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Donna Beneviento: madri velate e Veneri anatomiche

L’articolo sottolinea certe similitudini tra gli eventi di villa Beneviento in Resident Evil Village e alcune tradizioni fotografiche e manifatturiere del passato.

Ho scritto questo contributo insieme all’artista visuale e tessile Anna Bassi.

L’anno scorso ho pubblicato, su Everyeye, un altro articolo divulgativo dedicato a Donna, Angie e al feto mostruoso. Chi volesse recuperarlo lo trova qui.

La bambola sposa e la madre velata

Donna Beneviento è uno dei quattro lord di Resident Evil Village, il secondo che viene affrontato da Ethan nel corso del suo viaggio. Donna non ha subito radicali mutazioni fisiche con il Cadou ricevuto da Madre Miranda: l’unico cambiamento visibile nel suo corpo riguarda la cicatrice sul volto, che è diventata un carnoso ammasso informe. In ogni caso, Donna non rivela mai il suo viso, che è sempre celato da un velo nero. Allo stesso tempo, lei non parla mai (solo in un momento del gioco è udibile la sua voce), si esprime invece attraverso Angie, la sua bambola.

Angie è una bambola vestita da sposa, con il volto che ricorda l’emblema del casato Beneviento (un sole e una luna); è un dono che il padre di Donna – defunto – realizzò per la sua bambina. Come intuibile attraverso una nota leggibile nella casa del giardiniere della famiglia, Donna ricorreva ad Angie per parlare già prima di ottenere il Cadou da Madre Miranda, con relativi poteri. In quel caso si trattava però di semplice ventriloquia; in seguito, invece, Donna divide il Cadou tra le sue bambole, per poterle controllare a distanza, ed Angie sviluppa l’effettiva abilità di muoversi e di parlare. Anche in questo caso, però, Angie è comunque la portavoce della sua proprietaria, di cui fa le veci.

Osservandole vicine, uno dei primi elementi che risalta all’occhio di chi guarda è il contrasto cromatico tra i vestiti delle due: l’abito bianco, da sposa, di Angie si staglia sulla luttuosa veste nera di Donna.  Angie, che fa da portavoce, ha questa connotazione simbolicamente più felice, di donna che si apre alla vita e al matrimonio, in contrasto con l’apparente vedovanza della proprietaria. In realtà, dato che sono sostanzialmente la stessa persona, è come se queste due simboliche fasi della vita siano tra loro compenetrate. Questa compenetrazione è ulteriormente richiamata dallo stemma di famiglia, che a sua volta è riprodotto sul volto di Angie, simile a un sole e una luna intrecciati tra loro. Tale simbologia celeste va a rimarcare la presenza di un’apparente dualità che rivela una totalità.

Tornando all’apparenza, tuttavia, Donna e Angie appaiono come due entità distinte, visivamente. Le due sono in particolare connotate da un rapporto madre-figlia. Alla luce di questo legame, e del costume indossato da Donna Beneviento, emerge in filigrana un parallelismo con l’usanza, nata a fine ‘800, di fotografare i bambini in braccio a madri vestite di nero e con il volto completamente velato.

A sinistra: immagine estrapolata dalla serie fotografica The Hidden Mother (2006-2013), di Linda Fregni Nagler. L’artista ha raccolto 997 tra dagherrotipi, tintype, stampe all’albumina, istantanee e altro, documentando la diffusione del fenomeno della madre velata e della condizione femminile tra ‘800 e ‘900. A destra: Donna Beneviento e Angie.
A sinistra: immagine estrapolata dalla serie fotografica The Hidden Mother (2006-2013), di Linda Fregni Nagler. L’artista ha raccolto 997 tra dagherrotipi, tintype, stampe all’albumina, istantanee e altro, documentando la diffusione del fenomeno della madre velata e della condizione femminile tra ‘800 e ‘900. A destra: Donna Beneviento e Angie.

In tal modo i figli spiccano visivamente, diventando protagonisti del ritratto. Le madri sono un puro fondale fotografico e la loro identità viene completamente oscurata, rimarcando il ruolo silente che la società desiderava incarnassero. Al nostro occhio contemporaneo tali immagini suscitano immediato rimando al burqa, che cela completamente il corpo e il volto della donna che lo indossa. Donna Beneviento è “madre” di Angie, ma a parte questo la sua caratterizzazione relazionale nel videogioco è soprattutto quella di figlia. Sia nei confronti dei suoi genitori biologici, da cui eredita la casa di famiglia e Angie, sia nei confronti di Madre Miranda, che la adotta per portare avanti su di lei gli esperimenti con il Cadou.

La prima occasione in cui è possibile incontrare Donna e Angie, nel videogioco, mostra proprio le due in una posa simile a quella delle madri velate (o hidden mothers) nelle fotografie. Angie, dopo aver assistito al risveglio di Ethan (che si trova in catene al cospetto di Madre Miranda e dei lord), corre in braccio a Donna, seduta in disparte e a malapena visibile contro il fondale buio della stanza.

Angie in braccio a Donna durante la riunione dei lord con Madre Miranda.
Angie in braccio a Donna durante la riunione dei lord con Madre Miranda.

Inoltre, Donna è doppiamente oscurata, non solo in quanto “madre velata”, ma anche in quanto “burattinaia”, che non deve apparire sulla “scena”. Questo emerge con chiarezza soprattutto in un contenuto esterno a Resident Evil Village: la triade pubblicitaria Play in Bio Village, uno show di marionette che vede i quattro lord del videogioco come protagonisti. Tuttavia, al fianco di Alcina Dimitrescu, Salvatore Moreau e Karl Heisenberg è presente Angie al posto di Donna Beneviento, nonostante la sua qualifica di lord. Donna è visibile solo per un momento, nel terzo corto, intenta a muovere i burattini da dietro il fondale. Sebbene si tratti di un prodotto esterno alla storia di Resident Evil Village, questo contenuto è comunque indicativo del ruolo nascosto, “dietro le quinte”, che Donna assume.

Tornando ad Angie, si possono fare alcune considerazioni sull’oggetto bambola, a proposito di lei. La bambola è un alter ego rassicurante o minaccioso a seconda dei contesti. Le bambine e i bambini vi giocano creando personaggi immaginari che possono fare attività sognate o proibite, oppure possono diventare figure affettive, sostitutive di persone reali (Giordano 2012). Ma nelle mani di uno stregone tale oggetto può diventare potenzialmente pericoloso, ad esempio nel rituale voodoo in cui si desidera danneggiare la persona simboleggiata dalla bambola magica (Métraux 1959). Difficilmente quindi la bambola è “solo” un giocattolo, in quanto è un oggetto che si fa portatore di molteplici implicazioni, talvolta stratificate.

Nel caso di Angie, lei è la bambola che è stata ricevuta dal padre defunto, per cui rappresenta un legame con il passato, un ideale ponte verso l’infanzia perduta di Donna. Inoltre, si tratta di una bambola sposa, proiezione di una potenziale condizione futura di moglie.

