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South of Midnight: gotico del sud, folklore e trapunte

South of Midnight, in uscita in questi giorni, si presenta come un’affascinante reinterpretazione del Southern Gothic, il “gotico sudista” o “gotico del sud”. Ma che cos’è esattamente questo genere? Siamo effettivamente in grado di riconoscerlo? Ci sono altri videogiochi con cui non è stato così semplice. Proveremo qui a ripercorrere le radici culturali del genere, arrivando poi a segnalare quali sono alcuni degli elementi su cui varrebbe maggiormente la pena soffermarsi, nel ricercare le radici culturali di South of Midnight. E questi elementi potrebbero aver a che fare meno col gotico e molto più con le… trapunte! Ma procediamo con ordine.

South of Midnight

Ah, se preferisci l’ascolto alla lettura c’è anche un mio video YouTube sull’argomento di questo articolo.

Sappiamo davvero definire il gotico?

Partiamo ricordando questa cosa: il “gotico” è uno di quei termini che evocano più o meno a tutti qualcosa di vago, ma che pochi sanno definire con chiarezza. Questo perché, effettivamente, esistono diverse accezioni di “gotico”, con vari livelli di ampiezza. Per cui a seconda di chi sia il vostro interlocutore potrebbero esserci risposte molto diverse, davanti alla domanda «che cos’è il gotico?». Sono comunque abbastanza sicuro che, in linea di massima, la risposta conterrebbe vecchi castelli, storie di paura e tetre magioni disperse nelle nebbie di qualche brughiera.

Nella sua accezione più ristretta, il “gotico” comprende un numero molto limitato di opere letterarie. Parliamo dei romanzi settecenteschi come Il castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, Il vecchio barone inglese (1777) di Clara Reeve, I misteri di Udolpho (1794) e L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri (1797) di Ann Radcliffe, Il monaco (1796) di Matthew Lewis e altre opere di quel periodo.

Il castello di Otranto

Tuttavia, al di fuori di qualche storia della letteratura, il “romanzo gotico” ha dei confini un po’ più ampi di così. Vengono generalmente considerati anche i romanzi della generazione successiva, come il Frankenstein (1818) di Mary Shelley, Il vampiro (1819) di Polidori, i racconti dello scrittore E.T.A. Hoffmann (come L’uomo della sabbia) e molti altri ancora, fino ad arrivare alle soglie del Novecento con opere come Dracula(1897) di Bram Stoker.

Direi che, fino a qui, troveremmo un certo accordo tra le persone. Che Dracula e Frankenstein siano dei romanzi “gotici” non penso susciti particolare stupore. Dopo di loro… dipende molto dal punto di vista. Prendiamo per esempio Howard Phillips Lovecraft, forse il più influente scrittore horror di tutto il Novecento, che con i suoi Grandi Antichi (Cthulhu, Nyarlatothep, Azathoth, ecc.) ha diffuso l’idea dell’orrore cosmico. Chi ha letto i suoi racconti più celebri, come Il richiamo di Cthulhu, generalmente non li considera “gotici”. Non ci sono fantasmi, castelli in rovina, vampiri, eroine che svengono per la paura e manoscritti polverosi. C’è un gigante-drago-piovra giunto dallo spazio profondo che dorme sul fondo dell’oceano in una città dalla geometria non euclidea e che sognando lancia messaggi ai cultisti in giro per il mondo.

Ma non tutti la pensano così. Prendiamo il libro The Literature of Terror: A History of Gothic Fictions from 1765 to the Present Day di David Punter: in questo saggio sulla letteratura “gotica” (già il titolo è indicativo), Lovecraft viene indicato come tardo epigono del “gotico” statunitense. Invece che sottolineare l’elemento di rottura con la tradizione precedente, quando David Punter parla di Lovecraft mette in risalto tutto ciò che egli riprese dalle opere del passato. Chi ha ragione? Tutti e nessuno. In certe sue opere, Lovecraft è effettivamente molto vicino ad alcuni suoi maestri come Poe. Evito di spingermi oltre Lovecraft, quel che mi premeva sottolineare qui è questo: se già con lui abbiamo questa differenziazione legata a come etichettarlo (epigono del gotico o elemento di rottura con la tradizione), tanto più questo avviene dopo di lui.

