Con questo articolo iniziamo la prima parte di un percorso nella storia dei videogiochi survival horror. Man mano troverai numerosi videogiochi citati ma, soprattutto, un’ampia bibliografia di riferimento.
In questa parte 1, oltre a ragionare sulla nascita del genere, vedremo quali sono i suoi confini e i suoi elementi caratteristici. Se lo desideri, puoi andare direttamente alla parte 2, che inizia con l’avvento di Resident Evil.
Che cos’è un survival horror e come definirlo
La dicitura “survival horror” compare per la prima volta in ambito videoludico nel 1996, in relazione a Resident Evil (o Biohazard,Capcom, 1996). Prima di questa data, pertanto, i discorsi sull’individuazione del “primo survival horror” della storia sono basati su attribuzioni retroattive di una definizione. Coloro che hanno avanzato dei ragionamenti in quest’ottica (come Rouse, 2009; Therrien, 2009; Kirland, 2011 e Perron, 2018) hanno proposto di volta in volta differenti inizi possibili per il genere, da Haunted House (Atari, 1981) a Mystery House (On–Line Systems, 1980), risalendo fino all’arcaico Hunt the Wumpus (Gregory Yob, 1972) e a un altro Haunted House (Magnavox, 1972). È di quegli stessi anni anche 3D Monster Maze (Malcolm Evans, 1981), che può essere considerato il capostipite dei survival horror in prima persona (Lemke, 2015) o del genere nel complesso.
A prescindere dalla, in fondo oziosa, ricerca del miglior candidato a esser il capostipite della saga, l’analisi più lucida relativa agli anni ’70 e ’80 è probabilmente quella di Bernard Perron (2018). Egli sottolinea in primo luogo il rischio di una prospettiva teleologica, la quale non può tuttavia essere completamente evitata perché – se l’obiettivo di questi videogiochi consiste nel suscitare paura – almeno in quest’ottica la loro evoluzione è in effetti finalisticamente orientata verso tale fine.
In secondo luogo Perron ricorda la soggettività della paura, che nel contesto di riferimento deve essere considerata in relazione ai fruitori del tempo, molti dei quali erano bambini. L’esempio specifico che sottolinea è quello di Granny’s Garden (4Mation, 1983), un videogioco educativo specificamente pensato per bambini fra i sei e i dieci anni, in cui era presente una strega che, nonostante fosse composta da una manciata di pixel colorati, ha inquietato numerosi giocatori.
Questo fattore anagrafico deve allora essere tenuto in conto nel considerare, a distanza di tempo, questi videogiochi, che apparivano spesso bonariamente ridicoli già dopo pochi anni, ma che al tempo della loro uscita potevano trasmettere un’effettiva sensazione di orrore (e sopravvivenza al medesimo). Oltre all’esempio di Perron si può anche segnalare una testimonianza italiana diretta, presentata dallo youtuber Farenz, il quale ha raccontato della sua traumatica esperienza, all’età di cinque o sei anni, con il violento sparatutto Chiller (Exidy, 1986) in una sala giochi (Farina, 2014: 28–30).
Si ricollega a questo discorso la riflessione sulla componente tecnologica, che nell’horror deve presentare un minimo livello evolutivo – pur tenendo conto del periodo storico e dell’età anagrafica dei fruitori – per risultare efficace (Sical, Delekta, 2003).
Influenze gotiche, oscurità e gameplay
Un argomento contrario all’inserimento di questi videogiochi nel novero dei survival horror riguarda invece le meccaniche di gioco. Per trovare degli elementi più specifici, che non riguardino fattori molto generici (come la fuga da un mostro, riscontrabile in moltissimi adventure e altro), è necessario attendere perlomeno la fine degli anni ’80, con Sweet Home (Capcom, 1989) – tratto dall’omonimo film, Suwīto hōmu (1989), di Kiyoshi Kurosawa – e poi Alone in the Dark (Infogrames, 1992).
Ciò che inizia a delinearsi è al più un certo immaginario, legato in primo luogo all’ambientazione, spesso costituita da una vecchia villa isolata, collegata alla tradizione del gotico, la quale è divenuta una presenza fondante in buona parte del genere (Taylor L., 2009; Niedenthal, 2009; Kirkland, 2011; Krzywinska, 2013, 2015) e non solo (si veda per esempio l’analisi di Langmead, 2017 sul gotico in Bloodborne). In questa fase della storia del genere, però, le suggestioni sono anche di natura differente. Mystery House per esempio è un investigativo sul modello dei romanzi mystery inglesi, spesso a loro volta ambientati in grandi e antiche magioni. Per cui l’esito finale è spesso similare, ma attinge da materiali diversi fra loro.