Angie è la bambola più significativa di Donna Beneviento, ma non l’unica, in quanto la sua casa è colma di bambolotti di varie fattezze e dimensioni, che appaiono particolarmente minacciosi durante l’allucinato scontro tra Ethan ed Angie. Come è stato sottolineato (Pinder 2021), Donna sta giocando con Ethan, in un certo senso, durante tutta la permanenza dell’uomo all’interno della sua villa. In quest’ottica, l’abbondante presenza delle bambole va a recuperare anche quello che è il più immediato e attualmente diffuso significato dell’oggetto: l’essere un giocattolo per l’infanzia. E Donna, stando agli appunti di Madre Miranda, non è una persona mentalmente stabile: è un’adulta con comportamenti talvolta infantili, i cui problemi psichici sono stati acuiti dal Cadou.

Manichini-puzzle e Veneri anatomiche

Merita una riflessione anche il manichino ligneo, raffigurante la moglie di Ethan, presente nel sotterraneo di casa Beneviento. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un oggetto che, come le bambole, potrebbe essere un’ulteriore proiezione esterna, causata dalle allucinazioni, di conflitti e timori interiori.

La particolare conformazione di tale manichino, che presenta arti estraibili che racchiudono anche oggetti utili per il proseguimento dell’avventura, può ricordare la tradizione delle Veneri anatomiche. Si tratta di statue scomponibili che venivano utilizzate per mostrare l’anatomia degli organi interni, in uso a partire dalla fine del ‘700. Erano artefatti estremamente realistici, con tanto di ciglia e capelli veri, solitamente realizzate in cera, materiale che aumenta ulteriormente il senso di verosimiglianza con la pelle umana. Nella maggior parte delle Veneri, oltre agli organi estraibili, era presente anche un feto, nonostante dall’esterno non fossero visibili segni di gravidanza (Ebenstein 2017).

Sopra: Ethan ispeziona il manichino scomponibile. Sotto: Venere dei Medici o venere smontabile, officina di Clemente Susini, Specola di Firenze, 1780/82, cera, grandezza naturale.
Sopra: Ethan ispeziona il manichino scomponibile. Sotto: Venere dei Medici o venere smontabile, officina di Clemente Susini, Specola di Firenze, 1780/82, cera, grandezza naturale.

Il manichino di Resident Evil Village non è inserito con la volontà di mostrare l’anatomia femminile. Sul versante ludico, è uno strumento funzionale alla risoluzione di uno dei puzzle presenti nella villa. Sul versante narrativo, invece, rafforza il senso di colpa di Ethan nei confronti della sua famiglia. L’interazione col manichino, che raffigura sua moglie Mia, precede la comparsa del mostruoso feto gigante che insegue il protagonista nei sotterranei della casa. Ritorna, pertanto, il rapporto tra la statua femminea e il feto, seppur in modo differente rispetto alle Veneri anatomiche.

Bibliografia

Ebenstein (2017): J. Ebenstein La venere anatomica, Interlogos, Modena 2017.

Giordano (2012): M. Giordano, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia books, Milano 2012.

Métraux (1959): A. Métraux, Le vaudou haïtien, Gallimard 1959.

Pinder (2021): M. Pinder, Mouldy Matriarchs and Dangerous Daughters. An Ecofeminist Look at Resident Evil Antagonists, «M/C Journal», 24(5), 2021.

I videogiochi survival horror: la storia – parte 2

Continuiamo a ripercorrere la storia dei videogiochi survival horror. Nella parte 1 ci eravamo occupati di definire i perimetri di questo genere e ne avevamo visto l’origine. Ci eravamo fermati alle soglie dell’uscita del primo Resident Evil, nel 1996. Riprendiamo da lì. Copriremo circa un decennio, in questa parte 2.

La storia dei survival horror dal 1996 al 2006

Arriva Resident Evil

Come visto nella prima parte, Sweet Home e Alone in the Dark presentavano caratteristiche che sarebbero diventate riconoscibili elementi dei survival horror. Tuttavia un’effettiva diffusione di tali elementi giunge solo alcuni anni più tardi, con il primo Resident Evil (intitolato Biohazard in Giappone). Sweet Home, rimasto a lungo confinato nel territorio giapponese, non ha avuto una grande diffusione, ma è stato tra le maggiori fonti di ispirazione per il ben più affermato Resident Evil. Il gioco del 1989 costituisce infatti una delle tre fonti di influenza – la principale – identificabili dietro Resident Evil, a fianco di Alone in the Dark e del film Night of the Living Dead (1968) di George Romero (Reed, 2016: 628).

Come ricorda Francesco Alinovi (2004: 68), Hideki Kamiya e Shinji Mikami hanno dichiarato di essere entrati in contatto con Alone in the Dark solo dopo l’uscita di Resident Evil, ma qualcuno del team aveva provato questo videogioco occidentale. È pertanto possibile che, magari in forma più indiretta, siano stati effettivamente recuperati alcuni elementi anche da Alone in the Dark, considerando la somiglianza.

È una fonte dichiarata, in quanto lo stesso Shinji Mikami, il “padre” di Resident Evil, ricorda (in Butterworth, 2016) che il suo capo Tokuro Fujiwara gli disse di recuperare le meccaniche di Sweet Home per la realizzazione di un nuovo gioco horror. Mikami avrebbe poi indicato a sua volta agli altri membri del team di giocare a Sweet Home per prepararsi allo sviluppo del loro nuovo videogioco (Perron, 2006: 34).

Da Sweet Home vengono recuperati diversi elementi, fra cui l’ingresso di un gruppo in una magione isolata e il feeling dato dalla lenta sequenza di apertura delle porte (Alinovi, 2004: 29), utilizzate in Resident Evil per narrativizzare i tempi morti dei caricamenti. Il legame con Alone in the Dark riguarda invece – oltre ad alcuni elementi generali dei survival horror come (nuovamente) la vecchia magione da esplorare e i documenti da consultare – un utilizzo delle inquadrature fisse volto ad accrescere la tensione.

Al pari della sequenza di apertura delle porte, pure l’uso di inquadrature fisse era legato anche a limitazioni tecniche. Simili inquadrature consentivano infatti di utilizzare fondali pre–renderizzati. Questi potevano avere una resa visiva molto superiore rispetto ai videogiochi dello stesso periodo con un ambiente 3D gestito in tempo reale (Rouse, 2009: 23).  Il film di George Romero ha offerto, infine, l’ispirazione per gli zombie, i nemici più diffusi presenti in Resident Evil.

A fianco del recupero di elementi passati, i creatori di Resident Evil hanno introdotto diversi nuovi elementi, che in alcuni casi hanno contribuito a dare un forte sviluppo in una determinata direzione al genere. Charley Reed (2016: 629) ne inventaria alcuni, sebbene diverse componenti del suo elenco siano in realtà riscontrabili anche nei videogiochi horror precedenti (come la presenza di puzzle da risolvere).

Un inserimento che, pur non avendo avuto particolare seguito, è divenuto un elemento iconico della serie riguarda la gestione dei salvataggi. Questi ultimi sono limitati non solo spazialmente (è possibile salvare solamente raggiungendo delle macchine da scrivere collocate in determinati punti della villa) ma anche numericamente. Per salvare occorre infatti avere nel proprio inventario dei nastri di inchiostro. Questi oggetti, presenti in numero finito all’interno del gioco, occupano inoltre uno spazio nel già ridotto inventario del protagonista.

