A differenza degli altri contenuti caricati in questa sezione del sito, che sono primariamente saggistici, qui vorrei fare un discorso un po’ differente.
L’idea è nata in seguito ad alcune domande che mi sono state fatte, nei post sui social ma soprattutto in privato, in questi giorni.
Il contesto è questo: qualche giorno fa è stata annunciata la data di uscita del mio manualetto Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali, pubblicato con Editrice Bibliografica. Credo che il titolo sia piuttosto esplicativo, è una guida alle professioni che ruotano intorno al mondo del videogioco. Il che è certamente vero, ma c’è di più.
E qui torno alle domande che mi sono state fatte. La maggior parte erano raggruppabili in “ma si parla anche di X?”, dove X era di volta in volta uno specifico ambito. Io rispondevo di sì, dicendo che si parla anche di X, di Y e di Z. Ma nel fornire queste risposte mi sono tornati in mente gli interrogativi che io, per primo, mi ero posto iniziando a lavorare.
Quegli interrogativi che mi hanno portato, dopo un po’, a capire che un elenco di professioni è condizione necessaria ma non sufficiente, se si vuole fare un vero discorso su cosa voglia dire lavorare con i videogiochi.
Potrei dire che è una questione di mentalità, ma magari a qualcuno il termine non piace, perché è stato un po’ troppo abusato da guru e ‘santoni’ di dubbio gusto. Diciamo allora che è una questione di scelte e decisioni da prendere (il che si fa con una certa mentalità, per cui torniamo comunque lì, ma vediamo se così si aggira l’ostacolo).
Purtroppo c’è più di una fonte che finisce per proporvi quello che è un approccio “da catoblepa”. Alcune lo fanno in buona fede, per ignoranza della materia, altre sono probabilmente in mala fede.
Ora, non so se vi è noto il catoblepa. Non è che sia la creatura fantastica più diffusa, sebbene venga recuperato in qualche videogioco. È una sorta di bue con la testa molto pesante, che tiene sempre abbassata. Secondo gli antichi ha anche uno sguardo che pietrifica e/o un alito velenoso, ma questo non ci interessa. Pensate al capo perennemente chino. Ecco, mi sembra l’immagine perfetta per chi avanza a spron battuto in una direzione senza mai controllare intorno a sé.
Torniamo indietro di un po’ di mesi. Siamo nel momento in cui mi sto preparando per la stesura del manuale. Rileggo tutto ciò che già conosco sull’argomento e che ritengo possa essere utile. Cerco nuove fonti, acquisto libri e manuali di vario genere. Leggo un gran numero di articoli e testimonianze di sviluppatori, come quelle pubblicate su Gamasutra, e leggo anche tutte le conversazioni che generano. Nel frattempo parlo con un po’ di persone che conosco, guardo diversi talk online e molto altro ancora. Raccolgo opinioni e testimonianze, insomma, e confrontandole emerge una cosa prevedibile, ma comunque piuttosto interessante.
Più si va sulle tecnicalità di un ruolo e più le esperienze divergono. Detta così ci si aspetterebbe l’esatto contrario, ma in realtà la cosa ha perfettamente senso. Ricordiamoci quanto siano differenziati tra loro i videogiochi e, di conseguenza, le loro modalità produttive. Anche la stessa, identica operazione se viene compiuta in un gigantesco team con milioni di budget o nel seminterrato del cugino non è davvero identica, perché va a inserirsi in contesti del tutto differenti fra loro.
Una volta acquisita la consapevolezza di questa realtà, l’esito è quello di liberarsi dall’ossessione per la tassonomia. Una fotografia al 100% dettagliata e completa di una certa professione, con tutte le sue ramificazioni interne è probabilmente impossibile, considerando l’ampiezza e mutevolezza del mercato. E se anche fosse possibile non è detto che sarebbe utile e sensata.
Per tornare al manuale, ciò non vuol dire che io sia rimasto sempre e solo sul generico, ci sono anche esempi e casi piuttosto specifici, e tutte le principali aree lavorative sono coperte. Sto dicendo una cosa differente. Immagino un ragazzo o una ragazza all’inizio di un percorso di studi, con questo libro tra le mani. Qual è la cosa di cui avranno probabilmente più bisogno? Direi che non è una panoramica minuta di tutte le varianti di una categoria professionale, che magari sono riscontrabili solo in pochissimi team di sviluppo con centinaia di dipendenti.
Anche qui, non voglio dare una risposta univoca, ma direi che è fondamentale dar loro un aiuto per riflettere sull’approccio e sulle scelte future. E con “scelte future” non intendo tanto quella – faccio un esempio – tra programmare videogiochi o realizzarne le concept arts. Direi che una persona ha già un suo percorso legato alla programmazione o al disegno, e non va a modificarlo solo perché legge un manuale. Certo, il testo può fargli scoprire un po’ di cose in più sull’ambito di interesse, ma non sto parlando di queste scelte qui.
Sto parlando della scelta di lavorare effettivamente con i videogiochi.
Non è una provocazione, sia chiaro. Mi spiego meglio.
Rimuovendo la mitica patina di fascinazione, lavorare con i videogiochi vuol dire che si guadagna da quell’attività. E che ci si guadagna a sufficienza da potersi pagare le bollette, il cibo e tutto il resto. Lavorare con i videogiochi, in senso stretto, vuol dire che il vostro reddito viene da lì.
Aggiungiamo anche un altro dettaglio: quando si lavora con qualcosa che ci piace si possono innescare degli strani meccanismi. Quella cosa, in primo luogo, potrebbe finire per annoiarci o lasciarci indifferenti, non la vivremmo più come un divertimento e uno svago ma come un obbligo. Oppure potrebbe continuare ad appassionarci e, proprio per questo, finiremmo per lavorare in continuazione, senza più troppi confini tra lavoro e riposo, il che può portare a situazioni non proprio ottimali.