Cos’è il gotico del sud

Arriviamo quindi al Southern Gothic, il “gotico del sud”, in cui si collocherebbe l’immaginario di South of Midnight. Se già è difficile definire con precisione cosa sia il “gotico” nel suo insieme, questa sua sottocategoria appare a tratti ancor più ingarbugliata. Provo comunque a sintetizzare quelli che sono gli elementi più frequentemente citati quando si parla di Southern Gothic:

  • Ambientazione legata al sud degli Stati Uniti. E fin qui ci siamo, nulla di inaspettato.
  • Ripugnanza fisica. Troviamo esseri deformi e freaks di varia natura. Nel gotico letterario i mostri erano molto più legati all’ambivalenza del monstrum (prodigio) latino: esseri brutti ma a loro modo anche affascinanti. Come l’originario conte Dracula: animalesco e brutto ma non privo di nobiltà. Nel Southern Gothic il prodigio si perde per strada e resta solo il mostruoso, solitamente legato a famiglie di esseri deformi, interiormente ed esteriormente repellenti.
  • Critica sociale. La prima cosa che viene in mente sono le perduranti ostilità razziali, spesso legato a una denuncia della disparità tra classi sociali che va oltre le distinzioni etniche.
  • Sessualità proibita e/o nascosta. Direi che è da sempre presente anche nel “gotico” tradizionale, in varie forme. Talvolta come tensione sessuale latente (tutto il filone dei vampiri va molto in questa direzione), talvolta come peccato da nascondere, talvolta come origine delle sopra citate mostruosità fisiche. I malvagi e deformi freaks del Southern Gothic sono spesso il frutto di rapporti incestuosi o comunque proibiti.
  • Ambientazioni decadenti. La decadenza fisica e morale – come spesso avviene – trova un corrispettivo paesaggistico e architettonico simile a quello del gotico tradizionale, con la differenza che in questo caso non troviamo castelli in rovina ma vecchie case coloniali.

È una lista ovviamente indicativa, un tentativo di razionalizzare un’etichetta sfuggente, dai confini poco definiti (come molte altre etichette legate ai generi letterari, cinematografici e videoludici, mi verrebbe da aggiungere).

Rileggendo questo elenco, continuava a venirmi in mente il nome di un videogioco, ancor prima di South of Midnight: sto parlando di Resident Evil 7: Biohazard (2017).

Resident Evil 7 Biohazard

Se ci pensiamo, ha molto senso. La serie Resident Evil ha attinto a molti elementi gotici, al fianco di altre suggestioni più contemporanee. La villa del primo Resident Evil (1996) è inequivocabilmente gotica, così come lo è l’utilizzo di diari e lettere per fornire indizi, ecc. Ancor più, Resident Evil Village (2021) è un concentrato di recuperi gotici. Non c’è quindi da stupirsi che anche Resident Evil 7 sia strettamente legato a un differente filone gotico, in questa sua veste Southern.

Per pura curiosità personale, mi sono messo a fare qualche ricerca: sono molto poche le persone che hanno parlato di Resident Evil 7 in ottica Southern Gothic, soprattutto in Italia, mentre questa etichetta si è ritrovata molto più spesso in questi ultimi giorni, applicata a South of Midnight. Credo che la spiegazione sia semplice: South of Midnight si è esplicitamente proposto come esponente videoludico di quel filone, mentre non ricordo comunicazioni in tal senso da parte di Capcom. Rimane comunque un dato alquanto curioso da sottolineare, perché vuol dire che la comunicazione ufficiale va ancora a indirizzare fortemente il modo con cui si incasellano e analizzano molti videogiochi.

Mostri leggendari in South of Midnight

Sicuramente South of Midnight è molto Southern. Sul fatto che sia pure Gothic ne sono meno sicuro, ma ciascuno può dire la sua. Come detto, il “gotico” è un concetto alquanto labile, interpretabile diversamente da varie persone.