L’utilizzo della macchina da scrivere si rivela invece rappresentativo del genere sotto un altro punto di vista, in quanto costituisce uno dei numerosi casi di rimediazione (Bolter, Grusin, 1999) di precedenti tecnologie nei videogiochi horror. Le riflessioni che includono questa rimediazione (come McCrea, 2009 e Reed, 2016) prendono soprattutto avvio da un articolo di Ewan Kirkland (2009b) – la cui riflessione procede anche in Kirkland (2010) – che fin dal titolo cita la macchina da scrivere di Resident Evil. A proposito dei media analogici che compaiono nel videogioco, Reed parla di una «corruption of media» (2016: 631) che rappresenterebbe una delle principali componenti retoriche in esso incluse.

Questi media tematizzano in vario modo la morte, la corruzione e la fine, collegandosi peraltro in alcuni casi (come i dipinti a olio e i diari) alla tradizione gotica. Diari, appunti e pagine dei quotidiani richiamano la tradizione della letteratura gotica, in cui la narrazione ricorre spesso a questi materiali per presentare scoperte e punti di svolta, ma la loro presenza in giochi come Resident Evil è anche figlia delle avventure testuali e poi grafiche che costituiscono uno dei predecessori di questo gioco (Alinovi, 2004: 67).  Due esempi di questa corruzione sono la radio che smette di funzionare e il famoso diario della guardia, la cui scrittura degrada progressivamente man mano che l’autore viene contagiato dal Virus T e si trasforma in uno zombie. L’ultima sua nota leggibile riporta «Itchy itchy Scott came ugly face so killed him. Tasty. 4. Itchy. Tasty» (citato in Reed, 2016: 632).

La corruzione dei media è peraltro solo la prima delle quattro forme di “corruzione” che Reed (2016) identifica nel primo Resident Evil; le altre tre sono: corruzione della natura, dell’architettura e dell’autorità. La natura risulta corrotta dal Virus T, l’agente mutageno prodotto dall’Umbrella Corporation. Gli esperimenti di questa associazione hanno prodotto i vari mutanti che compongono i nemici del gioco. I cicli della natura sono stravolti da ipertrofia (ragni e serpenti giganti), ibridazione (gli Hunters, dei grossi rettili antropomorfi), metamorfosi (Plant 42, un’enorme pianta vampirica) e ritorno dalla morte (gli zombie).

La corruzione architettonica è legata invece al senso di decadenza (carta da parati stracciata, mura crollate…), alla presenza delle trappole e al generale senso di uncanny, continuamente rintuzzato dal progressivo cambio stilistico dell’ambiente, il quale impedisce al giocatore di abituarsi a esso (Kirkland, 2009a). infine, la corruzione dell’autorità è riscontrabile nel nascondimento e capovolgimento di coloro che detengono il potere. L’Umbrella Corporation, in apparenza una potente azienda farmaceutica, sta in realtà sviluppando delle armi biologiche tramite il Virus T; Albert Wesker, in apparenza il capo della spedizione che raggiunge la villa, è in realtà al soldo dell’Umbrella.

Dopo Resident Evil

Negli anni successivi all’uscita di Resident Evil il mercato videoludico vede la nascita di numerose serie survival horror, a fianco di molti altri videogiochi appartenenti a generi differenti ma legati a componenti orrorifiche. Proseguono, in primo luogo, serie già avviate come Castlevania e Doom. Il terzo episodio di quest’ultima serie giunge nel 2004, a distanza di dieci anni dal precedente Doom II: Hell on Earth (id Software, 1994), ma in questa finestra temporale sono usciti diversi altri sparatutto in prima persona con elementi horror.

Fra questi si possono ricordare: la trilogia dai toni dark fantasy composta da Heretic (Raven Software, 1994), Hexen (Raven Software, 1995) e Hexen 2 (Raven Software, 1997); i fantascientifici System Shock (Looking Glass Studios, 1994) e System Shock 2 (Looking Glass Studios, Irrational Games, 1999), intrecciati con diversi elementi ruolistici; Quake (1996) della stessa id Software di Doom; Blood (Monolith Productions, 1997) e Blood II: The Chosen (Monolith Productions, 1998), ricchi di citazionismo cinematografico; Shadow Warriors (3D Realms, 1997); Unreal (Epic Games, 1998) e molti altri.

Anche il celebre sparatutto Half–Life (Valve, 1998) integra diversi elementi horror, per quanto questo inserimento sia stato al tempo stesso un successo e un fallimento, a seconda dei momenti di gioco presi in considerazione (Rouse, 2009: 17). All’inizio del gioco l’invasione aliena nei laboratori di Black Mesa assume diverse connotazioni orrorifiche, ma nel finale – quando il protagonista Gordon Freeman raggiunge il mondo di questi alieni – la radicale distanza dal mondo reale del giocatore depotenzia fortemente l’elemento horror. Anche nella prima parte del gioco, comunque, l’horror atmosferico è presente solo in piccola parte, e prevale piuttosto una «Cyberspace-based gorefests» (Krzywinska, 2002: 14).

Casi similari sono riscontrabili in diversi altri generi. Nello stesso anno di Resident Evil è per esempio uscito l’action–RPG Diablo (Blizzard North, 1996), seguito quattro anni dopo da Diablo II (Blizzard North, 2000). In questi videogiochi i personaggi si muovono in un mondo dark fantasy caratterizzato da una forte componente demoniaca, in cui devono sconfiggere le legioni infernali al servizio di Diablo e dei suoi fratelli. Al pari dei frenetici sparatutto sopra elencati, però, anche Diablo rimane molto lontano dalla struttura dei survival horror. In questo popolare videogioco (che ha generato, non diversamente da Doom, una folta schiera di “cloni”: Loguidice, Barton, 2009: 39–50), infatti, uno degli elementi alla base del successo riguarda proprio una sorta di “ripetizione con varianti”, in cui vengono continuamente uccisi centinaia di nemici in ambienti generati proceduralmente, che consentono di creare mondi più vasti alleggerendo i costi di design e le limitazioni tecniche (Cardamone, Loiacono, Lanzi, 2011: 396).

In Diablo II anche i mostri “unici”, dotati di poteri particolari, sono generati casualmente, invece che essere pensati uno per uno come nel predecessore (Schaefer, 2000; Holleman, 2019). La modalità online, ampiamente frequentata e intorno a cui è fiorita una vasta compravendita di oggetti rari (Pellitteri, Salvador, 2014: 102) ha offerto il massimo potenziale per questa ripetizione con varianti, in cui gli utenti affrontavano più e più volte gli stessi scenari a caccia di loot. Per una ragione opposta, anche le avventure grafiche a tema horror uscite in quegli anni – come Prisoner of Ice (Infogrames, 1995) – si differenziano dal genere survival. Laddove negli sparatutto e negli action–RPG si affrontano centinaia di mostri, nelle avventure grafiche non è richiesto tempismo o abilità manuale per superare gli ostacoli.

