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Is It That Deep, Bro? Tre riflessioni

Recentemente ho giocato a Is It That Deep, Bro? di Moawling. Si tratta di una piccola avventura testuale, della durata di 5-10 minuti circa, liberamente giocabile e scaricabile su Itch.io.

Si gioca nei panni di un ragazzo che va al cinema con il suo amico Clay. Il cinema è deserto, ci sono solo loro due. E il film che viene proiettato parla dell’amore omoerotico tra due cowboy. Stanno sostanzialmente vedendo I segreti di Brokeback Mountain, insomma. Ma anche tra i due ragazzi in sala sembra esserci una certa tensione affettiva. Attraverso le nostre scelte e alcuni brevissimi minigiochi è possibile indirizzare questa tensione, negandola fino alla fine o seguendone il flusso.

Is It That Deep, Bro

Questo, in estrema sintesi, è il gioco, che valeva la pena riassumere almeno in termini molto generali, visto che non è proprio così noto, per usare un eufemismo. Spulciando in rete ho trovato un breve articolo su Gaymingmag, uno su Indie Hell Zone e non molto altro, ma segnalo che – almeno sui social – ho visto che ne avevano parlato anche le persone di Owof games. E, peraltro, la loro sottolineatura è stata probabilmente la più interessante che ho trovato, sul fatto che in questo gioco venga messa in risalto una forma di tensione sessuale (che è differente dall’atto sessuale) spesso rimossa dalle rappresentazioni mediali.

Detto ciò, non mi metterò qui a discutere di rappresentazioni queer e teorie di genere. Semplicemente perché è un settore che non ritengo di conoscere a sufficienza, e di improvvisati tuttologi ce ne sono già abbastanza in giro (anche intorno a questi temi), con conseguente pioggia di banalità e ‘pensierini’. Per cui, qui come altrove, evito di sconfinare in territori che io per primo dovrei approfondire a dovere e lascio il campo a chi ne sa più di me.

Desidero, invece, lanciare tre rapidi spunti di riflessione che mi sono venuti in mente giocando a Is It That Deep, Bro?, che non hanno (non primariamente, per lo meno) a che fare con la rappresentazione dei personaggi, ma con altre questioni. Sempre nell’ottica di arricchire i dibattiti con differenti angolazioni.

Il mondo perduto

Dopo i primi secondi di gioco, una domanda è subito balzata nella mia mente: “per quanto ancora sarà possibile?”.

La domanda era riferita al contesto in cui i due ragazzi si trovano: un cinema praticamente deserto, in cui proiettano un film ormai vecchio.

Qui viene subito richiamato un vasto e tradizionale immaginario, con la coppietta nel cinema vuoto, che si lascia trasportare dal film. È un immaginario condiviso, che qui viene semplicemente declinato in una tensione amorosa omosessuale.

Ma è anche un immaginario che sarà probabilmente sempre più vecchio. Ora, bisogna anche intendersi meglio a riguardo, perché non sto parlando della “morte del cinema”. Negli ultimi anni, a suon di “Netflix and chill” e amenità simili, c’è chi annuncia costantemente la scomparsa ormai prossima delle sale cinematografiche. Ma queste ultime, almeno prima del lockdown, avevano comunque mantenuto un buon potere attrattivo anche sulla generazione Z (rimando su questo al Rapporto cinema 2019 di cui peraltro sono stato uno dei curatori). Già lì, però, si parlava di una esperienza “festiva”, “extra-ordinaria”, l’uscita da fare con gli amici in qualche occasione particolare, magari il sabato sera.

Il lockdown, a sua volta, non ha ucciso le sale cinematografiche, ma ha sicuramente accelerato molti processi. E sembra confermarsi proprio questa immagine di una visione “elettiva” nella sala cinematografica, buona per determinati tempi e contesti. Non sarei stupito se, in futuro, la visione nelle sale cinematografiche fosse esclusivamente di due tipi, entrambi in forma differente legati a quella visione festiva che dicevo prima.

Da un lato un’esperienza di altissima qualità in concomitanza con un particolare evento filmico. Il modello dell’Arcadia di Melzo, insomma, per fare un esempio concreto. Altissima qualità audiovisiva, eventi speciali per il blockbusterone di turno ed eventuali raduni di cosplay come contorno. La sala cinematografica come “limited edition” dell’esperienza audiovisiva, insomma. Dall’altro lato il rito collettivo a bassa intensità del sabato sera al multisala: pizza o hamburger, poi visione di un film e poi eventuale proseguimento di serata altrove.

È ovviamente una semplificazione, ma non sarei affatto stupito se ci fosse questa evoluzione delle sale, con una loro iperspecializzazione su determinati pubblici e determinati film, lasciando al consumo domestico tutto il resto.