Alcuni aspetti Southern del videogioco sono abbastanza evidenti. Altri sono più sottili e sono forse anche quelli più interessanti da indagare e approfondire. Tra quelli più evidenti c’è per esempio il recupero di diversi miti locali. Uno di questi è il leggendario alligatore Two-Toed Tom, talvolta anche noto come Red-Eye. La sua storia ha origine agli inizi del Novecento, tra Florida e Alabama, dove si vociferava di un gigantesco alligatore di quattro metri, con gli occhi rosso fuoco, che razziava le fattorie divorando umani e animali. Il suo nome deriva dal fatto che gli erano rimaste solo due dita, perché le altre erano state tranciate via da una trappola. Two-Toed Tom torna in South of Midnight, dove appare come un colossale alligatore albino, così grande da portarsi dietro un’isola sulla sua schiena.

Two-Toed Tom in South of Midnight
Two-Toed Tom in South of Midnight

È più trasformativo il recupero del Rougarou, per come viene visivamente proposto all’interno del videogioco. Tradizionalmente, il Rougarou è una sorta di licantropo. Non a caso, il suo nome deriva dal francese loup-garou, che significa proprio lupo mannaro. Nel tradizionale immaginario creolo e cajun, il Rougarou è simile all’uomo lupo europeo, ma in South of Midnight la creatura ha un aspetto differente e si presenta come una sorta di gufo mannaro. Questa è una mia ipotesi, ma mi chiedo se questa scelta del team nasca da qualche influsso del voodoo haitiano, nel cui folklore sono presenti dei mutaforma mannari capaci di volare. Vedo che online c’è chi propone invece l’Uccello del Tuono dei nativi americani come fonte di ispirazione. Può essere che il team avesse in mente quello, ma sarebbe una commistione con un immaginario molto più lontano da quello creolo, rispetto al folklore voodoo.

Il Rougarou in South of Midnight
Il Rougarou in South of Midnight

Più in generale, South of Midnight propone una bella collezione di criptidi e mostri locali. Oltre a Two-Toed Tom e al Rougarou ci sono anche il mostro della palude di Honey Island (una sorta di Bigfoot della Louisiana), l’Altamaha-ha (un mostro acquatico che ricorda la creatura di Loch Ness) e la Huggin’ Molly. Quest’ultima nasce da una storia locale dell’Alabama, che parla di una donna molto alta che si aggira di notte per stritolare gli ignari passanti, con un abbraccio letale. Come altre creature citate, anche la Huggin’ Molly è stata riproposta con un differente aspetto, in South of Midnight, dove appare come una sorta di donna ragno gigante ricoperta di tessuti.

Trapunte colorate

Proprio parlando di tessuti emerge uno dei richiami meno evidenti (ma anche più interessanti) di South of Midnight alla cultura Southern. I poteri di Hazel, la protagonista del gioco, sono infatti legati a questo mondo. Acquisendo le abilità da Tessitrice, Hazel deve aggiustare il Grande Arazzo della realtà, squarciato dai traumi subiti dalle persone. Direi che questa parte della storia si lega alla tradizione del quilting presente negli Stati Uniti del Sud.

Un quilt viene realizzato attraverso appliqué (applicazione) e trapuntatura di tessuto. E, per l’appunto, somiglia a una trapunta. Negli Stati Uniti si è diffuso in due modalità differenti. All’inizio il quilting era praticato dalle donne ricche, quando i tessuti utilizzabili venivano importati dall’Europa ed erano pertanto piuttosto costosi. Per queste donne, un quilt non aveva utilità pratica, era uno strumento di espressione creativa con cui poter realizzare qualcosa di visivamente gradevole.

Tuttavia, negli Stati Uniti del Sud, si diffuse un’altra forma di quilting, praticato da donne afroamericane e povere. In questo caso, le donne dovevano realizzare coperte per proteggersi dal gelo che penetrava all’interno delle baracche di legno in cui abitavano. Non avendo altro a disposizione, queste tessitrici utilizzavano vari pezzi di tessuto, ricavati da vecchi abiti dismessi. Nonostante ciò, le donne davano una grande impronta personale a queste loro creazioni, di cui andavano fiere e che amavano esibire, stendendole su cataste di legna o sui fili usati per asciugare il bucato. Negli ultimi anni, questa pratica del quilt è entrata anche nel mondo dell’arte “ufficiale”, dopo che le donne di Gee’s Bend (una comunità dell’Alabama) hanno esposto le loro creazioni in importanti musei statunitensi.