Oltre al proliferare di videogiochi con componenti orrorifiche, è lo stesso survival horror a diffondersi in questo periodo, con la nascita di molte nuove saghe, trainate anche dal successo di Resident Evil. Al fianco ci sono ovviamente altri prodotti che non hanno avuto seguiti, come Deep Fear (Sega AM7, 1998), un “clone” piuttosto derivativo di Resident Evil e uno dei primi survival horror a presentare una ambientazione oceanica. Sarà seguito, in questa scelta di ambientazione, da altri “cloni” di Resident Evil come Carrier (Jaleco, 2000) e Cold Fear (Darkworks, 2005) e da un episodio della stessa serie di Capcom: Resident Evil: Revelations (Capcom, 2012).

Andando sulle saghe invece, una fra le più importanti è Silent Hill (Konami, 1999), che si discosta dall’orrore “romeriano” di Resident Evil per proporre un terrore più psicologico e sottile, vicino, per restare in ambito cinematografico, alla produzione di Cronenberg e Lynch (Alinovi, 2004: 70) o a L’esorcista (1973) di Friedkin (Perron, 2006: 7). In generale, Akira Yamaoka (autore della colonna sonora di Silent Hill) ha ricordato che l’intento del team era di realizzare un «modern American horror through Japanese eyes» (in Pruett, 2005: 1).

Più che le differenze risultano però di interesse i punti di contatto fra le due saghe, al di fuori delle generiche appartenenze allo stesso genere. In primo luogo sono entrambi dei videogiochi prodotti in Giappone ma ambientati negli Stati Uniti, a differenza di un ampio numero di survival horror molto più legati alla cultura e alle tradizioni giapponesi. Silent Hill è ambientato in una omonima cittadina del Maine, mentre il primo Resident Evil si svolge nel bosco che circonda un’immaginaria città del Midwest chiamata, con un nome piuttosto improbabile, Raccoon City.

Entrambi i videogiochi, inoltre, ricercano un sentimento di tensione continua piuttosto che lo spavento immediato di un jump scare. Questa componente è molto più diffusa in Silent Hill, dove la natura psicologica della paura è molto forte. Risultano di particolare interesse le dichiarazioni sul tema rilasciate in un paio di interviste da Akihiro Imamura, game system programmer di Silent Hill e producer di Silent Hill 2 (Team Silent, 2001): «Voglio suscitare paure ancestrali, come quelle che si celano nei bassifondi dell’istinto umano. Non mi accontento di ricorrere a trucchi da luna park come la sorpresa. Preferisco creare un senso di angoscia, terrorizzare in modo graduale il giocatore» (Perry, 2001, citato in Perron, 2006: 38) e «In SH2, la paura è prodotta da tutto ciò che non siamo in grado di vedere. Il “non visto” ci terrorizza perché quello che sfugge all’occhio diventa concreto nell’immaginazione. E l’immaginario, com’è noto, è il vero motore del terrore» (Beuglet, 2001, citato in Perron, 2006: 38).

Il discorso è comunque valido anche per Resident Evil. In quest’ultimo sono inseriti alcuni spaventi improvvisi – è divenuta particolarmente nota la scena del cane zombie che salta improvvisamente in un corridoio rompendo una finestra – ma vengono sfruttati soprattutto ambiente e inquadrature. Entrare in una stanza, con l’inquadratura fissa sulla porta alle spalle del protagonista, e sentire i versi di uno zombie senza poterlo vedere genera una tensione in crescendo invece che offrire uno spavento improvviso in un momento di (relativa) quiete. In tal senso pare almeno eccessiva la contrapposizione che Bernard Perron (2006: 38–39) sottolinea fra i due videogiochi.

Entrambi i videogiochi sono inoltre riusciti a sfruttare alcune limitazioni tecniche dell’epoca, convertendole in elementi volti ad accrescere paura e inquietudine. Per Resident Evil sono già state citate le sequenze di apertura delle porte, mentre per Silent Hill è possibile ricordare la diffusa nebbia che avvolge l’ambiente, che consente di mostrare meno oggetti in contemporanea. Per Silent Hill, infine, è applicabile lo stesso discorso sulla rimediazione legata a corruzione e uncanny (o, per usare altre parole, «the use of anachronistic technology [to] uncover the past and unravel the horrors of the present» Taylor, 2009: 53) introdotta a proposito di Resident Evil.

Risulta di particolare interesse, su questo punto, l’inizio di un saggio di Christian McCrea (2009) relativo a un altro survival horror (Forbidden Siren, SCE Japan Studio, 2003) ma ideale anche per Silent Hill. McCrea parla del sightjacking, un potere psichico inserito in Forbidden Siren come meccanica esplorativa, che consente di assumere temporaneamente la prospettiva degli shibito (traducibile come “persona morta”), i principali nemici di questo videogioco. La levetta analogica del controller viene qui utilizzata come la manopola di un vecchio televisore per sintonizzarsi con il ‘canale’ di uno shibito (Kirkland, 2009b) e questa operazione racchiuderebbe il senso di hauntology (studio delle tracce spettrali) relativo agli shibito, i quali sono indicati come dei «broadcast horrors» (McCrea, 2009: 227). La rimediazione di esperienze mediali passate utilizzate per captare le voci (o l’aspetto) dei morti.

Broadcasting horror e fantasmi

I survival horror legano con peculiare forza la morte con l’archiviazione memoriale e il broadcasting, perché le voci dei morti non rappresentano semplicemente il passato, ma il presente che quei defunti infestano. Possono essere le ultime parole scritte da un individuo prima di diventare zombie (Resident Evil), la visione ‘televisiva’ degli shibito (Forbidden Siren), la gracchiante radio che annuncia l’approssimarsi di un nemico (Silent Hill) o altro ancora.

L’utilizzo di questa radio si lega peraltro anche al sopra citato prevalere della tensione sullo spavento improvviso: «La radiolina che Harry [il protagonista] trova prima di lasciare il Cafe 5to2 trasmette una specie di interferenza quando ci sono nemici nelle vicinanze. Se questo riduce in parte l’effetto sorpresa, dall’altra accresce la tensione. La paura e l’ansia aumentano in modo direttamente proporzionale all’intensità del rumore emesso dalla radio. Dato che ignoriamo la direzione dalla quale proviene il mostro, dobbiamo tenere alta la guardia fino a quando non ci troveremo faccia a faccia con la sorgente del segnale» (Perron, 2006: 28). Questa situazione descritta da Perron è simile ai versi degli zombie di Resident Evil quando essi non sono visibili, a conferma della maggior vicinanza fra i due videogiochi sotto questo punto di vista.

Tutti casi accomunati da una rimediazione mortuaria, corruzione dei media e della carne. Non a caso McCrea riporta una citazione di Friedrich Kittler, relativa al momento in cui defunti e fantasmi sono usciti dal loro dominio storico, la parola scritta sui libri, per andare a ‘infestare’ altri media: «Once memories and dreams, the dead and ghosts become technically reproducible, readers and writers are no longer in need of the powers of hallucination. Our realm of the dead has withdrawn from books, in which it resided for so long» (Kittler, 1999 [1986]: 34, citato in McCrea, 2009: 222).