Questo legame col gotico presenterà poi, in un successivo salto evolutivo, anche diversi collegamenti con il gameplay dei survival horror, ma in questo momento si limita all’immaginario dell’«old dark house» (Krzywinska, 2002: 14) presente in moltissime opere letterarie e cinematografiche riconducibili al gotico. Nei videogiochi tende però ad aumentare l’elemento di disturbo architettonico determinato da questi luoghi, i quali appaiono particolarmente disturbanti perché al tempo stesso troppo simili e troppo diversi rispetto a delle vere case, per esempio per il moltiplicarsi delle stanze, talvolta con funzioni del tutto inutili (Kirkland, 2009).
C’è però una particolare eccezione, su una specifica componente, considerabile a metà fra ambientazione e meccaniche di gioco: l’oscurità.
Videogiochi come Sweet Home e Haunted House presentano momenti di completa oscurità, utilizzata con un effetto di nascondimento volto ad accrescere la paura. Questo fattore si ricollega alla visione celata del gotico (Taylor, 2009: 52), legata non solo alla mancanza di luce, ma a un generale offuscamento e occultamento (Niedenthal, 2009: 171). In italiano emerge con meno efficacia la distinzione fra “obscurity” e “darkness” presente nel testo di Simon Niedenthal, in cui è peraltro riportata, in concomitanza con il discorso, una citazione della scrittrice Ann Radcliffe (1826, citato in Niedenthal, 2009: 171) sul tema.
Il buio, però, offre anche diverse possibilità in termini di meccaniche di gioco, che hanno iniziato a presentarsi a questa altezza cronologica ma hanno avuto poi una lunga prosecuzione nel genere. I principali elementi saranno recuperati più in là, per il momento si possono indicare, in termini generali, i legami del buio con le meccaniche di gioco: l’impiego di oggetti che possano fare luce (candele, torce elettriche…) utilizzabili in un’ottica di gestione delle risorse (e eventualmente dei combattimenti), di esplorazione progressiva o fuga.
A proposito della gestione delle risorse, tipicamente un personaggio può utilizzare in contemporanea solo un determinato numero di oggetti (uno o due, in generale), per cui usare una fonte di luce impedisce di attaccare o difendersi. Anche in un caso come Resident Evil 5 (Capcom, 2009), uno dei capitoli della serie meno legati agli stilemi del gotico e del survival horror, in un livello i due protagonisti devono attraversare una miniera completamente buia, che possono illuminare solo con una grossa lampada portatile. Il personaggio che impugna questo oggetto è impossibilitato a sparare, e deve cooperare con il suo compagno illuminando i nemici, che saranno eliminati dal partner.
In Bloodborne invece, legato al gotico ma non appartenente al genere survival horror, il protagonista può illuminare gli ambienti (mai così bui da impedire la vista, ma talvolta decisamente oscuri) o impugnando una torcia (al posto di una delle due armi che potrebbe normalmente portare) o indossando una sorta di lanterna in miniatura che non occupa uno degli slot dedicati alle armi ma riduce la velocità di ripristino dell’energia. In Don’t Starve (Klei Entertainment, 2013), survival a tema horror, di notte occorre utilizzare una fonte di luce per non essere aggrediti nella completa oscurità. Le soluzioni iniziali consistono nell’impugnare una torcia (senza possibilità di attaccare) o accendere un fuoco da campo (senza possibilità di allontanarsi da lì). In questi e molti altri esempi possibili è pertanto presente un compromesso legato alla visione, in cui il dissipamento delle tenebre si accompagna a un malus di qualche genere.
A proposito dell’esplorazione progressiva, nei videogiochi è necessario delimitare, in vario modo, i movimenti del giocatore, sia per decretare i confini dello spazio di gioco (Fassone, 2017), sia per scandire una progressione interna, evitando che vengano raggiunte prima del dovuto determinate aree. Oscurità e nebbia, oltre a essere legate alle limitazioni tecniche (la loro presenza riduce il numero di oggetti che devono essere visualizzati contemporaneamente: Perron, 2006: 37; Rouse, 2009:19), possono contribuire a indirizzare verso uno specifico percorso. Questa componente non è esclusiva dei survival horror, per quanto in questo genere sia più facile giustificare nebbia e oscurità.
