, per cui non hanno addosso quel fardello dell’eroe. Non sono pensati per essere dei modelli. O meglio, possono comunque diventarlo, ma non è che questo sia uno dei punti di forza della loro caratterizzazione. Ci sono interessanti discussioni su come Alcina Dimitrescu sia un piccolo ma importante passo per la rappresentazione della figura materna nei videogiochi, ma – appunto – non è che questo sia il suo cavallo di battaglia. Sono, inoltre, composti da una serie di microunità tematiche, a volte anche discordanti fra loro, che gli consentono di prendere facilmente un gran numero di possibili bivi ideali.
Aloy è l’eroina guerriera. E poco altro. Portarla al di fuori di questo campo di azione appare in qualche modo una violazione della sua persona e di tutto ciò che rappresenta. Karl Heisenberg e Alcina Dimitrescu possono diventare tutto ciò che si vuole, sono una materia grezza malleabile.
Aloy la vediamo per ore e ore di gioco, ma grosso modo si comporta sempre allo stesso modo, ha pochissime esitazioni e pochissimi cambiamenti interiori. È integerrima, incrollabile, sempre focalizzata. Salvatore Moreau di Resident Evil Village lo vediamo per una manciata di minuti scarsi. Eppure il singolo dettaglio di lui, solo soletto, che guarda vecchie commedie romantiche e si deprime mentre sgranocchia formaggio apre una miriade di possibilità sul suo personaggio.
In questo è forse il personaggio più letterario fra i quattro lord. Perché tanti memorabili personaggi della letteratura sono proprio resi tali da una singola battuta o azione. Non dal fatto che li ritroviamo per migliaia di pagine. Il fatto poi che si tenda sempre, scolasticamente, a impostare una certa visione fin troppo ‘impegnata’ della letteratura porta a qualche confusione in tal senso, col pensiero che sia necessaria chissà quale lungaggine artificiosa per rendere meritevole un personaggio. Eppure le grandi storie e i grandi personaggi stanno spesso in un dettaglio o in una frase.
Come diceva David Punter a proposito del Frankenstein di Mary Shelley, questo romanzo «ha una trama semplice, che è grandemente complicata dai sofisticati congegni narrativi» (2006, p. 109). Che è bene ci siano, ma non sono quelli ad aver reso immortale Victor Frankenstein e la sua Creatura. Per quello bastano tre o quattro frasi del libro.
Aloy ha al suo centro un’identità molto salda e anche molto statica. Prima l’ho definita “pietrificata”. Se si vuole usare un’espressione che le renda più giustizia potremmo definirla “marmorea”. Nel senso che ha un’identità nobilitante e durevole. È un modello, come detto. Ma il marmo è anche ben poco trasportabile e ben poco malleabile. I quattro lord di Resident Evil Village sono come argilla: basta un tocco per dare loro qualsiasi forma si voglia.
Oppure, per fare un esempio più geek: Aloy è come una costosa action figure. La si ripone in una vetrina e la si ammira. E guai a coloro che si permettono di toccarla. I personaggi come i quattro lord sono come il pupazzo preferito di quando eravamo bambini: si può sempre inventare una qualche storia su di loro, in contesti sempre diversi. Non c’è un modo giusto o sbagliato di collocarsi, ma sono due forme differenti di esistenza. Che evocano risposte differenti in coloro che vi si relazionano.
È su questa base che si stratifica poi tutto il resto. Tutti i pur corretti giudizi di natura morale. Ma finché la discussione ricade sempre e solo su di essi c’è sempre il rischio di una prospettiva monca, incompleta.
Bibliografia
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