I quilts di Gee’s Bend

In riferimento a South of Midnight, tuttavia, direi che è soprattutto interessante ricordare casi come quello di Harriet Powers (1837-1910), una donna afroamericana della Georgia, nata schiava, che aveva realizzato dei quilt con lo scopo di raccontare eventi biblici e storici. Oggi ne rimangono solo due: il Bible Quilt del 1886 e il Pictorial Quilt del 1898. Le sue trapunte erano una sorta di sermone visivo che serviva probabilmente a trasmettere un’immagine del mondo, condensato in alcuni eventi significativi.

bible quilt
Il Bible Quilt di Harriet Powers
pictorial quilt
Il Pictorial Quilt di Harriet Powers

Proprio come il Grande Arazzo di South of Midnight, mi verrebbe da dire. Un’immagine della totalità, fatta di tessuto. I quilt di Harriet Powers non erano solo manufatti artistici. Erano anche strumenti di narrazione e di memoria culturale. Credo che South of Midnight voglia fare qualcosa di simile: va a “tessere” una trama che vuole fornire una nuova visione del folklore creolo e cajun, trasformando il videogioco stesso in un nuovo racconto visivo. Un insieme di episodi della tradizione, da mostrare e tramandare, proprio come gli episodi presenti nei quilt della Powers.

The Duskbloods: analisi del trailer… o meglio, della finestra

Il trailer di The Duskbloods, appena mostrato, mi ha suscitato subito un certo interesse e curiosità. Immagino di non essere l’unico ad averlo apprezzato.

Probabilmente apprezzerò meno il gioco. E anche qui credo di non essere l’unico.

Se, come dicono, sarà un PvPvE… non è una tipologia di gioco che mi interessa particolarmente. E leggendo i commenti in giro, molti speravano che fosse un effettivo “Souls“.

Pazienza. Piacerà ad altre persone. E magari ci sarà comunque un po’ di lore da discutere.

L’inizio del trailer è però apprezzabile e si unisce bene nel solco di FromSoftware.

Si possono dire tante cose su di esso e sono sicuro che non mancheranno le varie reaction con commento.

Da parte mia, ho voluto scrivere questo primo articolo a caldo, soffermandomi sulla finestra che si vede all’inizio del trailer di The Duskbloods.

Penso sia un dettaglio su cui si soffermeranno in pochi. Anche comprensibilmente, ciò che si vede nel resto del trailer apre a un maggior numero di speculazioni possibili.

Ma magari fornisco qualche spunto utile di riflessione.

Il trailer di The Duskbloods si apre così.

The Duskbloods

Una bella composizione. Oserei dire pittorica.

Anche quando un’immagine è statica, noi percepiamo comunque una certa direzionalità. In questo caso è quella della luce lunare che entra dalla finestra.

In termini tecnici, il vettore della luce va da sinistra a destra e segue quella che è la diagonale discendente (o disarmonica).

Duskbloods con diagonale discendente

Il fatto che il trailer si apra proprio in questo modo non è casuale, visto che si lega a tutta una serie di “ingressi” presenti nei Souls, oltre che a una certa tradizione iconografica, volendo allargare il campo.

Quel che mi interessa sottolineare qui è soprattutto il fatto che sia la prima cosa che vediamo nel trailer. E non mi stupirei se all’inizio di The Duskbloods ci fosse un inizio similare, visto che è qualcosa che già si è visto nei Souls precedenti.

La finestra è una delle tante rappresentazioni della soglia. Per questo, quando appare all’inizio di un videogioco (o di un trailer, in questo caso) non è un elemento neutrale.

Nei videogiochi sono presenti tanti archetipi legati alla soglia, che accompagnano l’ingresso nel mondo di gioco. Giusto per fare qualche esempio, potremmo trovarci davanti a un ponte (Shadow of the Colossus, Resident Evil 4, ecc.), all’uscita da un sarcofago (ICO), all’ingresso in una casa (il primo Resident Evil, Gone Home, ecc.), al passaggio dal sonno alla veglia (molti The Legend of Zelda) e altro ancora.

