Il titolo non è sbagliato. Non volevo scrivere “Indika è un videogioco”, oppure “Indikae il videogioco” o qualche altra cosa del genere.
Sono convinto che, in un futuro più o meno prossimo, non mancheranno coloro che utilizzeranno questo videogioco per definire il medium stesso. Per cui mi porto semplicemente avanti, iniziando a definire la questione.
Alla base di tutto ciò ci sono alcuni spunti di partenza. Uno di questi è l’articolo di Giulia Martino su «Final Round» in cui parla di Indika, soffermandosi più volte su numeri e punteggi. Soprattutto, quando l’autrice parla di un momento all’inizio del gioco, in cui bisogna fare avanti e indietro per prendere l’acqua da un pozzo. Scrive allora che «In quel tragitto ripetuto più e più volte, gli sviluppatori di Odd Meter rivendicano il diritto di un videogioco di non “divertire” – una delle parole più abusate da parte di chi parla di videogiochi. Per essere compreso, Indika richiede necessariamente di espandere il nostro vocabolario, senza fossilizzarci su termini triti, logori, limitanti per ciò che il gioco è e può essere: un veicolo potentissimo per la registrazione e la trasmissione di idee ed esperienze umane».
Un videogioco atipico, di cui è effettivamente difficile trovare dei predecessori all’interno del medium. Subito sotto, sempre Giulia Martino prosegue dicendo che «Per molti versi, l’opera di Indika non ha precedenti nel panorama videoludico. Non stupisce che essa guardi, molto spesso, al cinema e alla letteratura».
A volte, serve proprio un po’ di distanza per poter riflettere al meglio su sé stessi. Lo ricordava Machiavelli quando, all’inizio del Principe, diceva che «coloro che disegnano i paesi, si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra i monti». Se sei sulla cima della montagna hai una chiara visione della vallata, ma non del monte. E viceversa.
Se, allora, Indika è un videogioco tutto sommato “poco videoludico”, può essere proprio questo il giusto distacco con cui leggere il medium nelle sue caratteristiche di fondo.
Prima di fornire la risposta, tuttavia, devo introdurre un paio di altri concetti. Seguitemi, perché dobbiamo lasciare per un attimo Indika in sospeso.
Il cielo è un velo. Il velo nasconde e rivela
I medievali amavano false etimologie e accostamenti basati su giochi di parole. Una di queste legava, ai loro occhi, velum e coelum, ovvero “velo” e “cielo”. Con un altro passaggio, il coelum era legato a celare(Gérard de Champeaux, Sébastien Sterckx, I simboli del Medio Evo, Jaca Book, Milano 1981).
Velo, cielo, celato. Che il cielo sia un velo disteso sulla terra è un’immagine ricorrente, che presenta tutta una serie di variazioni sul tema (per esempio il “manto della notte”). È più interessante il fatto che il velo, ma anche il cielo, siano fatti per celare, per nascondere.
Quindi, se Dio ha steso il velo del cielo sul mondo, lo ha fatto per porre un tetto (o meglio, verrebbe da dire una tenda) sopra agli esseri umani, così che essi non vedessero il Paradiso. Eppure il cielo non si limita certo solo a nascondere, visto che rivela tante cose.
In effetti, se si osserva l’esperienza fatta con i veli (tra cui, come detto, rientra il cielo) ci si rende conto che essi nascondono e rivelano al tempo stesso. Proprio come gli schermi. Di questi ultimi e della loro duplice valenza ha parlato il filosofo Mauro Carbone nel suo libro Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (Raffaello Cortina, 2016). Il suo «archi-schermo» comprende in effetti anche più di un velo, tra cui il noto Velo del Tempio e l’altrettanto nota siepe dell’Infinitodi Giacomo Leopardi.
Prendiamo quest’ultimo esempio. Come dice Leopardi nel suo componimento, quella siepe «da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», cioè copre la vista di buona parte dell’orizzonte. La siepe è dunque uno schermo, inteso come qualcosa che scherma, che copre. Subito dopo, però, il poeta aggiunge che «Ma sedendo e mirando, interminati /spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo». Proprio grazie a quel nascondimento, Leopardi immagina degli “interminati spazi” mentre sta seduto dietro alla siepe. Per cui quest’ultima è uno schermo in senso “cinematografico”, visto che mostra qualcosa.
Tornando ai veli, gli esempi potrebbero essere infiniti. Giusto per citarne uno, sempre famoso, il dipinto Donna che legge una lettera davanti alla finestra (1657) di Johannes Vermeer.
La destra del dipinto è coperta da una tenda scostata. Se essa venisse tirata, coprirebbe (schermerebbe) per intero la scena, impedendo di vederla. Ciò che occulta può anche mostrare, come nelle numerose rappresentazioni di Santa Veronica.
Indika è il velo
Torniamo a Indika. Tenendo a mente quanto detto sul velo che – come schermo – può rivelare o celare, la chiave di lettura dell’esperienza sta proprio qui, come modo per comprendere il medium stesso.
Indika è il velo del videogioco. Occulta e rivela.
Che cos’è un videogioco, se non una successione di gameplay loops? Essi si susseguono costantemente senza che ce ne si renda conto. Sono le azioni ripetute che facciamo. Dal microloop, il più “piccolo” e frequente, al core loop, ovvero il loop minimo che rende davvero significativa l’esperienza di gioco, che ci porta ad appassionarcene, ci mantiene legati a esso. E poi ci si sposta ancora più in là, verso loops ancora più ampi.
Il videogioco vive del nascondimento di tutto ciò. Tanto più se entra in gioco – per esempio – il monetization loop, quello che ti invoglia periodicamente ad andare nello store e a spendere dei soldi. Se il processo venisse alla luce, si incrinerebbe il meccanismo, come per qualsiasi altro loop.
Azioni ripetute, fini a sé stesse, perlomeno in termini estrinseci. Spesso sembra un lavoro e per certi aspetti lo è davvero (Matteo Lupetti, Videogiocare stanca, in «Menelique», 1, pp. 84-91). Non è un caso che, soprattutto quando si parla dei free-to-play di grande successo, le persone possono arrivare ad ammettere di sentirsi svuotate, dopo mesi e mesi di gioco portato avanti con dei ritmi lavorativi. Come George Yao, il campione di Clash of Clans (2012) che faceva la doccia con i suoi cinque iPhone imbustati per non perdere tempo. A un certo punto si è sentito prosciugato. Tutti i giorni ti connetti nello stesso momento, raccogli la stessa ricompensa, fai le stesse operazioni meccaniche…
Questo è un modo di giocare, un’esasperazione, ma il loop è sempre presente.
All’inizio di Indika, viene chiesto di andare a prendere per cinque volte l’acqua al pozzo, per riempire un barile. La classica missione videoludica. C’è però il diavolo a commentarla. Qui tocca a lui il disvelamento. La sua tentazione è proprio quella di sollevare il velo dell’attività ludica, scoprendo così il trucco.
Così come, in altri momenti del gioco, viene chiesto di accumulare dei punti che sono in realtà inutili, come segnalano le scritte stesse che si leggono in giro. Il diavolo lega la ripetizione del lavoro e della preghiera, il che non è nuova come idea. Segnalo, giusto per rimanere in tema, questo passaggio da un contributo che parla di veli e di opere d’arte:
«Nella seconda metà del XII secolo fiorirono nuove scuole, botteghe ed estetiche legate al pensiero antropocentrico, che portò gli artisti a identificarsi con la propria opera e a considerarla parte integrande della propria vita. il tempo impiegato nella realizzazione dei dipinti divenne un frammento tangibile dell’esistenza. I giorni dedicati alla realizzazione delle opere si trasformarono nelle pagine di un diario scandito dalle pennellate, dai ritocchi e dalle velature che, con il loro lentissimo sovrapporsi, ritmarono le ore e i minuti della loro realizzazione. Il lavoro coincideva, secondo la regola benedettina di “hora et labora”, allo sgranarsi dei grandi di un rosario e l’opera che veniva realizzata era la testimonianza fisica e tangibile del lavoro svolto» (Andrea Busto, Rivelazioni e coperture. Il velo dipinto come metafora del tempo e della passione, in Id, Il velo. Tra mistero, seduzione, misticismo, sensualità, potere e religione, Silvana Editoriale, Milano 2007, p. 11).