E laddove la macchina da scrivere, indicava Kittler, rende meccaniche e materiali le lettere dell’alfabeto, alla “parola dei morti” in Resident Evil viene affidata la funzione di salvataggio, preservazione e memoria dell’attività di gioco, per mezzo di questo oggetto. Similmente, in Silent Hill, il salvataggio avviene tramite penna e bloc–notes, e in altri survival horror ancora a questa funzione sono collegate ulteriori rimediazioni di dispositivi di archiviazione (Kirkland, 2009b: 7).

Altri survival horror giapponesi, che in questi anni costituiscono la componente maggioritaria del genere, presentano anch’essi elementi di rimediazione fantasmatica e memoriale, oltre ai più generali elementi comuni del genere, come la magione infestata (o comunque una presenza architettonica “uncanny”), la limitatezza delle risorse a disposizione, la forma gotica di narrazione tramite lettere e diari, e altri punti sopra citati. Tuttavia questi videogiochi si discostano per diversi altri aspetti da Resident Evil e Silent Hill. La differenza riguarda in primo luogo il retroterra culturale cui questi videogiochi vanno ad attingere.

Videogiochi come Project Zero (Fatal Frame negli Stati Uniti; Tecmo, 2001), il cui titolo originale giapponese è in realtà semplicemente Zero, e rappresenta una sorta di gioco di parole. Il kanji utilizzato per il titolo (零), che significa “zero”, si pronuncia “rei” come il kanji霊 (anima, spirito), presente nel termine giapponese per “fantasma”: yūrei (幽霊). Questo videogioco e Forbidden Siren, innanzi tutto, sono ambientati in Giappone, invece che in fittizie città americane, e presentano protagonisti giapponesi. A parte Siren: Blood Curse (SCE Japan Studio, 2008), remake del primo Forbidden Siren in cui i protagonisti sono quasi tutti occidentali. Compaiono poi con più frequenza i fantasmi, rispetto ad altri mostri, e questi seguono in particolare il canone dei racconti giapponesi sul tema, in larga parte incentrati su giustizia e vendetta (Marak, 2015: 61–62).

Emerge allora, in particolar modo, una specifica tipologia di fantasmi giapponesi (yūrei) che – con poteri ben più forti delle loro controparti occidentali (ibid: 53) – infestano il mondo dei vivi spinti da un profondo rancore (onnen). Questi spiriti, chiamati onryō, sono presenze soprattutto femminili e la loro immagine tipica è divenuta soprattutto quella cinematografica presente in film come Ringu (Hideo Nakata, 1998) e Ju–on (Takashi Shizumi, 2000). Kayako e, soprattutto, Sadako, rispettivamente presenti in Ju–on e Ringu, si collocano in una lunga tradizione di «dead wet girls» con vesti bianche e lunghi capelli neri, che agiscono con fare vendicativo in un’ottica di visione celata (Picard, 2009: 105, ma si rimanda anche ad Arnaud, 2010).

Questa tradizione è ricordata da Martin Picard, come fonte per il survival horror giapponese (ivi), seppur con qualche imprecisione. Picard confonde, per così dire, il genere con la specie, definendo “yūrei” i fantasmi femminili come Sadako e Kayako e identificandoli come una sorta di sottocategoria degli “onryō”, quando è invece il contrario. Yūrei (幽霊) indica genericamente un fantasma, mentre onryō (怨霊) è il fantasma vendicativo (a proposito di onryō e videogiochi si rimanda anche a Toniolo, 2019). Risulta inoltre fuorviante, o perlomeno superflua, la precisazione che Picard aggiunge a proposito della scelta di scrivere “Ring” al posto di “Ringu” per indicare il film del 1998, perché sarebbe il titolo originario e perché il termine “ringu” non esiste in giapponese (Picard, 2009: 105, 13n). Il termine giapponese per “anello” è yubiwa (指輪), ma il romanzo di Kōji Suzuki (1991) da cui è stato poi tratto l’omonimo film utilizza la parola inglese “ring”, che resa tramite katakana si scriveリング, cioè “ringu”, ed è pertanto assolutamente legittimo chiamarlo in questo modo.

Tornando a Project Zero,i fantasmi qui presenti appartengono a varie tipologie, peraltro non tutte ostili, e in alcuni casi il citazionismo o comunque la vicinanza iconica con certe pellicole è piuttosto evidente. Si veda, a titolo d’esempio, la comparazione presente in Picard (2009: 110) fra uno dei fantasmi di Project Zero II: Crimson Butterfly (Tecmo, 2003) e Sadako che emerge da un televisore nel film di Nakata. Al pari di diverse pellicole, inoltre, Project Zero si presenta come un videogioco “tratto da una storia vera”, una strategia volta a stabilire un legame diretto con le diffuse leggende urbane, in questo caso giapponesi (Nitsche, 2009: 202). Gli shibito di Forbidden Siren sono invece creature corporee, ma hanno un aspetto più fantasmatico rispetto ai romeriani zombie di Resident Evil, e anche per movenze e comportamento potrebbero essere accostati a figure come Kayako, per cui anche nel loro caso è comunque possibile tracciare una linea di collegamento.

A proposito di tecnologia e rimediazione è stato già citato il caso di Forbidden Siren, mentre per Project Zero è utile ricordare almeno la camera obscura utilizzata dalle protagoniste come oggetto di esplorazione e strumento di attacco. Si tratta di una fotocamera dal design estremamente datato che consente di interagire con il mondo degli spiriti, e il suo utilizzo è legato all’ambiguità dell’immagine fotografica «as both a document and a manipulation to evoke terror» (Nitsche, 2009: 203).

Si segnala anche, almeno di sfuggita, che iniziano pure a emergere produzioni indipendenti come Corpse–Party (Makoto Kedōin, 1996), realizzato da uno studente usando una delle prime versioni di RPG Maker, che ha ottenuto una certa diffusione nel corso del tempo, compresi dei remake su console e un adattamento manga.

Merita infine, in ambito giapponese, almeno una menzione anche la serie di Clock Tower (Human Entertainment, 1995), definita una «stalker simulation» (Weise, 2009: 242) – etichetta che sarà applicabile a numerosi altri videogiochi degli anni successivi – basata sugli stilemi dei film slasher, scomposti e riorganizzati. Vengono qui tralasciate altre produzioni orientali in quanto i survival horror degli altri paesi, come il coreano Mystic Nights (N–Log Soft, 2005), sono noti più che altro fra i collezionisti per via della loro rarità, e non hanno avuto particolare influenza sull’andamento complessivo del genere.

Ciò che emerge in particolare, da Clock Tower, è una struttura di gioco basata in larga misura sulla parte conclusiva di molti slashers, in cui (per utilizzare i termini di Clover, 1992 che lo stesso Weise, 2009 recupera) la Final Girl vince le proprie paure e fugge dal Killer inseguitore che infesta il Terrible Place in cui è intrappolata. La fuga dagli avversari, che in videogiochi come questi raggiunge un particolare livello di presenza, è un fattore ricorrente nei survival horror, anche quelli in cui è normalmente possibile difendersi, magari perché il protagonista si trova temporaneamente disarmato oppure ha di fronte un avversario immortale (Therrien, 2009: 36–37).