Il ponte in Shadow of the Colossus
Il ponte in Rsident Evil 4

Sono tutti elementi che attingono da tradizioni antiche, non a caso rappresentano una simbologia molto potente, che parte dai riti di passaggio e che ha trovato mille declinazioni narrative nel corso del tempo. In narratologia una delle soglie per eccellenza è quella che separa il “mondo ordinario” (in cui l’eroe o l’eroina conducono la loro vita prima della chiamata all’avventura) dal mondo straordinario, quello dove inizia il loro effettivo viaggio.

Nei videogiochi, tutto ciò è espanso e potenziato dal fatto che si sottolinea la separazione tra il “mondo ordinario” di noi giocatori, quindi la realtà esterna al videogioco, e il mondo narrativo in cui ci caliamo attraverso il nostro avatar. Ecco perché c’è spesso una sottolineatura visiva di questo passaggio, all’inizio di molti giochi.

Compresi i Souls. Sia nel primo Dark Souls sia in Sekiro c’è un gioco di inquadrature tra l’esterno e l’interno di uno spazio che, in quel caso, è una prigione.

In Dark Souls 2 il momento in cui si assume il controllo del proprio avatar è preceduto dal filmato con l’ingresso in un vortice acquatico. In Dark Souls 3 c’è l’uscita da una bara (simile al citato inizio di ICO). E via dicendo.

Qui in The Duskbloods siamo accompagnati all’interno del mondo di gioco dalla luce lunare.

Come dicevo prima, noi percepiamo il movimento anche nella staticità. Capiamo che la presenza di quella finestra ci invita a entrare perché “sappiamo” che la luce (della luna) entra nelle case.

E che cosa va a illuminare? Un corpo, disteso su una sedia. Ora, ho ovviamente molte poche informazioni sul gioco, ma mi verrebbe da dire che quel corpo rappresenta il nostro avatar.

Noi giocatori siamo la luce lunare che “entra” – dall’esterno all’interno – e si riversa in lui.

In fondo è questa una delle funzioni delle finestre, no? Riversare luce nello spazio interno. Lo vediamo anche in pittura, perlomeno dai tempi della Lattaia (1660) di Jan Vermeer.

Lattaia di Vermeer

Ma a questo punto potrebbe anche sorgere una – giustissima – domanda: se noi “siamo” la luce lunare che entra dalla finestra e illumina il personaggio, perché il nostro punto di vista è collocato altrove? Detto in altre parole, non dovremmo trovarci al di fuori della finestra e guardare all’interno della stanza?

Idealmente corretto, ma credo che qui si sia attivata una lunga tradizione iconografica, che si è già vista anche in altri videogiochi di FromSoftware e attinge le sue radici nel passato. Restiamo su Jan Vermeer, con la sua Ragazza (o Donna) che legge una lettera presso una finestra (1657).

ragazza che legge di Vermeer

Come scrivevano Umberto Eco e Omar Calabrese a proposito di questo quadro, «si ha la sensazione di entrare in uno spazio privato, come se la scena proposta fosse un momento di vita privata, “rubato” da un osservatore indiscreto. È come se il produttore avesse guardato dalla toppa della serratura» (Le figure del tempo, Mondadori 1987, p. 104).

Quindi, sì, noi stiamo entrando in uno spazio privato, in cui è ben visibile una finestra, e lo facciamo come osservatori indiscreti, ma il nostro punto di vista è collocato in modo da rendere visibile anche la citata finestra. Come se, appunto, stessimo guardando dalla toppa della serratura.

Esiste anche un’altra tipologia di sguardi “spioni”, quelli che penetrano direttamente nelle case passando dalle finestre, ma hanno una differente storia evolutiva. Sono gli sguardi di cui ha parlato Salvatore Silvano Nigro, all’inizio del suo saggio Il portinaio del diavolo. Occhiali e altre inquietudini (2014), ricordando tra le altre cose il celebre film La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock. Uno sguardo da spettatore cinematografico, che spia senza essere visto.

Qui siamo davanti a un rapporto diverso, in cui una delle due parti chiamate in causa è prima immobile e poi prende vita (fuor di metafora: assumiamo il controllo del personaggio e possiamo muoverlo).

Più o meno il contrario di quanto si vedeva in una xilografia di Albrecht Dürer (1538), con l’artista che fissava sulla carta (e quindi “immobilizzava”) il mobile corpo della modella davanti a lui.