La preghiera è “utile” per la propria anima. L’opera realizzata è una «testimonianza fisica» del lavoro compiuto. Ma con il “lavoro” videoludico? La tentazione di dire che sia tutto inutile è forte. Lo si vede sempre in Indika, dopo che abbiamo raccolto per cinque volte l’acqua. Un’altra suora la rovescia per terra, vanificando il lavoro compiuto.
Dunque ciò che è stato fatto, videoludicamente, è tutto inutile? La tentazione del diavolo-Indika sembrerebbe questa. Si potrebbe obiettare in tanti modi, ricordando per esempio quanto si possa imparare durante un videogioco (James Paul Gee, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale, Raffaello Cortina, Milano 20013), ma almeno per un momento il velo ha rivelato. Si è sbirciato il loop, si è stati portati a soffermarsi sul suo funzionamento.
Indika e il velo (e il diavolo)
Se, come detto, Indika è un velo che prima occulta e poi espone le logiche videoludiche, Indika contiene anche un velo. Più di uno in realtà. Ma partiamo un attimo da lontano.
Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), nota per le sue “estasi”, testimonia che durante il noviziato fu tentata dai demoni in numerosissime occasioni. Un’esperienza condivisa da diversi altri religiosi, peraltro, per cui Indika sarebbe in buona compagnia. Ciò che racconta la santa nei suoi Colloqui è che, durante queste tribolazioni, si rivolse alla Vergine implorando soccorso. E la Madonna le apparve, consolandola e avvolgendola con un “velo bianchissimo”.
Un riferimento molto chiaro allavelatio, ossia la «copertura della testa della professanda da parte del vescovo nel corso di una cerimonia liturgica, [che] sintetizza il concetto stesso della professione religiosa» (Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto. Storie di donne e di veli, Il Mulino, Bologna 2016,p. 147).
Il velo, oltre che emblema della professione religiosa, rappresenta la protezione, come nel caso di Maria Maddalena de’ Pazzi, che si trova difesa dal “velo bianchissimo” che le offre la Madonna. Il velo è un elmo che protegge da tentazioni e insidie, come diceva Tertulliano (De virginibus velandis).
Ritornando all’articolo di «FinalRound», Giulia Martino scrive: «Il Diavolo è protagonista anche a livello di gameplay. A lui sono associati alcuni dei momenti più potenti del gioco: quando Indika compie un peccato, la voce del demonio si tramuta in uno sberleffo crudele, ammantato in una sconvolgente musica chiptune-dubstep. Il mondo si frattura, e sta a Indika ricomporlo pregando: lo si fa tenendo premuto un tasto, ma la suora, dopo un po’, inevitabilmente si stancherà, e tornerà ad ascoltare il Diavolo che la prende in giro per la sua mancanza di rettitudine, le prefigura la perdita del velo e la scomunica, le fa presente che tutti – suo padre, le sorelle, le persone che incontra – la odiano e la disprezzano».
Ci sarebbe molto da dire su Indika, sul suo passato, su come fu costretta a prendere i voti, sul suo conflitto interiore ecc., ma qui rimango sul discorso videoludico. Il velo protettivo rischia di cadere, insidiato dal dubbio e dal diavolo. Durante una partita, il giocatore è avvolto nei suoi “veli”. È dotato di una forte agency, compie delle scelte, è in uno stato di flow, ecc.
Velato in tal modo, continua a giocare tranquillo e sicuro. Talvolta asservito a un loop, ma ne è ben felice. Ci vuole un diavolo, come accennato in precedenza, per minacciare di sconvolgere questa routine. Con una parola o uno sguardo.
Il diavolo di Indika è un (abile e curioso) narratore, ma la componente visiva del gioco non può essere messa in secondo piano. Essa è talvolta volutamente uncanny, con il suo iperrealismo a tratti grottesco che si alterna a minigames in 16-bit, a esplosioni di monete pixellose e a vari altri bizzarri e grotteschi artifici visivi (come l’omino che esce dalla bocca della suora, senza alcun preavviso).
Ricordando il vecchio adagio secondo cui “un’immagine vale mille parole”, tutti questi elementi di scombussolamento visivo sono di grande aiuto, nell’andare a discostare il velo che copre la verità videoludica, con un processo indubbiamente diabolico. Nel Corpum Thomisticum si legge non a caso che l’occhio è il “portinaio” del diavolo. E in effetti quest’ultimo, nella letteratura, è spesso accostato a occhiali, monocoli e altri dispositivi legati alla vista (Salvatore Silvano Nigro, Il portinaio del diavolo, Bompiani 2023).
Vorrei chiudere ricordando un ultimo velo, quello che appare nel titolo di un’opera di Pierre Hadot: Il velo di Iside (Le voile d’Isis). In questo testo si parla della Natura “velata” a cui è possibile approcciarsi in due modi. Il primo è quello prometeico, in cui si tenta di “strappare via” questo velo. Il secondo è quello orfico, in cui si cerca di “svelare” la natura con un approccio meno diretto, sfruttando l’arte e la poesia.
Indika è il disvelamento orfico del videogioco. O perlomeno un suo tentativo.
Una prima serie di riflessioni “a caldo” sul significato di Stellar Blade. Detto fin da subito, per quanto non sia certo il più interessante dei videogiochi, in ottica interpretativa, ha comunque molto da dire.
Prima ancora del suo effettivo arrivo, è stato da molti etichettato come un mero guscio vuoto, tutta esteriorità e privo di sostanza. Posizione che ha indirizzato lo sguardo di diverse persone, nel momento dell’effettivo approccio.
Per quanto sia innegabile che ci sia molta “forma”, nondimeno ci sono diverse questioni degne di interesse, se ci si ferma a osservare la storia che Stellar Blade va a raccontare.
Potenzialmente, in futuro, tornerò a parlarne, qui o altrove. Consideratelo l’inizio di una riflessione e non un punto di arrivo.
Prima di iniziare qualsiasi altro discorso, bisogna ricordare che Stellar Blade ha un profondo legame con NieR: Automata (2017). I punti di contatto sono moltissimi e in più di una occasione si scivola in un palese e continuo citazionismo. Del resto, i creatori di Stellar Blade non hanno certo nascosto che l’opera di Yoko Taro sia ben presente, tra le loro fonti di ispirazione.
La sequenza stessa degli eventi procede talvolta quasi di pari passo. Il disastroso sbarco finale sul pianeta della protagonista, l’entrata in scena dell’alleato maschile, l’esplorazione delle rovine di una antica città, lo spostamento in un ambiente desertico, la rivelazione in un “bunker” sotterraneo, ecc.
A parte questo, ciò che tornano sono i temi. Questo legame tra le due opere va infatti tenuto a mente perché molti discorsi che – nel corso degli anni – sono stati fatti su NieR: Automata possono trovare una loro applicazione anche su Stellar Blade. Al tempo stesso, va anche ricordato che in molti casi (non in tutti) ciò che propone Stellar Blade è una versione annacquata e ridotta.
In Stellar Blade, la devastazione dell’ambiente rimane comunque ben visibile, come del resto ci si aspetterebbe da un mondo post-apocalittico, senza però quella varietà di temi e approcci leggibili sotto la superficie di NieR: Automata. Nonostante ciò non è certo inutile ricordare un paio di elementi presenti nella storia di Stellar Blade. Il primo è che, in passato, gli esseri umani resero sé stessi dei cyborg per poter sopravvivere all’inquinamento e alla devastazione ambientale che loro stessi avevano prodotto.