In un gioco come Metroid Prime (Retro Studios, 2002) è possibile esplorare agevolmente le aree oscure solo dopo aver recuperato il visore termico. In Dark Souls è invece utile recuperare una fonte di luce (ce ne sono tre possibili: un elmo, uno scudo e un incantesimo) prima di esplorare la Tomba dei giganti, un luogo completamente oscuro. A differenza di altre forme di limitazione (come una porta chiusa a chiave), il blocco determinato dall’oscurità può rivelarsi meno stringente. Riprendendo il caso di Dark Souls, per esempio, un giocatore che già conosce molto bene il gioco può percorrere, seppur con difficoltà, la Tomba dei giganti anche senza usare fonti di illuminazione.
In altri contesti, invece, può apparire un messaggio che richiede di raccogliere una torcia prima di proseguire o qualcosa di analogo. Nella stessa serie dei “Souls” sono presenti dei muri di nebbia che separano dagli scontri coi boss (Langmead, 2017: 57), ma mentre alcuni di loro possono essere attraversati in qualsiasi momento, altri richiedono di aver compiuto prima determinate azioni. L’esplorazione può anche essere intesa come osservazione più approfondita dell’ambiente di gioco per recuperare materiale utile, che spesso consiste in prolungamenti per la durata della fonte di illuminazione (Krzywinska, 2013: 216). Il più delle volte si tratta di pile per la torcia, ma possono esserci anche oggetti differenti, come i fiammiferi di White Night (OSome Studio, 2015).
Infine, a proposito della fuga, nei survival horror essa è un elemento ricorrente e centrale (Therrien, 2009: 36–37). In alcuni casi rappresenta una scelta possibile, come nei primi Resident Evil, dove è consigliabile aggirare i nemici più lenti (gli zombie) invece che affrontarli, per risparmiare munizioni. In altri casi è invece l’unica opzione, come in Haunting Ground (Capcom, 2005), la cui protagonista non può eliminare i suoi inseguitori, li può solo distrarre o rallentare mentre cerca di seminarli o di nascondersi. Se il personaggio impugna una torcia è possibile che debba spegnerla per essere identificato con più difficoltà dal nemico.
Lovecraft e l’orrore cosmico
Restando in ambito tematico, un altro elemento che emerge con Alone in the Dark e sarà poi ripreso da un gran numero di survival horror (e altri videogiochi) successivi è il tema lovecraftiano.
È preferibile, almeno in un discorso sui survival horror, separare H.P. Lovecraft e il gotico, nonostante l’autore possa rientrare nel genere. È quanto fa per esempio David Punter, il quale lo colloca nel «tardo gotico americano» (2006: 240). Questo inserimento risulta tuttavia poco illuminante per un discorso relativo agli abbondanti recuperi lovecraftiani nei videogiochi (ma anche nei fumetti e in altri campi). Le storie più gotiche di Lovecraft, in primo luogo, sono tendenzialmente quelle meno riutilizzate, anche nel caso di racconti particolarmente famosi come The Rats in the Walls (1924).
Sono invece le sue storie sull’orrore cosmico e i Grandi Antichi ad aver maggiormente innervato la cultura popolare, talvolta anche con vistose e radicali modifiche rispetto all’originale (come le molteplici versioni kawaii di Cthulhu: Mizsei Ward, 2013; Di Fratta, 2018). In larga parte queste modifiche sono legate a peluche, fumetti, fanart e gadget di vario genere, ma anche nei videogiochi si registrano alcuni capovolgimenti, come nel caso di Cthulhu Saves the World (Zeboyd Games, 2011), in cui la malvagia divinità lovecraftiana deve vestire i panni dell’eroe per salvare il mondo, accompagnato da alcuni personaggi vicini alla tradizionale cuteness di determinati manga e anime. Un altro capovolgimento, di segno opposto, può esser rintracciato nel panorama erotico e pornografico, come sottolinea Carbone (2013).
Le sue storie oniriche arrivano dopo, in termini di recuperi e, da ultimi, i racconti più vicini alla tradizione gotica, come si è detto poco fa. Anche osservando singoli elementi, inoltre, sono rintracciabili temi gotici relativi agli oggetti (come i dipinti) e alle ambientazioni (Weinstock, 2016), ma non sono presenze così frequenti. A proposito delle ambientazioni, per esempio, Lovecraft ricorre solo a volte ai castelli e alle abbazie del gotico (Evans, 2005: 117).
Un giudizio come quello di Punter, che vede in Lovecraft «un calo di originalità, una sorta di indurimento delle arterie stilistiche e tematiche» (2006: 278) può essere allora condivisibile in riferimento ai perimetri della tradizione gotica, ma va sostanzialmente a escludere la parte probabilmente più significativa e feconda della produzione di questo scrittore. Una parte che risulta comunque correlata al gotico, il quale rimane una delle “anime” di Lovecraft, come ha sottolineato fra gli altri lo scrittore China Miéville (2009), ma al cui fianco si intrecciano anche altri filoni, come quello weird e, in parte, fantascientifico.