Ora, in The Duskbloods siamo davanti a un trailer, per il momento. Quindi non c’è ancora nessun effettivo inizio del gioco. Può anche essere che il momento iniziale di The Duskbloods sarà molto diverso da così, ma se ci dovessi scommettere, direi che sarà comunque presente una qualche forma ben evidente di soglia.

In ogni caso, questo fattore del risveglio è anche qui ben presente.

Il punto di vista si sposta. Ora siamo vicini al corpo. Una delle sue mani penzola inerte verso il basso. Appare un’altra mano, che risale dal basso.

The Duskbloods, mani con finestra sullo sfondo

La finestra rimane presente sullo sfondo, a sottolineatura della sua importanza. Ma questa volta più che una soglia è una cornice. È come un quadro nel quadro. Sta inquadrando la luna, che come si può intuire ricoprirà un ruolo fondamentale all’interno di The Duskbloods.

Non che sia una novità, considerando i precedenti Souls. Mi sento comunque di ripetere un consiglio di lettura che ho già fornito in diverse altre occasioni: recuperate il saggio L’occulto di Colin Wilson.

Hidetaka Miyazaki stesso lo ha citato tra le sue letture ma, nonostante ciò, non ne parla quasi nessuno. Così come quasi nessuno parla del Campione eterno di Moorcock in riferimento a Elden Ring, nonostante anch’esso sia stato esplicitamente citato da Miyazaki come una delle sue fonti di ispirazione per quel gioco. Per cui, certo, va benissimo ricordare Berserk, ma tante altre fonti di Miyazaki sono rimaste quasi sempre nell’ombra.

L’occulto contiene un lungo capitolo sulla magia lunare. Aiuta a comprendere perché siano state fatte certe scelte nella storia di Ranni in Elden Ring e credo che sarà utile anche per capire meglio The Duskbloods.

Io lancio la palla, come si suol dire. Poi lascio ai “cacciatori di lore” divertirsi nel realizzarci sopra tutta una serie di contenuti. Magari ricordatevi di citare questo articolo, se il suggerimento che ho dato sarà effettivamente utile per farvi creare qualche contenuto interessante.

Per chi volesse approfondire il discorso, in passato avevo scritto questo: La cornice del cominciamento: calarsi nell’avatar in Dark Souls e Sekiro, che potete leggere qui.

In generale, se spulciate nell’elenco delle mie pubblicazioni trovate un po’ di materiale sui Souls.

Donna Beneviento: madri velate e Veneri anatomiche

L’articolo sottolinea certe similitudini tra gli eventi di villa Beneviento in Resident Evil Village e alcune tradizioni fotografiche e manifatturiere del passato.

Ho scritto questo contributo insieme all’artista visuale e tessile Anna Bassi.

L’anno scorso ho pubblicato, su Everyeye, un altro articolo divulgativo dedicato a Donna, Angie e al feto mostruoso. Chi volesse recuperarlo lo trova qui.

La bambola sposa e la madre velata

Donna Beneviento è uno dei quattro lord di Resident Evil Village, il secondo che viene affrontato da Ethan nel corso del suo viaggio. Donna non ha subito radicali mutazioni fisiche con il Cadou ricevuto da Madre Miranda: l’unico cambiamento visibile nel suo corpo riguarda la cicatrice sul volto, che è diventata un carnoso ammasso informe. In ogni caso, Donna non rivela mai il suo viso, che è sempre celato da un velo nero. Allo stesso tempo, lei non parla mai (solo in un momento del gioco è udibile la sua voce), si esprime invece attraverso Angie, la sua bambola.

Angie è una bambola vestita da sposa, con il volto che ricorda l’emblema del casato Beneviento (un sole e una luna); è un dono che il padre di Donna – defunto – realizzò per la sua bambina. Come intuibile attraverso una nota leggibile nella casa del giardiniere della famiglia, Donna ricorreva ad Angie per parlare già prima di ottenere il Cadou da Madre Miranda, con relativi poteri. In quel caso si trattava però di semplice ventriloquia; in seguito, invece, Donna divide il Cadou tra le sue bambole, per poterle controllare a distanza, ed Angie sviluppa l’effettiva abilità di muoversi e di parlare. Anche in questo caso, però, Angie è comunque la portavoce della sua proprietaria, di cui fa le veci.