Ma questo significherebbe anche la sostanziale scomparsa di quell’immaginario della coppietta nel cinemino mezzo vuoto di periferia. A prescindere dal fatto che sia una coppietta omo o eterosessuale. Anche perché un imbarazzato avvio di pomiciata potrebbe non essere altrettanto agevole in una sala strapiena di marmocchi che lanciano pop corn e caramelle, oppure in un “tempio” silenzioso dove tutti i presenti trattengono il respiro per capire se l’impianto audio della sala gli permette di udire il fruscio dei peli nasali Tom Holland.

Ci si trova, insomma, davanti a un anticipo della nostalgia futura. A un qualcosa che tra qualche anno potrebbe essere visto come un residuo del passato. Qualcosa che sarà inserito nello Stranger Things del 2040, in cui evocheranno le atmosfere e le sensazioni dei primi anni 2000. Un po’ come sentire oggi l’inizio di Summer on a solitary beach di Battiato, quando dice «Passammo l’estate / su una spiaggia solitaria / e ci arrivava l’eco di un cinema all’aperto».

Il cambiamento

Mi è piaciuto il fatto che i protagonisti di Is It That Deep, Bro? siano due giovani ragazzi. Non saprei quantificarne precisamente l’età, e non mi sembra venga indicata da nessuna parte, ma dalla loro rappresentazione non appaiono certamente come “adulti”.

Questo perché, andando al fondo di quel che c’è alla base del gioco, volendolo universalizzare il più possibile, c’è la grande questione del cambiamento, che può essere accettato o meno. Nel caso specifico è un cambiamento sentimentale, che andrebbe presumibilmente anche a ridefinire l’identità del protagonista.

Lui, in quel cinema, davanti a quel film, sente di provare qualcosa per il suo amico Clay. È questo il vento del cambiamento che sfiora la sua vita. Può lasciarsi trasportare da esso o può resistervi. O meglio, siamo noi giocatori a deciderlo per lui. E noi giocatori potremmo essere degli adulti. L’adultità porta, in molti casi, una fossilizzazione dinnanzi alla prospettiva del cambiamento. Il che non vuol dire che non si facciano spesso cose differenti, ma le si vive sempre con un certo schema di lettura del mondo che abbiamo ormai sviluppato e consolidato. Per cui in realtà non ci si aspetta mai che qualcosa cambi davvero, e quando si apre questa possibilità si guarda da un’altra parte.

Magari un “adulto” di questo genere farebbe aprire il protagonista nei confronti di Clay. Ma sarebbe per via della distanza data dal personaggio, dal fatto che non si sta davvero operando sulla propria vita. O potrebbe anche esserlo per l’adesione a una certa visione delle cose.

Se, però, questo adulto fosse chiamato in prima persona a scegliere come comportarsi, di fronte a un cambiamento significativo?

D’altro canto, se è vero che un giovane può essere più propenso ad accogliere il cambiamento, c’è un altro potenziale problema che emerge in lui: saper discernere il desiderio del cambiamento dall’irrequietezza del vivere.

L’irrequietezza del vivere è quella che, per esempio, può spingere a viaggiare in continuazione senza vedere mai niente (nella distinzione tradizionale e specifica tra vedere e guardare), mossi dal desiderio dello spostamento in sé e da una “collezione” di luoghi. Come diceva John Ruskin, «gli uomini non hanno visto granché del mondo andando lenti, figuriamoci se vedranno di più andando veloci!». C’è di positivo, però, che l’irrequietezza del vivere può spingere verso il desiderio di cambiamento con maggior felicità rispetto all’immobilismo. Bisogna solo smettere di muoversi come trottole da un’esperienza all’altra (che, peraltro, è una differente e più sottile forma di immobilismo mentale, se ci si riflette a fondo) e avere la predisposizione d’animo al cambiamento.

È una leva potente ma anche molto spesso fraintesa. Anche perché, da quando la pubblicità si è diffusa, il “cambiamento” è stato utilizzato come leva di acquisto costante, andando però a diluirne in maniera estrema il senso profondo. Rimangono dei percorsi interessanti se si pesca nel vasto mondo del “guru marketing”, ma anche lì è una ricerca con il lanternino, di quali siano i percorsi che mirano effettivamente a questo, rispetto a quelli che vendono la facile promessa di un cambiamento.

Tornando a Is It That Deep, Bro? e al suo protagonista, comunque, è interessante la possibilità di accogliere o rifiutare questo cambiamento che, molto probabilmente, andrà a ridefinire l’identità di quella persona. È il motivo per cui, molto più in generale, i videogiochi sono interessanti, nel momento in cui propongono scelte significative. Le narrazioni lineari sono piene di scelte significative, sia chiaro, soprattutto quando le storie sono ben strutturate, ma in quel caso il personaggio prenderà sempre e comunque una determinata decisione, dopo un momento di incertezza. Qui, invece, le diverse possibilità sul piatto sono tutte quante selezionabili e percorribili. Un fattore scontato (ma neanche così tanto, alle volte) per chi gioca abitualmente ai videogiochi, ma che non lo è per nulla per chi ha avuto come unica esperienza interattiva Bandersnatch di Black Mirror o qualcosa di similare.