Il secondo è che, come emerge a un certo punto, l’attuale devastazione del pianeta non dipende da loro. Anzi, facendo riferimento alla vista della città in rovina, viene ricordato che in passato era piena di vita, non solo umana. Per cui, evidentemente, il mondo si era almeno in parte ripreso. Questo fino all’intervento di Mother Sphere, che viene indicata come la responsabile della devastazione attuale, quando fece precipitare sulla Terra le basi orbitali per impedire ai Naytiba di raggiungere lo spazio.
Anche in merito all’eterno ritorno di Nietzsche, si è detto molto a proposito del suo recupero in NieR: Automata (si veda per esempio Jaćević, 2017). Qualche traccia se ne può trovare anche in Stellar Blade, senza però un particolare focus. L’idea di fondo è che, salvo soluzioni, gli Angels inviati dal cielo e i Naytiba continueranno ad affrontarsi in una guerra eterna. NieR: Automata andava decisamente più in là.
Sotto altri aspetti, invece, Stellar Blade offre molto di più da dire, pur restando sempre in un solco già percorso da NieR: Automata. Tra questi punti (che saranno presentati qui sotto) si possono perlomeno citare la riflessione sulla natura degli esseri umani e il rapporto con religione e spiritualità.
Cominciamo con quest’ultimo. C’è molto da poter dire, prendendo NieR Automata (ne avevo parlato in Seregni e Toniolo, 2023), ma anche Stellar Blade è piuttosto ricco di spunti.
Eden e Genesi
Almeno in superficie, non occorre uno sguardo particolarmente approfondito per cogliere i rimandi religiosi di Stellar Blade e, in particolare, i riferimenti alla Genesi. La protagonista del gioco si chiama Eve e incontra un uomo di nome Adam. Aggiungiamo che il terzo personaggio principale che va ad accompagnarli è Lily. E, considerando il contesto di riferimento, potrebbe facilmente essere un riferimento a Lilith, un personaggio che – a ben vedere – non compare da nessuna parte nel libro della Genesi, ma che ha finito per entrarvi attraverso vari commentatori.
Se, all’inizio della Genesi, sta scritto che «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1,27), perché poco dopo viene detto che Dio creò prima l’uomo e poi, partendo da lui, la donna? In un caso si sottolinea una contemporaneità, mentre nell’altro ci sono due momenti diversi e un rapporto di subordinazione. Per ragioni differenti, alcuni commentatori si trovarono a riflettere su questo, ipotizzando cosa sarebbe successo se Dio avesse creato un’altra donna, prima di Eva e in concomitanza con Adamo. Questa donna era Lilith e, secondo varie tradizioni, entrò subito in contrasto con Adamo e poi fuggì dall’Eden. Poi, nella cultura popolare, Lilith è stata più e più volte ripresa, spesso come diavolessa, succube o vampira.
È difficile trovare in Lily un corrispettivo esatto di Lilith e probabilmente non va nemmeno cercato. Nonostante le suggestioni religiose, Stellar Blade non mira a ricostruire la Genesi (e le sue aggiunte successive). Nell’ottica della prima compagna di Adamo, il parallelismo in Stellar Blade dovrebbe semmai essere fatto con Raven, che viene “scelta” da Adam prima di Eve. Se, invece, si considerasse Lilith come l’incarnazione della tentazione, allora Lily potrebbe andare in questa direzione. La “tentazione” che lei propone a Eve è quella di non andare contro al volere di Mother Sphere. L’unione con Adam sarebbe blasfema. Bisogna avere fiducia nella loro dea.
Tanto più, può essere utile ricordare le sovrapposizioni tra la figura di Lilith e quella del serpente tentatore. Secondo una leggenda, «Lilith era un Serpente dai tratti femminili e Adamo ne fece la sua prima sposa. Fu poi Lilith, gelosa di Eva, che spinse la nostra progenitrice alla perdizione. Per questo nell’iconologia più avveduta, la Serpe seduttrice non è maschio, ma metà donna, metà rettile» (Porcarelli, 2018, p. 12).
Anche qui, siamo a metà strada tra Lily e Raven. La seconda, prima “sposa” di Adam, è un ibrido, seppur con un volatile e non con un serpente. La prima, la “tentatrice” di Eve, si presenta alla battaglia finale ibridata con un mech. Di nuovo, niente di serpentino, ma non è superfluo sottolineare che, in uno dei finali, di Lily rimanga solo il busto, privo di gambe. È un modo per dire che è rimasta la sua metà di donna, perdendo l’altra metà (idealmente) “serpentina”, quella che aveva tentato Eve? In ogni caso, la contrapposizione tra ibridazione meccanica e ibridazione animale è un punto importante e verrà ripreso in seguito.
Tornando su un legame un po’ più chiaro e meno legato a vaghe interpretazioni, l’unione finale di Adam ed Eve è un elemento piuttosto chiaro.
Per prima cosa, non è certo la prima volta che si assiste a qualcosa di simile, anche nei videogiochi. Come esempio, è sufficiente prendere Mass Effect 3, nel finale Sintesi, quello in cui si sceglie di rendere un po’ sintetici tutti gli organici della galassia e viceversa. In questo finale, Joker e Ida (il pilota dell’astronave Normandy e la piattaforma robotica dell’IA di quella stessa nave) si abbracciano mentre osservano un pianeta misterioso, dalla vegetazione lussureggiante. Sono la chiara immagine di un ipotetico “nuovo Eden” di cui loro rappresentano Adamo ed Eva, i progenitori, in qualità di ideale prima coppia tra un organico e un sintetico.
In Stellar Blade non c’è uno sposalizio tra Adam ed Eve, c’è la fusione di due corpi, ma non c’è nulla di particolarmente strano. È un altro modo per mostrare l’unione di organico e sintetico, tra gli androidi Andro-Eidos e i Naytiba. E il testo stesso della Genesi non ha mancato di essere collegato al mito dell’androgino, in cui gli esseri umani originari vennero divisi in due. Per cui la completezza significa ritrovare una nuova unità, tornando a fondersi con la controparte che ci completa.
Ci sono dunque dei facili punti di contatto con Genesi, ma non mancano i capovolgimenti, con vari elementi che acquisiscono un segno opposto. Si è già detto di Lily che, se dovesse rappresentare la tentazione, sarebbe quella di restare nell’ignoranza e nella vicinanza a Mother Sphere. L’opposto della serpe che propose la conoscenza e allontanò da Dio.
Mother Sphere appare del resto come l’effettivo villain della storia, la quale si configura allora – in due finali su tre – come un atto di ribellione contro la propria divinità. È una dea interessante, va anche detto. In realtà si tratta di un’intelligenza artificiale e, come tale, ha avuto un creatore, di cui peraltro mantiene memoria. Evita così quella paradossale situazione su cui si interrogarono alcuni maestri rabbini: Dio sarebbe triste del fatto di non avere a sua volta un Dio da amare e glorificare? Interrogativo che risolsero rispondendo che Dio prega e glorifica sé stesso. Mother Sphere, avendo un creatore, risolve questo problema.
Proseguendo, non è da trascurare neanche il fatto che sia stata Mother Sphere, a un certo punto, a decidere di annientare gli esseri umani per sostituirli con gli Andro-Eidos. Un elemento ricorrente in numerose tradizioni religiose, in cui la divinità di turno spazza via una prima creazione per sostituirla con un’altra. Nel periodo in cui la paleontologia si affermava e le ossa dei dinosauri erano ormai un numero innegabile, non mancò chi propose simili teorie per spiegare anche loro in una prospettiva cristiana. Quelli erano i resti di una creazione precedente, poi spazzata via e rifatta.
Per quanto gli esseri umani si fossero modificati tecnologicamente, erano una versione “vecchia”, da rottamare. In più occasioni, il filosofo Fabrice Hadjadj ha detto che il superuomo è il dinosauro del domani. Nel senso che, nel momento in cui si comincia a “innalzare” gli esseri umani, modificandoli tecnologicamente, ecco che nasce subito quello che sembrerebbe il suo opposto, ovvero l’uomo-scarto, da buttare via. Perché, con queste modifiche, l’essere umano diventa al pari di uno smartphone: nel momento in cui è disponibile il modello più aggiornato, quello precedente è destinato a essere buttato via.