Osservandole vicine, uno dei primi elementi che risalta all’occhio di chi guarda è il contrasto cromatico tra i vestiti delle due: l’abito bianco, da sposa, di Angie si staglia sulla luttuosa veste nera di Donna.  Angie, che fa da portavoce, ha questa connotazione simbolicamente più felice, di donna che si apre alla vita e al matrimonio, in contrasto con l’apparente vedovanza della proprietaria. In realtà, dato che sono sostanzialmente la stessa persona, è come se queste due simboliche fasi della vita siano tra loro compenetrate. Questa compenetrazione è ulteriormente richiamata dallo stemma di famiglia, che a sua volta è riprodotto sul volto di Angie, simile a un sole e una luna intrecciati tra loro. Tale simbologia celeste va a rimarcare la presenza di un’apparente dualità che rivela una totalità.

Tornando all’apparenza, tuttavia, Donna e Angie appaiono come due entità distinte, visivamente. Le due sono in particolare connotate da un rapporto madre-figlia. Alla luce di questo legame, e del costume indossato da Donna Beneviento, emerge in filigrana un parallelismo con l’usanza, nata a fine ‘800, di fotografare i bambini in braccio a madri vestite di nero e con il volto completamente velato.

A sinistra: immagine estrapolata dalla serie fotografica The Hidden Mother (2006-2013), di Linda Fregni Nagler. L’artista ha raccolto 997 tra dagherrotipi, tintype, stampe all’albumina, istantanee e altro, documentando la diffusione del fenomeno della madre velata e della condizione femminile tra ‘800 e ‘900. A destra: Donna Beneviento e Angie.
A sinistra: immagine estrapolata dalla serie fotografica The Hidden Mother (2006-2013), di Linda Fregni Nagler. L’artista ha raccolto 997 tra dagherrotipi, tintype, stampe all’albumina, istantanee e altro, documentando la diffusione del fenomeno della madre velata e della condizione femminile tra ‘800 e ‘900. A destra: Donna Beneviento e Angie.

In tal modo i figli spiccano visivamente, diventando protagonisti del ritratto. Le madri sono un puro fondale fotografico e la loro identità viene completamente oscurata, rimarcando il ruolo silente che la società desiderava incarnassero. Al nostro occhio contemporaneo tali immagini suscitano immediato rimando al burqa, che cela completamente il corpo e il volto della donna che lo indossa. Donna Beneviento è “madre” di Angie, ma a parte questo la sua caratterizzazione relazionale nel videogioco è soprattutto quella di figlia. Sia nei confronti dei suoi genitori biologici, da cui eredita la casa di famiglia e Angie, sia nei confronti di Madre Miranda, che la adotta per portare avanti su di lei gli esperimenti con il Cadou.

La prima occasione in cui è possibile incontrare Donna e Angie, nel videogioco, mostra proprio le due in una posa simile a quella delle madri velate (o hidden mothers) nelle fotografie. Angie, dopo aver assistito al risveglio di Ethan (che si trova in catene al cospetto di Madre Miranda e dei lord), corre in braccio a Donna, seduta in disparte e a malapena visibile contro il fondale buio della stanza.

Angie in braccio a Donna durante la riunione dei lord con Madre Miranda.
Angie in braccio a Donna durante la riunione dei lord con Madre Miranda.

Inoltre, Donna è doppiamente oscurata, non solo in quanto “madre velata”, ma anche in quanto “burattinaia”, che non deve apparire sulla “scena”. Questo emerge con chiarezza soprattutto in un contenuto esterno a Resident Evil Village: la triade pubblicitaria Play in Bio Village, uno show di marionette che vede i quattro lord del videogioco come protagonisti. Tuttavia, al fianco di Alcina Dimitrescu, Salvatore Moreau e Karl Heisenberg è presente Angie al posto di Donna Beneviento, nonostante la sua qualifica di lord. Donna è visibile solo per un momento, nel terzo corto, intenta a muovere i burattini da dietro il fondale. Sebbene si tratti di un prodotto esterno alla storia di Resident Evil Village, questo contenuto è comunque indicativo del ruolo nascosto, “dietro le quinte”, che Donna assume.