Lovecraft e il survival horror in occidente

La produzione occidentale di survival horror nel periodo considerato ha invece tendenzialmente generato videogiochi isolati che, seppur lodati dal gruppo di appassionati del genere, non hanno avuto lo stesso impatto e risonanza di alcune serie giapponesi coeve. Lovecraft rimane una presenza ricorrente, e i suoi racconti sono talvolta esplicitamente citati – come in Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (Headfirst Production, 2005) – e talvolta accennati come in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem. Lovecraft viene recuperato non solo nei survival horror, ma anche nelle avventure grafiche, considerando che in base a una lista di giochi lovecraftiani del 2010 era emerso che circa la metà di questi titoli erano ascrivibili al genere delle avventure grafiche (Lessard, 2010).

Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth è di particolare interesse perché appare come un prodotto ibrido e rappresenta uno dei casi della nuova direzione che il survival horror ha preso negli anni successivi. Dopo una prima parte puramente investigativa e stealth, infatti, l’approccio al gioco si avvicina molto agli sparatutto in prima persona.

Secondo Tanya Krzywinska questo videogioco «can hardly be described as a first–person shooter» (2009: 279) nonostante la visuale in prima persona, considerando anche il fatto che nella lunga parte iniziale del gioco si è completamente disarmati. Il videogioco, tuttavia, pur non essendo pienamente inseribile in questo genere, non ne è nemmeno totalmente estraneo, in vista delle lunghe sequenze, successive a quel momento iniziale, in cui bisogna affrontare ondate di nemici quasi senza tregua. Questa struttura del videogioco costituisce un ibrido non solo di genere, ma anche di riferimenti, perché va a sovrapporre un approccio molto diretto e muscolare ad alcune delle più famose storie di Lovecraft, come The Shadow Over Innsmouth (1936), i cui protagonisti sono ben lontani dall’essere esperti di armi da fuoco (peraltro tendenzialmente inutili, contro i Grandi Antichi).

Le capacità combattive del protagonista di Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth comportano invece uno squilibrio. Per quanto non siano paragonabili ai rapidissimi stermini dei protagonisti di FPS frenetici come Doom o Serious Sam: The First Encounter, gli scontri a fuoco qui presenti sono comunque molto più dinamici rispetto a quelli degli altri survival horror in cui, complici anche dei controlli farraginosi, bisogna approcciare ogni combattimento con attenzione.

Il citato squilibrio riguarda proprio i rapporti di forza. In un videogioco horror ottimale devono essere presenti diverse debolezze, in numero sufficiente da mettere in pericolo l’avatar del giocatore senza però frustrare quest’ultimo (Rouse, 2009: 23). Se il protagonista è in grado di eliminare con relativa facilità un gran numero di avversari, la sensazione di tensione prodotta dal confrontarsi con una minaccia concreta viene meno. Questo assunto, valido per l’horror nel complesso, dovrebbe risultare ancor più valido in un videogioco legato a Lovecraft, il quale ha incentrato molte sue storie sulla piccolezza e impotenza degli esseri umani dinnanzi alle minacce cosmiche che incombono sul pianeta. Questo sovrapporsi di spinte contrastanti in Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth ha finito per generare un cortocircuito che ha depotenziato il videogioco ed è probabilmente stato uno dei motivi alla base del suo ridotto successo.

Continua nella terza parte.

Bibliografia

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I videogiochi survival horror: la storia – parte 1

Con questo articolo iniziamo la prima parte di un percorso nella storia dei videogiochi survival horror. Man mano troverai numerosi videogiochi citati ma, soprattutto, un’ampia bibliografia di riferimento.

In questa parte 1, oltre a ragionare sulla nascita del genere, vedremo quali sono i suoi confini e i suoi elementi caratteristici. Se lo desideri, puoi andare direttamente alla parte 2, che inizia con l’avvento di Resident Evil.

storia del survival horror parte 1

Che cos’è un survival horror e come definirlo

La dicitura “survival horror” compare per la prima volta in ambito videoludico nel 1996, in relazione a Resident Evil (o Biohazard,Capcom, 1996). Prima di questa data, pertanto, i discorsi sull’individuazione del “primo survival horror” della storia sono basati su attribuzioni retroattive di una definizione. Coloro che hanno avanzato dei ragionamenti in quest’ottica (come Rouse, 2009; Therrien, 2009; Kirland, 2011 e Perron, 2018) hanno proposto di volta in volta differenti inizi possibili per il genere, da Haunted House (Atari, 1981) a Mystery House (On–Line Systems, 1980), risalendo fino all’arcaico Hunt the Wumpus (Gregory Yob, 1972) e a un altro Haunted House (Magnavox, 1972). È di quegli stessi anni anche 3D Monster Maze (Malcolm Evans, 1981), che può essere considerato il capostipite dei survival horror in prima persona (Lemke, 2015) o del genere nel complesso.

A prescindere dalla, in fondo oziosa, ricerca del miglior candidato a esser il capostipite della saga, l’analisi più lucida relativa agli anni ’70 e ’80 è probabilmente quella di Bernard Perron (2018). Egli sottolinea in primo luogo il rischio di una prospettiva teleologica, la quale non può tuttavia essere completamente evitata perché – se l’obiettivo di questi videogiochi consiste nel suscitare paura – almeno in quest’ottica la loro evoluzione è in effetti finalisticamente orientata verso tale fine.

In secondo luogo Perron ricorda la soggettività della paura, che nel contesto di riferimento deve essere considerata in relazione ai fruitori del tempo, molti dei quali erano bambini. L’esempio specifico che sottolinea è quello di Granny’s Garden (4Mation, 1983), un videogioco educativo specificamente pensato per bambini fra i sei e i dieci anni, in cui era presente una strega che, nonostante fosse composta da una manciata di pixel colorati, ha inquietato numerosi giocatori.

Questo fattore anagrafico deve allora essere tenuto in conto nel considerare, a distanza di tempo, questi videogiochi, che apparivano spesso bonariamente ridicoli già dopo pochi anni, ma che al tempo della loro uscita potevano trasmettere un’effettiva sensazione di orrore (e sopravvivenza al medesimo). Oltre all’esempio di Perron si può anche segnalare una testimonianza italiana diretta, presentata dallo youtuber Farenz, il quale ha raccontato della sua traumatica esperienza, all’età di cinque o sei anni, con il violento sparatutto Chiller (Exidy, 1986) in una sala giochi (Farina, 2014: 28–30).

Si ricollega a questo discorso la riflessione sulla componente tecnologica, che nell’horror deve presentare un minimo livello evolutivo – pur tenendo conto del periodo storico e dell’età anagrafica dei fruitori – per risultare efficace (Sical, Delekta, 2003).

Influenze gotiche, oscurità e gameplay

Un argomento contrario all’inserimento di questi videogiochi nel novero dei survival horror riguarda invece le meccaniche di gioco. Per trovare degli elementi più specifici, che non riguardino fattori molto generici (come la fuga da un mostro, riscontrabile in moltissimi adventure e altro), è necessario attendere perlomeno la fine degli anni ’80, con Sweet Home (Capcom, 1989) – tratto dall’omonimo film, Suwīto hōmu (1989), di Kiyoshi Kurosawa – e poi Alone in the Dark (Infogrames, 1992).