Per cui, ragionando in quest’ottica, non c’è da stupirsi del fatto che Mother Sphere abbia a un certo punto deciso di “buttare via” tutti gli esseri umani, avendo a disposizione degli androidi ben più funzionali, potenti e operativi.
Gli umani superstiti, abbandonati, decisero allora di cambiare approccio, seguendo un altro percorso evolutivo di ingegneria genetica che li avrebbe portati a diventare i Naytiba.
Ma, in tutto ciò, dove comincia e dove finisce effettivamente un “essere umano”?
Esseri umani
Come scrisse George Bataille in un suo articolo, «l’alluce è la parte più umana del corpo umano, nel senso che nessun altro elemento di questo corpo è così differenziato dall’elemento corrispondente della scimmia antropoide (scimpanzé, gorilla, orangutango o gibbone)» (Bataille, 2022, p. 75. Corsivo dell’autore).
Ci sarebbe allora molto da poter dire, sui piedi che Eve acquisisce e che, nel secret ending, appaiono per un istante in bella vista a schermo.
Il suo presumibilmente graziosissimo alluce umano è scomparso, sostituito da un grosso artiglio. E se la parte più umana di un essere umano smette di essere tale in una maniera così palese, si potrebbe allora dire che la “nuova” Eve sia qualcosa di differente. La questione è complessa e merita alcune riflessioni.
Per prima cosa, è bene ricordare che Adam non le propone la rinascita degli antichi esseri umani, attraverso la loro unione, ma di diventare i veri successori dell’umanità. Agli Andro-Eidos manca il DNA umano, invece presente nei Naytiba, che però sono regrediti allo stato di bestie. Ci sono due strade, due direzioni evolutive, che dovrebbero idealmente intrecciarsi. Una ha a che fare con la macchina, l’altra con la carne.
La macchina
Partendo dalla prima, i possibili legami nella storia della fantascienza sono molteplici. Come l’inconsapevolezza dei personaggi di Stellar Blade di essere Andro-Eidos, ovvero androidi: robot con sembianze umane. Loro ritengono di essere degli esseri umani con impianti cibernetici che li rendono più forti e più adatti a condizioni ostili. Dei cyborg, insomma.
Certo, verrebbe anche da chiedersi quale sia il grado di “modifica” oltre cui un umano smetterebbe di essere tale. Un po’ come il noto paradosso della nave di Teseo: nel momento in cui quella nave conserva la sua forma originaria ma tutte le parti sono state sostituite, essa è ancora la nave di Teseo?
In Stellar Blade ci si potrebbe porre la questione se Eve fosse stata, originariamente, un’umana che ha man mano sostituito tutte le parti del suo corpo con corrispettivi robotici, mantenendo però inalterato il suo aspetto originario. Ma non è questo il caso. Eve e gli altri Angels nascono già come androidi. Come dice Adam, non hanno alcuna traccia di DNA umano.
L’inconsapevolezza dell’androide, come accennato, è un tema ricorrente. Lo si trova per esempio nelle opere di Philip K. Dick. Inizia a farsi strada nella sua produzione in racconti come La Formica Elettrica (The Electric Ant, 1969). In questo racconto, Garson Poole si risveglia improvvisamente in un ospedale, scoprendo non solo di esser privo di una mano, ma di essere un androide, mentre fino a quel momento aveva vissuto ritenendosi un essere umano.
Come dirà in seguito, Dick ha inizialmente inserito questi temi senza nemmeno rendersene più di tanto conto, ma poi si è trovato a ragionarci sempre di più. In particolar modo, come scrisse in un testo del 1976:
«Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo “androidi”. Per “androide” non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano […]. Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Queste creature sono tra noi, e morfologicamente non sono diverse: la differenza che noi postuliamo pertiene al comportamento, non all’essenza. Nelle mie opere di fantascienza ne ho parlato continuamente. A volte neppure loro sanno di essere androidi. […] possono essere realmente usciti da un utero umano e addirittura capaci di progettare androidi» (Dick, 1997a, p. 39. Corsivi miei).
Qui di seguito riporto un passaggio di un mio libro in cui avevo già affrontato la questione nel dettaglio, in merito a Philip K. Dick:
«Nel piccolo saggio L’androide e l’umano (The Android and The Human, 1972) lo scrittore si domanda quale aspetto del comportamento caratterizzi realmente l’uomo come tale.
Non è sufficiente, come detto, il dato fisiologico. Si potrebbe parlare di “anima”, o di “libertà”, o “non prevedibilità”, ma è necessario prestare attenzione all’utilizzo dei termini. Una macchina – o un uomo che si comporta come tale – è un mezzo e non un fine. Ci si può trasformare più o meno volontariamente in un mezzo, oppure si può essere «oppressi, manipolati e ridotti a un mezzo inconsapevolmente o contro la propria volontà: il risultato non cambia» (Dick, 1997b, pp. 231-232). Non vi è un percorso univoco, nel divenire androidi-mezzi. Può innanzi tutto essere un effetto del potere, che sia politico o militare o di altra natura, quando smette di essere al servizio dell’uomo (e dunque di avere l’individuo come fine) ma pretende di essere servito da quest’ultimo (individuo come mezzo sfruttabile). È un potere che nei suoi aspetti più eclatanti ben ricorda l’orwelliano Big Brother di 1984. Tuttavia Dick non vede un avvento prossimo di una simile società, nonostante il suo pensiero talvolta paranoico. L’uomo non può essere tramutato in androide fin quando egli si ribella, il che può anche solo significare il compimento di azioni non previste. Gli strumenti tecnici per realizzare un totalitarismo orwelliano sarebbero già presenti, ma Dick ha fiducia nei giovani, i quali guardano al medium e non al suo messaggio, che appare per loro come un insieme di parole di sottofondo. […] Tornando alle sue parole, egli ricorda anche altre strade che possono rendere l’uomo una macchina. Una di esse è la droga. Non solo le droghe comunemente intese, quelle illegali, che pure egli aveva sperimentato, ma anche certi farmaci prescritti negli ospedali psichiatrici. Il mondo del drogato cronico, così come quello dello psicotico, è un mondo totalmente reificato, fatto di incomunicabilità e di fissità, un mondo in cui non esistono eccezioni, così come non ne esistono per l’androide, per il non-umano» (Toniolo, 2017, pp. 129-130).
Gli androidi sono coloro per i quali non esistono eccezioni, a differenza degli esseri umani. Dick ricorda l’esempio di un piccione addestrato a riconoscere i pezzi difettosi di una catena di montaggio. Ogni volta che individuava correttamente un pezzo, riceveva come ricompensa un chicco di grano. Anche quando i chicchi erano esauriti, continuava a svolgere il suo lavoro. Un androide agirebbe proprio come il piccione, mentre un essere umano potrebbe agire diversamente, magari per fame, magari per noia. Chi è un “androide” arriverebbe a lasciarsi morire pur di non fare eccezioni, coerentemente con la sua “programmazione”.
Tornando a Stellar Blade, verrebbe da dire che Eve è allora “umana” in quanto capace di fare eccezioni. A meno che – ma questo sembra difficile da confermare o smentire – Mother Sphere non abbia programmato Eve prevedendo anche la possibilità del tradimento.
L’effettiva differenza, forse, non risiede allora qui.
Proseguendo con la produzione dickiana, ci sono altre due opere che aiutano a fare un passo in avanti. La prima è il romanzo Androide Abramo Lincoln (1962), a proposito della cui genesi Dick scrisse:
«ero ammaliato dal soggetto del romanzo: un androide (Abe Lincoln), dotato di reali qualità umane, confrontato con un’umana (Pris) che è simile a un automa. […] Definire cosa è reale equivale a definire cosa è umano, se si è interessati agli umani. chi non prova interesse per loro è un soggetto schizoide, simile a Pris e, per come la vedo io, un androide: dunque non umano, e quindi non reale. […] ciò che manca in voi – androidi – è la simpatia, una forma di simpatia essenziale, intesa come sentimento empatico verso la vita altrui, e se non l’avete per noi, non riusciamo a immaginarci come noi potremmo averne nei vostri confronti. È possibile avere questa empatia solo se reciproca» (Dick, 2012, pp. 266-267).