Fra gli elementi lovecraftiani più duraturi e produttivi all’interno del genere si possono ricordare almeno gli pseudobiblia, i Grandi Antichi e la follia. Il primo punto è associato soprattutto al famoso Necronomicon, più volte citato in numerosi videogiochi e talvolta presente come oggetto consultabile. Il secondo punto riguarda l’inserimento di forze incomprensibili e ostili che costituiscono una minaccia cosmica, quasi divina. Anche le inquadrature possono sottolineare questa distanza nei rapporti di forza fra le potenze cosmiche e i protagonisti umani. Nel suo saggio su Silent Hill (Konami, 1999) Bernard Perron parla, a proposito sia di Alone in the Dark sia di Silent Hill di «uso espressionistico delle inquadrature dall’alto» (2006: 31) con un punto di vista che «è quello di una divinità, una divinità spregevole» (41).
Possono essere gli stessi Grandi Antichi inventati da Lovecraft (come Cthulhu, Azathoth e Nyarlathotep) oppure creature analoghe ideate per l’occasione, come avviene in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem (Silicon Knights, 2002) e Bloodborne. La pazzia, infine, che per molti personaggi di Lovecraft rappresenta l’unica possibile ‘fuga’ dalle loro orrorifiche scoperte, diviene in questi videogiochi un indicatore o una meccanica di qualche genere, collegandosi dunque anche a un fattore di game design e giocabilità. Sempre in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem le allucinazioni di un personaggio mentalmente instabile possono divenire persino extra–diegetiche, come nel caso di una (finta) cancellazione dei salvataggi di gioco (Wilson D., Sicart, 2010: 43).
Oltre a queste componenti più vicine alle opere di H.P. Lovecraft, Sweet Home e Alone in the Dark introducono diversi altri elementi che diverranno più o meno ricorrenti all’interno del genere. Fra i principali si ricordano la necessità di gestire un inventario limitato (i cui oggetti possono eventualmente essere combinati fra loro), la scoperta di libri e annotazioni contenenti indizi sul proseguimento dell’avventura e sulla storia, la presenza di numerosi enigmi, l’ambiente labirintico e (in Sweet Home) la gestione di più protagonisti differenti.
Parlando del labirinto, questo particolare elemento non è che sia così specifico in realtà. Come nota Bittanti (2006b: 133), l’immagine del labirinto non è caratteristica soltanto dei survival horror (come indicato da Alinovi, 2004), ma è legata all’horror in quanto tale da un lato e dall’altro a una serie di videogiochi che non sono horror.
Queste e altre caratteristiche aiutano a definire la peculiarità del genere survival horror, differenziandolo – per quanto i confini siano sempre rinegoziabili – da altri videogiochi che presentano ambientazione o temi legati all’horror ma sono riconducibili a generi differenti. Castlevania, per esempio, che ha visto la luce nel 1986 con Akumajō Dracula (in occidente Castlevania, Konami), è una serie di videogiochi di avventura e piattaforme legata all’immaginario del conte Dracula. Più precisamente è definibile come un metroidvania, un portmanteau coniato dai fan unendo i nomi delle serie Metroid e Castlevania.
Nonostante questa origine dal basso, il termine è stato poi utilizzato anche dallo stesso Koji Igarashi, produttore della serie Castlevania, il quale ne ha apprezzato la coniazione (Parish, 2014). I metroidvania sono solitamente caratterizzati da un ambiente bidimensionale con stanze e piattaforme, in cui diverse aree non sono liberamente accessibili, ma possono essere raggiunte man mano che il protagonista ottiene nuove abilità. Il backtracking è molto frequente, perché il giocatore è spinto a tornare più volte sui suoi passi, in modo da sbloccare man mano luoghi e potenziamenti prima inaccessibili.
Doom, allo stesso modo, è uno sparatutto in prima persona in cui un’orda di mostruosi demoni invade una base spaziale. Sono videogiochi horror in cui il protagonista deve “sopravvivere” a una minaccia, ma i rapporti di forza e le modalità sono molto differenti. Sia Doom che Castlevania sono, ciascuno a modo loro, più veloci e frenetici rispetto a un survival horror, e si basano sull’eliminazione di un gran numero di avversari in rapida successione.
Continua nella seconda parte.
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