Ciò che inizia a delinearsi è al più un certo immaginario, legato in primo luogo all’ambientazione, spesso costituita da una vecchia villa isolata, collegata alla tradizione del gotico, la quale è divenuta una presenza fondante in buona parte del genere (Taylor L., 2009; Niedenthal, 2009; Kirkland, 2011; Krzywinska, 2013, 2015) e non solo (si veda per esempio l’analisi di Langmead, 2017 sul gotico in Bloodborne). In questa fase della storia del genere, però, le suggestioni sono anche di natura differente. Mystery House per esempio è un investigativo sul modello dei romanzi mystery inglesi, spesso a loro volta ambientati in grandi e antiche magioni. Per cui l’esito finale è spesso similare, ma attinge da materiali diversi fra loro.

Questo legame col gotico presenterà poi, in un successivo salto evolutivo, anche diversi collegamenti con il gameplay dei survival horror, ma in questo momento si limita all’immaginario dell’«old dark house» (Krzywinska, 2002: 14) presente in moltissime opere letterarie e cinematografiche riconducibili al gotico. Nei videogiochi tende però ad aumentare l’elemento di disturbo architettonico determinato da questi luoghi, i quali appaiono particolarmente disturbanti perché al tempo stesso troppo simili e troppo diversi rispetto a delle vere case, per esempio per il moltiplicarsi delle stanze, talvolta con funzioni del tutto inutili (Kirkland, 2009).

C’è però una particolare eccezione, su una specifica componente, considerabile a metà fra ambientazione e meccaniche di gioco: l’oscurità.

Videogiochi come Sweet Home e Haunted House presentano momenti di completa oscurità, utilizzata con un effetto di nascondimento volto ad accrescere la paura. Questo fattore si ricollega alla visione celata del gotico (Taylor, 2009: 52), legata non solo alla mancanza di luce, ma a un generale offuscamento e occultamento (Niedenthal, 2009: 171). In italiano emerge con meno efficacia la distinzione fra “obscurity” e “darkness” presente nel testo di Simon Niedenthal, in cui è peraltro riportata, in concomitanza con il discorso, una citazione della scrittrice Ann Radcliffe (1826, citato in Niedenthal, 2009: 171) sul tema.

Il buio, però, offre anche diverse possibilità in termini di meccaniche di gioco, che hanno iniziato a presentarsi a questa altezza cronologica ma hanno avuto poi una lunga prosecuzione nel genere. I principali elementi saranno recuperati più in là, per il momento si possono indicare, in termini generali, i legami del buio con le meccaniche di gioco: l’impiego di oggetti che possano fare luce (candele, torce elettriche…) utilizzabili in un’ottica di gestione delle risorse (e eventualmente dei combattimenti), di esplorazione progressiva o fuga.

A proposito della gestione delle risorse, tipicamente un personaggio può utilizzare in contemporanea solo un determinato numero di oggetti (uno o due, in generale), per cui usare una fonte di luce impedisce di attaccare o difendersi. Anche in un caso come Resident Evil 5 (Capcom, 2009), uno dei capitoli della serie meno legati agli stilemi del gotico e del survival horror, in un livello i due protagonisti devono attraversare una miniera completamente buia, che possono illuminare solo con una grossa lampada portatile. Il personaggio che impugna questo oggetto è impossibilitato a sparare, e deve cooperare con il suo compagno illuminando i nemici, che saranno eliminati dal partner.

In Bloodborne invece, legato al gotico ma non appartenente al genere survival horror, il protagonista può illuminare gli ambienti (mai così bui da impedire la vista, ma talvolta decisamente oscuri) o impugnando una torcia (al posto di una delle due armi che potrebbe normalmente portare) o indossando una sorta di lanterna in miniatura che non occupa uno degli slot dedicati alle armi ma riduce la velocità di ripristino dell’energia. In Don’t Starve (Klei Entertainment, 2013), survival a tema horror, di notte occorre utilizzare una fonte di luce per non essere aggrediti nella completa oscurità. Le soluzioni iniziali consistono nell’impugnare una torcia (senza possibilità di attaccare) o accendere un fuoco da campo (senza possibilità di allontanarsi da lì). In questi e molti altri esempi possibili è pertanto presente un compromesso legato alla visione, in cui il dissipamento delle tenebre si accompagna a un malus di qualche genere.

A proposito dell’esplorazione progressiva, nei videogiochi è necessario delimitare, in vario modo, i movimenti del giocatore, sia per decretare i confini dello spazio di gioco (Fassone, 2017), sia per scandire una progressione interna, evitando che vengano raggiunte prima del dovuto determinate aree. Oscurità e nebbia, oltre a essere legate alle limitazioni tecniche (la loro presenza riduce il numero di oggetti che devono essere visualizzati contemporaneamente: Perron, 2006: 37; Rouse, 2009:19), possono contribuire a indirizzare verso uno specifico percorso. Questa componente non è esclusiva dei survival horror, per quanto in questo genere sia più facile giustificare nebbia e oscurità.

In un gioco come Metroid Prime (Retro Studios, 2002) è possibile esplorare agevolmente le aree oscure solo dopo aver recuperato il visore termico. In Dark Souls è invece utile recuperare una fonte di luce (ce ne sono tre possibili: un elmo, uno scudo e un incantesimo) prima di esplorare la Tomba dei giganti, un luogo completamente oscuro. A differenza di altre forme di limitazione (come una porta chiusa a chiave), il blocco determinato dall’oscurità può rivelarsi meno stringente. Riprendendo il caso di Dark Souls, per esempio, un giocatore che già conosce molto bene il gioco può percorrere, seppur con difficoltà, la Tomba dei giganti anche senza usare fonti di illuminazione.

In altri contesti, invece, può apparire un messaggio che richiede di raccogliere una torcia prima di proseguire o qualcosa di analogo. Nella stessa serie dei “Souls” sono presenti dei muri di nebbia che separano dagli scontri coi boss (Langmead, 2017: 57), ma mentre alcuni di loro possono essere attraversati in qualsiasi momento, altri richiedono di aver compiuto prima determinate azioni. L’esplorazione può anche essere intesa come osservazione più approfondita dell’ambiente di gioco per recuperare materiale utile, che spesso consiste in prolungamenti per la durata della fonte di illuminazione (Krzywinska, 2013: 216). Il più delle volte si tratta di pile per la torcia, ma possono esserci anche oggetti differenti, come i fiammiferi di White Night (OSome Studio, 2015).

Infine, a proposito della fuga, nei survival horror essa è un elemento ricorrente e centrale (Therrien, 2009: 36–37). In alcuni casi rappresenta una scelta possibile, come nei primi Resident Evil, dove è consigliabile aggirare i nemici più lenti (gli zombie) invece che affrontarli, per risparmiare munizioni. In altri casi è invece l’unica opzione, come in Haunting Ground (Capcom, 2005), la cui protagonista non può eliminare i suoi inseguitori, li può solo distrarre o rallentare mentre cerca di seminarli o di nascondersi. Se il personaggio impugna una torcia è possibile che debba spegnerla per essere identificato con più difficoltà dal nemico.