L’androide Lincoln prova “empatia” per gli esseri umani, si preoccupa per loro, afferma che solo gli umani possiedono un’anima. Appare molto più umano di tanti esseri umani, come la fredda Pristine (Pris) o l’imprenditore materialista Barrows, disinteressati nei confronti dei loro simili o pronti a sfruttarli.
Vale la pena riportare, per esempio, questo scambio di battute tra l’androide e Barrows (dall’edizione Fanucci del 2012, p. 126):
«“Allora, signore, che cos’è una macchina?” chiese a Barrows il simulacro.
“Lei è una macchina. Queste persone l’hanno costruita. Appartiene a loro.”
Il volto lungo e scavato, contornato dalla barba scura, si contorse in una smorfia di stanco divertimento mentre il simulacro guardava Barrows. “Allora, signore, anche voi siete una macchina. Perché anche lei ha un Creatore. E, come ‘queste persone’, Egli vi ha creato a Sua immagine e somiglianza. Credo che Spinoza, il grande sapiente ebreo, pensasse la stessa cosa degli animali; ossia che erano macchine astute. Ritengo che il punto critico sia l’anima. Una macchina può fare tutto ciò che fa un uomo… su questo sarete d’accordo. Ma non ha un’anima.”
“L’anima non esiste” disse Barrows. “Si tratta di una semplice fantasia.”
“Allora” disse il simulacro “una macchina è la stessa cosa di un animale […] e un animale è uguale all’uomo. Non è così?”»
Il passaggio successivo si vede in quello che è uno dei più noti testi di Philip K. Dick: il romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968). In un futuristico (per il momento in cui fu scritto il testo) 1992, la Terra è devastata e gli esseri umani che ancora non sono migrati verso le colonie spaziali vivono in metropoli decadenti. Gran parte degli animali sono estinti e quelli rimasti sono uno status symbol che caratterizza i più ricchi.
Chi non può permettersi un animale vero può acquistarne una riproduzione robotica. Nelle colonie spaziali, invece, si fa un largo impiego di androidi, praticamente identici agli umani ma progettati con un’obsolescenza programmata, che garantisce loro circa quattro anni di attività. L’unico modo per distinguere un androide da un umano è il test per l’Empatia di Voigt-Kampff, ma anch’esso sta perdendo la sua efficacia, davanti ai nuovi modelli equipaggiati con l’unità cerebrale Nexus-6.
Per cui, come nel caso dell’Androide Abramo Lincoln, il discrimine sarebbe l’empatia. Eppure ci sono casi in cui gli esseri umani sono ben poco empatici, molto meno di un androide. Questo, comunque, viene visto non tanto come una qualità degli androidi, ma come una decadenza degli esseri umani. L’androide Lincoln simula empatia perché è progettato in questo modo. Gli androidi di Do Androids Dream of Electric Sheep?, alla fine, continuano a eseguire il loro programma, nonostante il tentativo di libertà.
Sono gli esseri umani ad apparire sempre più come androidi. Le uniche eccezioni, che in qualche modo “salvano” l’umanità all’interno del romanzo, sono Isidore e Mercer. Il primo è un cosiddetto “cervello di gallina”, un individuo emarginato a causa del suo basso quoziente intellettivo. Mercer è un santone, fondatore del Mercerismo, basato sull’utilizzo di una scatola empatica. Ma una trasmissione televisiva rivela che, in realtà, Mercer è solo un vecchio attore etilista.
Davanti a questo annuncio, Isidore piomba nello sconforto, eppure in quel momento Mercer appare davanti a lui, resuscitando il ragno che degli androidi avevano ucciso. È un miracolo. Non per il ragno, ma prima ancora perché si è mostrato profondamente umano. L’umanità di Mercer «consiste appunto nell’essere con l’altro, soffrire con lui, rialzarsi sempre con lui […]. La presenza è compresenza originaria e insieme ultima che sta tutta nell’incontro: prima di qualsiasi esercizio intellettivo di comprensione avviene l’incontro» (Chiappetti, 2000, p. 113. Corsivi dell’autore).
In Stellar Blade, quindi, avviene l’incontro? Propenderei per il sì.
Perché Adam ha scelto Eve al posto di Raven? Forse perché la prima ha dimostrato maggior empatia rispetto alla seconda. Eve e Raven non sono umane. Sono androidi. Ma per creare il “discendente dell’umanità” la materia prima è evidentemente importante. Non è dato sapere se la maggior empatia di Eve derivi dalla sua programmazione, ma è per certo preferibile. Proprio come l’androide Abramo Lincoln nella storia di Dick. Se, pur simulando, sa mostrare empatia, allora sarebbe comunque preferibile a tante altre alternative.
Le opzioni possibili sono due.
La prima: l’unione di Adam ed Eve dona a quest’ultima il libero arbitrio. In precedenza, stava semplicemente seguendo la sua programmazione (che pure, va ricordato, può prevedere una certa libertà decisionale tra alternative differenti). Adam avrebbe allora scelto lei perché è quella con la programmazione migliore, più vicina ai sentimenti di un essere umano.
In quest’ottica, non è inutile ricordare che questa fusione avviene nel finale. Per tutto il videogioco, Eve è effettivamente eterodiretta. È controllata dal giocatore, che sceglie al posto suo, come se fosse la sua “programmazione”.
La seconda opzione: Eve aveva già il libero arbitrio e/o qualcosa definibile come “anima”, nonostante la sua natura di androide. E allora Adam avrebbe scelto lei in quanto più empatica di Raven (e di altre potenziali candidate).
La carne
Come detto in precedenza, la direzione evolutiva “meccanica” è solo una delle due opzioni che viene presentata in Stellar Blade. L’altra è quella “carnale”, che ha prodotto i Naytiba. Se gli androidi hanno sembianze umane ma sono privi del loro DNA, i Naytiba hanno DNA umano ma un aspetto mostruoso e, salvo poche eccezioni, sono incapaci di ragionare e si affidano all’istinto.
I Naytiba sono la “carne” e gli Andro-Eidos sono lo “spirito”. Perché ciò che conta per loro è far sì che le proprie memorie personali possano tornare alla Mother Sphere. Le loro memorie, che sono la loro “anima”, hanno una priorità sul corpo.
C’è un eccesso in un senso e nell’altro. Ecco perché – di nuovo – il futuro essere umano potrà nascere solo dall’unione di Adam e Eve.
Senza la “carne”, gli Andro-Eidos sono in fondo solo le loro memorie, che finiscono poi tutte insieme dentro l’intelligenza artificiale che ha dato loro la vita. E non a caso, una volta scoperto cosa ha fatto Mother Sphere, c’è chi vuole evitare tutto ciò. Significa non avere un’effettiva individualità, che finirà a diluirsi in un insieme di dati tra gli altri.
La convergenza della “carne” priva dello “spirito” genera però altrettanti pericoli. In tal senso, uno dei casi videoludici più evidenti rimane la trilogia di Dead Space. In quella storia, una misteriosa razza aliena ha disseminato dei manufatti detti Marchi in tutta la galassia. Sono oggetti che funzionano in modo simile ai monoliti di2001 Odissea nello spazio (il film e, soprattutto, il romanzo): favoriscono l’evoluzione di una specie, lanciano un segnale verso lo spazio e attivano poi una seconda fase evolutiva. Se, in 2001, il prodotto finale sarà uno Star Child, in Dead Space vengono generati i necromorfi, dei mutanti redivivi. Alla fine del processo, questi necromorfi convergeranno tutti insieme per creare unaBrethren Moon, un organismo grande quanto una luna.