Questo è un discorso generico, se vogliamo, ma vale ancor più per i videogiochi. Diverse narrazioni sul medium videoludico sono infatti viziate da storie di ragazzini nerd e un po’ perdigiorno che nel tempo libero sviluppano un videogioco e lo pubblicano su Steam. E – attenzione – ci sono sicuramente dei ragazzini che hanno pubblicato un videogioco su Steam sviluppato nel tempo libero, ma le narrazioni che dicevo sopra sottendono più o meno implicitamente che questa cosa sia un lavoro. Quanto avranno guadagnato, da quel loro progetto? E quanto tempo ci hanno perso, prima di arrivare alla pubblicazione?
Non sto negando il fatto che ci siano casi eccezionali, in cui il videogioco sviluppato nel seminterrato del cugino in tre giorni diviene un fenomeno virale e genera una montagna di soldi. Questi casi esistono e anche nel libro ne ho riportato qualcuno. È utile sapere che ci sono e, in un certo senso, possono anche essere utili, come fonte di ispirazione. Bisogna però fare estrema attenzione nel modo in cui vengono comunicati. Bisogna sottolineare per bene che sono – per l’appunto – casi eccezionali, che non rappresentano assolutamente la norma. Ecco perché ho parlato anche di videogiochi fallimentari, di videogiochi “medi”, di videogiochi a cui è andata bene ma che avrebbero potuto far fare un tonfo incredibile a coloro che li hanno sviluppati. E sono tutte testimonianze pubbliche, ricavate dai postmortem o da dichiarazioni degli sviluppatori stessi.
Immaginate di lavorare due anni a un videogioco, investendoci tempo, energie e soldi, per poi scoprire che è un fiasco commerciale. La sfortuna clamorosa può sempre capitare, al pari della fortuna sfacciata, ma avere il giusto approccio mentale e lavorativo aiuta a ridurre i danni nella maggior parte dei casi. Il che significa entrare in un’ottica di professionalizzazione, in cui mettere in chiaro – prima di tutto a sé stessi – che da quel videogioco bisogna trarci un profitto.
Capisco che sia una prospettiva un po’ inquietante, ma lo è semplicemente perché si viene fin troppo coccolati da discorsi che vanno a ‘venderti’ una realtà differente, in cui esistono solo i casi fortuiti e le mirabolanti storie di successo.
Ma esiste una alternativa?
Questa domanda sarà balzata in mente a qualcuno, se è arrivato a leggere fino a qui. È per forza un prendere o lasciare?
No, non proprio, ma anche qui bisogna capirsi bene e – torno a dirlo ancora una volta – farsi le idee chiare su ciò che si desidera.
Immaginate uno scenario un po’ diverso da quello di prima. Voi tornate a casa dal lavoro, un lavoro che non ha a che fare con i videogiochi. Magari vi trovate a lavorare nella macelleria all’angolo, o in una ditta che produce palline antistress, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Tornate a casa, dicevo, e nel vostro tempo libero vi mettete a realizzare un videogioco. È possibile, si può fare. Certo, se sperate che esca fuori GTA V siete fuori strada, ma un piccolo videogioco potete crearvelo senza troppi problemi. Se quello è il vostro hobby, il vostro passatempo, potrebbe essere una attività bellissima ed estremamente soddisfacente, da portare avanti senza nessun assillo monetario.
Andiamo avanti a immaginare questa cosa. Finite il vostro videogioco e lo mettete in vendita da qualche parte. Con l’autopubblicazione è molto semplice. Nessuno compra il vostro videogioco? Probabilmente ci rimarrete male, ma economicamente non è un grosso problema, perché la vostra attività lavorativa è un’altra. È la stessa differenza tra un informatico di mestiere e uno ‘smanettone’ per passione. Magari il secondo va una volta dal vicino ad assemblargli il pc e si porta a casa 50 euro per l’operazione, ma non è che questo sia il suo lavoro.
Non è nemmeno una divisione in compartimenti stagni assolutamente irraggiungibili fra loro. Ci si può sempre professionalizzare, se una attività portata avanti come hobby comincia a diventare un qualcosa di più, ma bisogna sempre avere la propria mente ben indirizzata, come una bussola, su dove si vuole andare.
Con queste poche righe non voglio scoraggiare nessuno. Tantomeno col manuale. Ho appositamente inserito al suo interno tante testimonianze di persone che lavorano nel settore per raccontare anche quale sia la fascinazione delle sfide a cui vanno incontro. Così come ho inserito anche casi interessanti, curiosità e situazioni particolari legate a questa galassia lavorativa.
Al tempo stesso, però, ho sentito il dovere di ricalibrare certe narrazioni fin troppo entusiastiche o semplicistiche. Perché c’è anche chi ti dice che, sì, è difficile, ma solo per qualche tecnicismo della situazione, come se fosse un sapere esoterico e settario, che una volta compreso ti spalancherà in automatico tutte le porte. C’è una parte di verità, ma senza il giusto approccio si possono conoscere tutti i tecnicismi che si vuole e non riuscire a combinare nulla. Taccio poi di tutte le storie motivazionali pensate per ‘accalappiare’ persone affascinate dal mondo dei videogiochi.
Uno spoiler per chi volesse leggere il manuale Lavorare con i videogiochi: lì dentro non c’è nessun catoblepa. Ma potreste trovare qualche suggerimento per non diventarlo, oltre a una panoramica su come funzionano i vari lavori che ruotano dentro e intorno a questa industria.