Lovecraft e l’orrore cosmico

Restando in ambito tematico, un altro elemento che emerge con Alone in the Dark e sarà poi ripreso da un gran numero di survival horror (e altri videogiochi) successivi è il tema lovecraftiano.

È preferibile, almeno in un discorso sui survival horror, separare H.P. Lovecraft e il gotico, nonostante l’autore possa rientrare nel genere. È quanto fa per esempio David Punter, il quale lo colloca nel «tardo gotico americano» (2006: 240). Questo inserimento risulta tuttavia poco illuminante per un discorso relativo agli abbondanti recuperi lovecraftiani nei videogiochi (ma anche nei fumetti e in altri campi). Le storie più gotiche di Lovecraft, in primo luogo, sono tendenzialmente quelle meno riutilizzate, anche nel caso di racconti particolarmente famosi come The Rats in the Walls (1924).

Sono invece le sue storie sull’orrore cosmico e i Grandi Antichi ad aver maggiormente innervato la cultura popolare, talvolta anche con vistose e radicali modifiche rispetto all’originale (come le molteplici versioni kawaii di Cthulhu: Mizsei Ward, 2013; Di Fratta, 2018). In larga parte queste modifiche sono legate a peluche, fumetti, fanart e gadget di vario genere, ma anche nei videogiochi si registrano alcuni capovolgimenti, come nel caso di Cthulhu Saves the World (Zeboyd Games, 2011), in cui la malvagia divinità lovecraftiana deve vestire i panni dell’eroe per salvare il mondo, accompagnato da alcuni personaggi vicini alla tradizionale cuteness di determinati manga e anime. Un altro capovolgimento, di segno opposto, può esser rintracciato nel panorama erotico e pornografico, come sottolinea Carbone (2013).

Le sue storie oniriche arrivano dopo, in termini di recuperi e, da ultimi, i racconti più vicini alla tradizione gotica, come si è detto poco fa. Anche osservando singoli elementi, inoltre, sono rintracciabili temi gotici relativi agli oggetti (come i dipinti) e alle ambientazioni (Weinstock, 2016), ma non sono presenze così frequenti. A proposito delle ambientazioni, per esempio, Lovecraft ricorre solo a volte ai castelli e alle abbazie del gotico (Evans, 2005: 117).

Un giudizio come quello di Punter, che vede in Lovecraft «un calo di originalità, una sorta di indurimento delle arterie stilistiche e tematiche» (2006: 278) può essere allora condivisibile in riferimento ai perimetri della tradizione gotica, ma va sostanzialmente a escludere la parte probabilmente più significativa e feconda della produzione di questo scrittore. Una parte che risulta comunque correlata al gotico, il quale rimane una delle “anime” di Lovecraft, come ha sottolineato fra gli altri lo scrittore China Miéville (2009), ma al cui fianco si intrecciano anche altri filoni, come quello weird e, in parte, fantascientifico.

Fra gli elementi lovecraftiani più duraturi e produttivi all’interno del genere si possono ricordare almeno gli pseudobiblia, i Grandi Antichi e la follia. Il primo punto è associato soprattutto al famoso Necronomicon, più volte citato in numerosi videogiochi e talvolta presente come oggetto consultabile. Il secondo punto riguarda l’inserimento di forze incomprensibili e ostili che costituiscono una minaccia cosmica, quasi divina. Anche le inquadrature possono sottolineare questa distanza nei rapporti di forza fra le potenze cosmiche e i protagonisti umani. Nel suo saggio su Silent Hill (Konami, 1999) Bernard Perron parla, a proposito sia di Alone in the Dark sia di Silent Hill di «uso espressionistico delle inquadrature dall’alto» (2006: 31) con un punto di vista che «è quello di una divinità, una divinità spregevole» (41).

Possono essere gli stessi Grandi Antichi inventati da Lovecraft (come Cthulhu, Azathoth e Nyarlathotep) oppure creature analoghe ideate per l’occasione, come avviene in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem (Silicon Knights, 2002) e Bloodborne. La pazzia, infine, che per molti personaggi di Lovecraft rappresenta l’unica possibile ‘fuga’ dalle loro orrorifiche scoperte, diviene in questi videogiochi un indicatore o una meccanica di qualche genere, collegandosi dunque anche a un fattore di game design e giocabilità. Sempre in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem le allucinazioni di un personaggio mentalmente instabile possono divenire persino extra–diegetiche, come nel caso di una (finta) cancellazione dei salvataggi di gioco (Wilson D., Sicart, 2010: 43).

Oltre a queste componenti più vicine alle opere di H.P. Lovecraft, Sweet Home e Alone in the Dark introducono diversi altri elementi che diverranno più o meno ricorrenti all’interno del genere. Fra i principali si ricordano la necessità di gestire un inventario limitato (i cui oggetti possono eventualmente essere combinati fra loro), la scoperta di libri e annotazioni contenenti indizi sul proseguimento dell’avventura e sulla storia, la presenza di numerosi enigmi, l’ambiente labirintico e (in Sweet Home) la gestione di più protagonisti differenti.

Parlando del labirinto, questo particolare elemento non è che sia così specifico in realtà. Come nota Bittanti (2006b: 133), l’immagine del labirinto non è caratteristica soltanto dei survival horror (come indicato da Alinovi, 2004), ma è legata all’horror in quanto tale da un lato e dall’altro a una serie di videogiochi che non sono horror.

Queste e altre caratteristiche aiutano a definire la peculiarità del genere survival horror, differenziandolo – per quanto i confini siano sempre rinegoziabili – da altri videogiochi che presentano ambientazione o temi legati all’horror ma sono riconducibili a generi differenti. Castlevania, per esempio, che ha visto la luce nel 1986 con Akumajō Dracula (in occidente Castlevania, Konami), è una serie di videogiochi di avventura e piattaforme legata all’immaginario del conte Dracula. Più precisamente è definibile come un metroidvania, un portmanteau coniato dai fan unendo i nomi delle serie Metroid e Castlevania.

Nonostante questa origine dal basso, il termine è stato poi utilizzato anche dallo stesso Koji Igarashi, produttore della serie Castlevania, il quale ne ha apprezzato la coniazione (Parish, 2014). I metroidvania sono solitamente caratterizzati da un ambiente bidimensionale con stanze e piattaforme, in cui diverse aree non sono liberamente accessibili, ma possono essere raggiunte man mano che il protagonista ottiene nuove abilità. Il backtracking è molto frequente, perché il giocatore è spinto a tornare più volte sui suoi passi, in modo da sbloccare man mano luoghi e potenziamenti prima inaccessibili.

Doom, allo stesso modo, è uno sparatutto in prima persona in cui un’orda di mostruosi demoni invade una base spaziale. Sono videogiochi horror in cui il protagonista deve “sopravvivere” a una minaccia, ma i rapporti di forza e le modalità sono molto differenti. Sia Doom che Castlevania sono, ciascuno a modo loro, più veloci e frenetici rispetto a un survival horror, e si basano sull’eliminazione di un gran numero di avversari in rapida successione.

Continua nella seconda parte.

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