Se la tecnologia di 2001 sublima lo spirito rispetto alla materia, in Dead Space la tecnologia rimuove lo spirito e mantiene solo la materia, che viene peraltro fusa insieme in un ibrido indistinto e mostruoso. Gli umani del mondo di Dead Space si ingannano ascoltando la Chiesa di Unitology, sempre più popolare, che promette l’avvento ormai prossimo della Convergenza, un mistico processo di morte e rinascita in cui le anime umane saranno fuse insieme. Nella realtà, non c’è nessuna trascendenza. L’unica fusione è quella dei corpi e la Convergenza è solo la nascita di una nuova Brethren Moon.
Occorrono entrambi, la “carne” e lo “spirito”. La bellissima Angel giunta dal cielo, Eve, è stata al centro di un grande interesse per il suo corpo (rimando più sotto ai canoni estetici) ma in realtà le manca proprio la “carne”, che raggiungerà solo nell’unione con Adam.
Gli “angeli” hanno dunque bisogno degli umani?
Angels e marionette
Riporto un passaggio del libro L’angelo e la marionetta di Giorgio Concato che si presta molto bene per parlare di Stellar Blade:
«Oggi, l’angelo non è più colui che annuncia agli uomini il senso di un destino contenuto nel disegno dell’Intelletto divino; egli stesso, solitario, compiuto e raccolto in sé, nella sua terribile, inavvicinabile bellezza, chiede a noi, che attraverso il corpo patiamo la solitudine, il senso di essa, cosicché noi diventiamo il tramite della domanda angelica, il luogo in cui essa circola per ritornare a se stessa, colma della sofferenza umana. […] L’angelo è così lontano da noi, da farci dubitare che egli possa udire il grido della nostra solitudine e, tanto meno, che egli possa rispondere. Tuttavia egli ha per noi un significato essenziale, è la rappresentazione simbolica e vivente del fatto che la nostra esperienza e la nostra soggettività sono determinati da altro. All’inizio viviamo contenuti in un ventre, poi, dopo la nascita, in uno spazio, interiore ed esterno, da cui veniamo pensati e che pensa attraverso di noi. […] La mancata esperienza dell’eterodeterminazione, fa di noi delle marionette solitarie perché prive della consapevolezza della connessione con l’altro che guida i nostri reciproci movimenti. Le marionette si incontrano sulla scena ma non possono fare esperienza del senso del loro abitarla insieme e questo fatto le condanna alla solitudine» (Concato, 2001, pp. 18-20. Corsivi dell’autore).
Gli Angels, ovvero gli androidi come Eve, di Stellar Blade sono in realtà le “marionette solitarie” che non possono fare esperienza della loro eterodeterminazione. Ciò che sanno è di dover portare a termine la loro missione, anche a costo della vita. Hanno la consapevolezza di questo incarico, ma non del loro reale rapporto con Mother Sphere. Quanto possano effettivamente cogliere il senso dell’“abitare insieme” la scena su cui “recitano” (per conto della loro dea), è da discutere. Servirebbe qualche dettaglio in più sul legame tra Eve e Tachy per poterlo dire.
Non sembrerebbe però sbagliato supporre che, per un’autentica esperienza di incontro con l’altro, un Angel debba entrare in contatto con realtà differenti. Sono le missioni secondarie di Xion, il rapporto con Adam e con Lily, le testimonianze del passato che vengono raccolte. Eve è già un “angelo”, un “angelo” solitario, non ha nessuno sopra di sé a cui rivolgere preghiere e suppliche. Deve scendere sulla Terra per fare esperienza della sofferenza.
Forse tutto ciò dipende anche dalla questione del ventre. Eve e Lily devono essere state costruite, non partorite. Quando giungono alla tana dell’Elder Naytiba, le due si trovano davanti a strane meduse che svolazzano nell’aria e a delle grandi sacche, che sembrano piene di liquido amniotico.
«Everything looks so natural… It makes me wonder… Is this how real life is born, after all?» commenta Eve mentre si guarda in giro. La vera vita, qualcosa da cui lei si sente esclusa, in quanto angelo-marionetta sceso dal cielo.
Peraltro, è interessante ricordare chi ha definito Eve una “bambola (sessualizzata)”. In effetti, è proprio ciò che è anche in termini narrativi. Una bambola/marionetta dalla bellezza “angelica”, ma priva della possibilità di fare esperienza concreta.
Canoni estetici
Un altro punto degno di attenzione riguarda la bellezza e i canoni estetici. Sarebbe impossibile non fare almeno un cenno, considerando che la stragrande maggioranza dei discorsi su Stellar Blade si sono soffermati esclusivamente sui glutei di Eve.
Su questo punto, mi limito a segnalare un articolo di Mara Sanvitale, che racchiude già molto bene il nocciolo della questione, parlando del culto della bellezza nella Corea del Sud. L’articolo è Stellar Blade. È solo questione di culo?
Ne riporto giusto un passaggio a titolo d’esempio, invitandovi a leggere il resto di quel contributo:
«Per me, tenere a mente il ‘passaporto’ di Eve è stato fondamentale per affrontare la demo messa a disposizione da Sony con la giusta consapevolezza, così come fu fondamentale farlo per affrontare Lies of P, anch’esso videogioco sudcoreano. Le caratteristiche da k-pop idol di P. erano meno palesi agli occhi del pubblico occidentale, mentre la fisionomia di Eve appare più ‘sfacciata’ nel rispettare i famigerati canoni di bellezza coreani: non è una mera questione di “sbattere la bonazza” in prima pagina, ma è la fotografia perfetta degli enormi problemi socio-culturali che affliggono la Corea del Sud».
Varrebbe anche la pena riflettere maggiormente sul legame con i personaggi di Lies of P, in effetti. Considerando anche che abbiamo definito poco fa Eve una “marionetta”.
Non parla di Stellar Blade (l’articolo è stato pubblicato nel 2018) ma è una lettura molto utile per comprendere anche quest’ultimo.
Come nel caso precedente, ne riporto un passaggio:
Troviamo nelle parole di Walter Benjamin un parallelo sorprendentemente efficace di quanto esperienziato qui da un utente-tipo:
«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo.»
Per quanto la presenza di creature angeliche che minacciano l’incolumità del giocatore possa essere vista come un rimando implicito e forse troppo specifico alla riflessione di Benjamin ci sembra ben più utile riflettere sulla centralità iconografica delle rovine, nella citazione del filosofo tedesco quanto nel Cumulo di rifiuti.
L’osservatore che si erge sulle rovine e si sente come un dio coincide con l’angelo benjaminiano: “vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine”. La sua azione, incapace di soffermarsi a riconoscere i vari elementi che compongono il collasso, non può che votarsi al proseguimento: così come l’Angelus Novus viene spinto al futuro dalla tempesta l’utente non può che proseguire verso il completamento del gioco, lasciandosi alle spalle il marasma della Storia. La sua azione, più che limitarsi al contemplare, mantiene sempre una dimensione teleologica: si esplora e si gioca per giungere al termine dell’esperienza, per esaurirla. Con le rovine dello spazio non si può fare nulla: il giocatore vi slitta all’interno, vi cade, vi combatte e infine si trae in salvo. Il suo viaggio attraversa i resti di un multiverso disastrato eppure le sue azioni sono lucidamente vincolate al suo presente.
Anche nel caso di Stellar Blade, la presenza di “creature angeliche” è un “rimando implicito e forse troppo specifico”, ma che ci conduce comunque al punto in cui si dice che il giocatore, «incapace di soffermarsi a riconoscere i vari elementi che compongono il collasso, non può che votarsi al proseguimento […] lasciandosi alle spalle il marasma della storia».
Un marasma su cui – peraltro – si ergono imponenti e colossali statue tra le rovine della città. Se i grattacieli semidistrutti richiamano facilmente NieR: Automata (e alcuni scorci sono effettivamente molto simili, delle probabili citazioni), quelle statue restano un mistero in larga parte irrisolto.