Tornando ad Angie, si possono fare alcune considerazioni sull’oggetto bambola, a proposito di lei. La bambola è un alter ego rassicurante o minaccioso a seconda dei contesti. Le bambine e i bambini vi giocano creando personaggi immaginari che possono fare attività sognate o proibite, oppure possono diventare figure affettive, sostitutive di persone reali (Giordano 2012). Ma nelle mani di uno stregone tale oggetto può diventare potenzialmente pericoloso, ad esempio nel rituale voodoo in cui si desidera danneggiare la persona simboleggiata dalla bambola magica (Métraux 1959). Difficilmente quindi la bambola è “solo” un giocattolo, in quanto è un oggetto che si fa portatore di molteplici implicazioni, talvolta stratificate.

Nel caso di Angie, lei è la bambola che è stata ricevuta dal padre defunto, per cui rappresenta un legame con il passato, un ideale ponte verso l’infanzia perduta di Donna. Inoltre, si tratta di una bambola sposa, proiezione di una potenziale condizione futura di moglie.

Angie è la bambola più significativa di Donna Beneviento, ma non l’unica, in quanto la sua casa è colma di bambolotti di varie fattezze e dimensioni, che appaiono particolarmente minacciosi durante l’allucinato scontro tra Ethan ed Angie. Come è stato sottolineato (Pinder 2021), Donna sta giocando con Ethan, in un certo senso, durante tutta la permanenza dell’uomo all’interno della sua villa. In quest’ottica, l’abbondante presenza delle bambole va a recuperare anche quello che è il più immediato e attualmente diffuso significato dell’oggetto: l’essere un giocattolo per l’infanzia. E Donna, stando agli appunti di Madre Miranda, non è una persona mentalmente stabile: è un’adulta con comportamenti talvolta infantili, i cui problemi psichici sono stati acuiti dal Cadou.

Manichini-puzzle e Veneri anatomiche

Merita una riflessione anche il manichino ligneo, raffigurante la moglie di Ethan, presente nel sotterraneo di casa Beneviento. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un oggetto che, come le bambole, potrebbe essere un’ulteriore proiezione esterna, causata dalle allucinazioni, di conflitti e timori interiori.

La particolare conformazione di tale manichino, che presenta arti estraibili che racchiudono anche oggetti utili per il proseguimento dell’avventura, può ricordare la tradizione delle Veneri anatomiche. Si tratta di statue scomponibili che venivano utilizzate per mostrare l’anatomia degli organi interni, in uso a partire dalla fine del ‘700. Erano artefatti estremamente realistici, con tanto di ciglia e capelli veri, solitamente realizzate in cera, materiale che aumenta ulteriormente il senso di verosimiglianza con la pelle umana. Nella maggior parte delle Veneri, oltre agli organi estraibili, era presente anche un feto, nonostante dall’esterno non fossero visibili segni di gravidanza (Ebenstein 2017).

Sopra: Ethan ispeziona il manichino scomponibile. Sotto: Venere dei Medici o venere smontabile, officina di Clemente Susini, Specola di Firenze, 1780/82, cera, grandezza naturale.
Sopra: Ethan ispeziona il manichino scomponibile. Sotto: Venere dei Medici o venere smontabile, officina di Clemente Susini, Specola di Firenze, 1780/82, cera, grandezza naturale.

Il manichino di Resident Evil Village non è inserito con la volontà di mostrare l’anatomia femminile. Sul versante ludico, è uno strumento funzionale alla risoluzione di uno dei puzzle presenti nella villa. Sul versante narrativo, invece, rafforza il senso di colpa di Ethan nei confronti della sua famiglia. L’interazione col manichino, che raffigura sua moglie Mia, precede la comparsa del mostruoso feto gigante che insegue il protagonista nei sotterranei della casa. Ritorna, pertanto, il rapporto tra la statua femminea e il feto, seppur in modo differente rispetto alle Veneri anatomiche.

Bibliografia

Ebenstein (2017): J. Ebenstein La venere anatomica, Interlogos, Modena 2017.

Giordano (2012): M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia books, Milano 2012.

Métraux (1959): A. Métraux, Le vaudou haïtien, Gallimard 1959.

Pinder (2021): M. Pinder, Mouldy Matriarchs and Dangerous Daughters. An Ecofeminist Look at Resident Evil Antagonists, «M/C Journal», 24(5), 2021.

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