Qualcosa da lasciarsi alle spalle, che fa parte di quel “marasma” su cui non verranno fornite particolari risposte.
La strada sta davanti a sé. Verso la fine del gioco.
Bibliografia
Bataille (2022): George Bataille, Documents. Corpo, follia, erotismo: la più importante raccolta di scritti, trad. it. Sergio Finzi, Edizioni Dedalo, Bari 2022 (ed. orig. Editions Gallimard, Paris 1970).
Chiappetti (2000): Fabrizio Chiappetti, Visioni dal futuro. Il caso di Philip K. Dick, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna 2000.
Concato (2001): Giorgio Concato, L’angelo e la marionetta. Il mito del mondo artificiale da Baudelaire al Cyberspazio, Moretti&Vitali, Bergamo 2001 (1996).
Dick (1997a): Philip K. Dick, Uomo, androide e macchina (1976), in Se vi pare che questo mondo sia brutto, trad. it. di G. Pannofino, Feltrinelli, Milano 1997.
Dick (1997b): Philip K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, letterari e autobiografici, L. Sutin (a cura di), trad. it. di G. Pannofino, Feltrinelli, Milano 1997 (ed orig. The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, Boror International Inc, New York 1995).
Dick (2012): Philip K. Dick, L’evoluzione di un amore vitale, trad. it. di A. Ricci, in Id, L’androide Abramo Lincoln, Fanucci Editore, Roma 2012 [2005], pp. 265-278.
Jaćević (2017): Milan Jaćević, This. Cannot. Continue. – Ludoethical Tension in NieR: Automata, «The Philosophy of Computer Games Conference», Kraków 2017, 2017, p. 1-15.
Porcarelli (2018): Franco Porcarelli, Fantaenciclopedia. Il fantastico in letteratura, Manifestolibri, Roma 2018.
Seregni e Toniolo: Marco Seregni e Francesco Toniolo, Religion and Spirituality in NieR: Automata, in L. Marcato and F. Schniz (edited by), Fictional Practices of Spirituality I. Interactive Media, de Gruyter, Berlin 2023, pp. 373-394.
Toniolo (2017): Francesco Toniolo, Effetto di massa. Fantascienza e robot in Mass Effect, Unicopli, Milano 2017 (2014).
Garfield Kart – Furious Racing è uno dei miei videogiochi preferiti.
Ogni tanto mi capita di dare questa risposta, in giro.
Oppure cito Monster High: Una nuova mostramica a scuola.
In queste risposte c’è una parte di trolling, ma solo una parte. Molto più piccola di quel che forse qualcuno pensa.
Non sono, certo, esperienze paragonabili ad altri videogiochi che ho sempre amato e che cito tra i miei preferiti, come Dark Souls, Mass Effect, Diablo II, vari The Legend of Zelda e altri.
Eppure, con Garfield Kart – Furious Racing mi diverto sempre con grande gusto. E anche con il citato gioco delle Monster High, ma magari di quello parlerò in un’altra occasione.
Volevo pertanto parlarne un po’.
E, già che ci siamo, ricordare che ci si può tranquillamente divertire anche con qualcosa di imperfetto, senza doversene vergognare. Basta avere un po’ di consapevolezza. Anzi, è un buon esercizio di auto riflessione per capire che cosa ci attrae e che cosa è “importante”. Non sempre le due cose vanno di pari passo.
Cos’è Garfield Kart
Cominciamo con qualche informazione di carattere generale. Garfield Kart – Furious Racing è il remake (anche se al tempo venne promosso come un seguito) del precedente Garfield Kart, che era stato sviluppato da Artefacts Studio e pubblicato nel 2013. Nel 2019, sempre realizzato dallo stesso team, è uscito Furious Racing. Quest’ultimo aggiunge diversi contenuti, ha una nuova veste grafica, cambia alcune funzioni legate al controllo dei veicoli e modifica gli shortcuts dell’originale, aggiungendo anche un nuovo oggetto necessario per certe scorciatoie (se ne parlerà in seguito). Qui di seguito mi soffermerò su Furious Racing e basta. Segnalo solo che alcuni dei seguenti discorsi valgono anche per l’originale (per esempio il comportamento della community) mentre altri si applicano solo a questo.
Senza grandi sorprese, ci si trova davanti a un videogioco di corse coi kart. Sedici piste divise in quattro coppe. Tre difficoltà (50cc, 100cc e 150cc). Modalità Cronometro e possibilità di scegliere singole corse. Single player e multiplayer. I personaggi selezionabili sono otto: Garfield, Odie, Jon, Nermal, Arlene, Liz, Harry e Squeak. Ciascuno di loro ha dei parametri differenti. È possibile personalizzare il personaggio scegliendo kart, alettone e cappello, con diversi bonus non solo legati alle statistiche del mezzo (velocità massima, accelerazione e controllo) ma anche all’uso degli oggetti. Si può sperimentare la combinazione che si vuole, ma ogni personaggio riceve un bonus da uno specifico set. Per cui, se si vuole ottenere questo non indifferente bonus aggiuntivo, bisogna optare per il kart, l’alettone e il cappello che corrispondono a quello specifico personaggio. Scelta che avviene molto frequentemente.
Fatte queste brevi premesse, vediamo subito cosa c’è di interessante da poter dire su questo videogioco.
Andare TROPPO veloci
Voglio iniziare subito con quello che è per me l’aspetto più divertente e – a suo modo – riconoscibile di Garfield Kart – Furious Racing: la velocità eccessiva e incontrollabile. Andare troppo veloci in questo videogioco può rivelarsi un malus, soprattutto se il proprio personaggio è poco controllabile. Anche i personaggi veloci ma con una discreta manovrabilità soffrono però di questo problema. “Soffrono” e “problema” non sono forse nemmeno i termini giusti, perché tutto ciò genera gare adrenaliniche, momenti comici e sorpassi assurdi. Tuttavia, non è di certo qualcosa che viene in aiuto di chi volesse prendere seriamente il gioco.
Jon e Liz sono due dei personaggi capaci di raggiungere la massima velocità possibile, cosa che genera situazioni perlomeno bizzarre. Se si prende un dosso a velocità troppo elevata ci si trova catapultati fuori dalla pista, a grande distanza dal circuito, a volte sballando anche il punto di respawn e a volte consentendo dei tagli assurdi. Oppure, più prosaicamente, ci si schianta contro un muro alla massima velocità e si continua ad accelerare per un po’, rendendo più lunga la retromarcia. Questo soprattutto perché sia Jon sia Liz uniscono questa altissima velocità a una scarsa manovrabilità.
Il terzo personaggio che può raggiungere la velocità massima, il gatto Harry, è un po’ più controllabile, ma ha anche una bassa accelerazione, per cui raggiunge più difficilmente quei picchi, visto che basta poco per essere colpiti. Molti consigliano invece di giocare con il cane Odie, che è comunque molto veloce (un po’ meno di Harry, Jon e Liz) ma possiede un’altissima accelerazione e una buona manovrabilità (e un cappello con un ottimo bonus). Anche personaggi con una minore velocità massima, come Nermal o Squeak, possono comunque volare come razzi se utilizzano una lasagna o qualche altro boost al momento giusto (o sbagliato, dipende dai punti di vista).
Per sottolineare l’ambivalenza di tutto ciò, metto qui questi due video. Uno con una serie di “fail” bizzarri. L’altro che mostra come sfruttare la massima velocità anche in punti impensati (le ultime shortcuts che mostrano).
E, a proposito di salti e scorciatoie, c’è un oggetto curioso nell’arsenale di Garfield Kart – Furious Racing.
La molla e il puzzle
Gli oggetti utilizzabili in Garfield Kart – Furious Racing sono in generale quel che ci si aspetterebbe di trovare in un videogioco coi kart, sebbene ci siano alcune eccezioni degne di nota. Tra gli oggetti “standard” ci sono le torte (i gusci verde e rosso dei Mario Kart), il profumo (la stella dell’invincibilità), la lasagna (il fungo che offre un boost di velocità), il cuscino (il fulmine) e la gemma maledetta (la bob-omba). Il famosissimo e temuto guscio blu di Mario Kart ha anch’esso un corrispettivo, leggermente diverso: un trio di dischi volanti che vola a bloccare il passaggio di chi sta in prima posizione. La principale differenza è che, se si centra il raggio verde degli alieni evitando i due rossi, non si viene rapiti (e rallentati).
La bacchetta magica è un po’ più particolare: se centra un avversario, consente di scambiarsi di posto con lui. Non è facile farla andare a segno, ma quando ci si riesce l’effetto è buono. L’oggetto più interessante è però un altro. La molla. È possibile piazzarla dietro di sé come trappola, similmente alle classiche banane di Mario Kart, oppure utilizzarla su di sé per fare un salto in alto. Non fornisce un boost di velocità e, pur venendo presentata come una mossa difensiva contro altri oggetti, è difficile trovare il tempismo esatto.
È invece interessante scoprire che certe shortcuts sono accessibili solo con la molla. Di per sé non è certo una novità. Anche in Mario Kart serve un fungo per alcune scorciatoie e questo è tornato poi anche in altri videogiochi del genere. In Garfield Kart – Furious Racing rimangono sempre scorciatoie da prendere con una lasagna (o un altro boost). Se ne trova una già nella prima pista, in cui è possibile tagliare un pezzo di strada lanciandosi in un vicolo laterale pieno di fanghiglia. Senza un boost, ci si ritrova impantanati.
Sempre il primo livello contiene anche un’altra scorciatoia, che risulta invece inaccessibile nonostante tutte le lasagne del mondo, perché la stradina è sbarrata da una serie di transenne. Serve una molla per poterle superare. Un oggetto da usare con cautela perché, considerando l’alta velocità di cui si è parlato, non è certo impossibile andare a schiantarsi da qualche parte.
L’utilizzo competitivo della molla è aleatorio. Bisogna trovarne una al momento giusto, altrimenti può non valere la pena conservarla a lungo, evitando di utilizzare altri oggetti nel mentre. Quando si gioca da soli c’è però un incentivo che spinge a sperimentare ogni shortcut possibile e a scoprire i segreti dei tracciati: i pezzi dei puzzle. Ogni circuito ne contiene tre. Alcuni sono quasi impossibili da mancare, altri sono ben nascosti e richiedono diversi tentativi prima di essere trovati e raccolti. Spesso si trovano in punti accessibili solo con una molla.
Purtroppo i puzzle non sbloccano nulla di significativo. Il loro completamento permette solo di ottenere delle generiche immagini di Garfield. È comunque possibile ottenere (e poi potenziare) dei cappelli e degli alettoni, man mano che vengono completate le diverse coppe.
Non è un gioco di Garfield
So che può sembrare strano, ma Garfield Kart – Furious Racing è solo incidentalmente un videogioco di Garfield. Ora, è bene partire da un assunto di fondo: i videogiochi di kart hanno già alla base una certa genericità. Tanti livelli presenti nei vari Mario Kart – alla base – non sono così legati a Super Mario. Viene tuttavia messa in atto una strategia di ridefinizione e personalizzazione. Con un po’ di funghi in giro, dei Toad che fanno il tifo a bordo pista, una statua di un Goomba e qualche altra amenità, ecco che un generico tracciato si lega molto di più al mondo di Super Mario. Per cui, nella serie di Mario Kart, ci sono livelli immediatamente riconoscibili e altri più generici, ma su cui è stato comunque fatto questo lavoro.
Si potrebbe dire che il confronto sia ingiusto. Prendo allora un altro videogioco che ho giocato sempre su Nintendo Switch: Puffi Kart. Conosco poco i “nuovi” Puffi, per cui potrei aver perso qualche riferimento, ma anche così il gioco presenta diverse piste che richiamano subito a quell’immaginario. Soprattutto nella coppa di Gargamella, in cui si gareggia nei dintorni e all’interno della sua casa. Oltre a questo ci sono tutta una serie di più generiche piste ambientate nei boschi, che però sono comunque rese caratteristiche dalla piccolezza dei Puffi. Insomma, sarebbe difficile prendere quei circuiti e inserirli in un altro gioco di corse.
Non si può dire lo stesso di Garfield Kart – Furious Racing. Per cominciare, ben quattro dei sedici tracciati sono legati all’Egitto e al deserto. Idea carina per una pista legata agli antichi egizi, vista la nota sacralità del gatto presso di loro. Tematicamente parlando, quattro piste così sono un po’ troppo e c’è ben poco di Garfield. Anche in altri livelli si assiste a qualche vaghissimo tentativo di legare quell’ambiente a Garfield, ma non si va oltre il nome e/o qualche immagine sparsa in giro. In molti livelli non avviene nemmeno questo. Piste come la montagna innevata, la spiaggia e la magione infestata potrebbero essere tranquillamente prese e inserite in un altro gioco di kart, senza dover modificare praticamente nulla.
Forse è anche per questo che hanno scritto più e più volte che tutto questo sarebbe ispirato al mondo di Garfield, per portare avanti un’operazione di convincimento. Come si legge sulla pagina Steam: «16 diversi circuiti, tutti rappresentativi del mondo di Garfield» e poco sotto «Tante corse pazze in magnifiche ambientazioni ispirate al mondo di Garfield, come il Lago Roccepallide o la Fabbrica Pastacosi».
La community di Garfield Kart
Le recensioni su Steam, i commenti ai video su YouTube, le discussioni presenti in giro… con Garfield Kart – Furious Racing c’è sempre da ridere. Chi lo paragona alla storia di Halo, chi accusa Nintendo di aver clonato il glorioso gioco di Garfield con il suo Mario Kart, chi inventa creepypasta e chi scrive semplicemente “lasang” o cose del genere. C’è da sbizzarrirsi. Ogni tanto salta fuori anche qualche utente che appare sinceramente perplesso. Il gioco non è così bello – dice l’utente perplesso – perché quindi ci sono così tante recensioni positive? In generale gli viene risposto che è indegno di seguire il Vangelo di Garfield. O si ricorre a un caro, vecchio “git gud”.
Su due piedi, verrebbe da dire che ci si trova davanti a un esempio di so bad, it’s good: così brutto da essere bello. E almeno per certe sue meccaniche è effettivamente così. La velocità dei kart di cui si è parlato sopra, in particolar modo, è ciò che finisce alla fine per rendere stimolante e divertente l’esperienza. Un elemento “rotto”, che dà però gusto al gioco.
L’importante è approcciarvisi con la consapevolezza di non trovarsi davanti al miglior racing game di sempre. Consapevolezza direi molto diffusa. Salvo qualche ingenuo passante, tutti riescono a leggere ciò che c’è dietro all’entusiasmo delle bizzarre recensioni presenti su Steam. A quel punto, immersi nel giusto spirito, è possibile godersi appieno l’esperienza di Garfield Kart – Furious Racing, magari finendo per entrare anche a far parte della sua peculiare community di appassionati. Presto o tardi, si scoprirà così quanto è sottile e poroso il confine tra trolling e vero apprezzamento.
Bisogna anche ricordare che il gioco nasce in un terreno fertile. Garfield è diventato un personaggio fortemente memetico e tutto ciò ha toccato anche i videogiochi. Basta vedere il caso di Bad Monday Simulator (ne ho parlato nel mio libro CTRL+V-ideogiochi. Storie di rifacimenti e parodie nel medium videoludico), una operazione fanmade che ricrea lo scontro con Sans di Undertale, mettendo però in campo Nermal e Garfield (o meglio, Sansfield).
Insomma, abbracciate anche voi Garfield Kart – Furious Racing. Non solo per il meme e for the lulz, ma perché potreste effettivamente divertirvi, più di quel che avreste pensato.
Date una possibilità al pacioccoso micione nemico del lunedì.
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