Tenero ma non troppo

Qui mi rifaccio in particolare alle citate parole di Owof Games, sulla percepibile tensione sessuale tra i due protagonisti.

È una dimensione interstiziale di grande rilievo, anche per la sua carenza nelle rappresentazioni mediali. È direi che è una carenza che non coinvolge solo il mondo queer. Anche le rappresentazioni eterosessuali – pur con, ovviamente, più eccezioni – sono molto polarizzate. Da un lato tutta la narrazione e la retorica di un amore asettico, ‘angelico’ e fisicamente distaccato. Dall’altro l’atto sessuale deromanticizzato. E non è una critica, sia chiaro. Va benissimo che ci siano simili rappresentazioni in quanto facenti parte della vita, ma talvolta sembra effettivamente mancare un certo equilibrio, anche nell’ottica dei modelli a cui attingere.

Si sono spesi fiumi d’inchiostro sul perché sarebbero “problematiche” le rappresentazioni in stile Disney dell’amore, in quanto fonte di irrealistiche aspettative. Come detto, non mi trovo d’accordo nel definirle un “problema”, ma per certo sono una visione parziale. Al polo opposto, tuttavia, è sempre più frequente anche chi definisce “problematico” il settore pornografico, non per un bigottismo di ritorno ma – nuovamente – per le irrealistiche aspettative che produce. In entrambi i casi, ci si crogiola e trastulla con qualcosa che difficilmente corrisponderà all’esperienza effettiva, perché non è così frequente avere a che fare con, da un lato, partner che sono principi e principesse e, dall’altro, partner che sono pornostar. A volte capita, ma non è certo la norma.

L’innamoramento è, invece, per molte persone quell’imbarazzato e al tempo stesso eccitante confronto in cui amore romantico e attrazione fisica vanno a mescolarsi, proiettando in vario modo la tua mente sul futuro. Una congiuntura che alcuni vedono sempre più “minacciata” da più fronti. La de-sessualizzazione da un lato. L’iper-sessualizzazione dall’altro. E, come ulteriore sfida, la costante diffusione delle app di dating, con la promessa di un match algoritmicamente corretto che, in una maniera ancora differente, vende come promessa la sicurezza, la possibilità di evitare quell’imbarazzo di cui si diceva poco sopra (ne ho parlato anche in un mio recente video).

Insomma, ben vengano i videogiochi (e non solo) che cercano di riproporre quel peculiare momento in cui due cuori e due corpi cercano di entrare in contatto, muovendosi in quel garbuglio di emozioni che stanno provando. Omo o etero. Senza principesse, senza pornostar e senza algoritmi.

Ranni di Elden Ring: la waifu della promessa

Questo articolo è dedicato a Ranni, la strega di Elden Ring, partendo da un articolo divulgativo uscito qualche giorno fa. Nella terza e ultima parte del contributo, però, ci si allontanerà parecchio da quel punto di partenza.

Le seguenti riflessioni nascono, all’origine, dalla lettura di un articolo pubblicato su «Vice»: How Is There Already So Much ‘Elden Ring’ Porn? We Asked the People Who Made It (Cole 2021).

Come intuibile dal titolo, l’articolo parla delle produzioni erotico-pornografiche legate ai personaggi di Elden Ring. All’interno di questa cerchia di personaggi, Ranni la strega sembrerebbe essere la favorita, sebbene non manchino altre erotizzazioni, magari legate a fandom e culture di gusto con una maggior specificità (Blaidd, per fare un esempio molto semplice e diretto, è un ottimo catalizzatore di interesse per il mondo furry).

Ranni di Elden Ring

I tre punti dell’articolo su cui vale la pena soffermarsi sono i seguenti:

  1. La questione temporale. Molti si sono lanciati nella produzione di contenuti erotici legati a Ranni in tempi rapidissimi per cavalcare l’onda del successo di Elden Ring. Non è un mistero, osservando le vendite, che questo videogioco sia riuscito a raggiungere nuovi pubblici, oltre a riattivare l’interesse degli storici fan dei “Souls”.
  2. I vuoti narrativi. Al pari della lore di Elden Ring (e dei precedenti videogiochi di FromSoftware), anche l’erotismo dei personaggi è un mondo che deve essere ermeneuticamente costruito dall’utente, partendo da frammenti sparsi. Questo lascia molta libertà creativa e consente una grande trasformatività.
  3. Il parallelismo con il caso di Lady Dimitrescu. La ‘vampirona’ di Resident Evil Village aveva visto una vastissima proliferazione di contenuti erotici e pornografici appena era apparsa in trailer. La sua, tuttavia, è una figura con una forte carica erotica, da dominatrice, per cui questo era un esito a suo modo naturale e prevedibile. Meno scontati erano – su questo torneremo più avanti – altri recuperi trasformativi del personaggio. Ranni, Melina e compagne, invece, non sono state presentate in questo modo.

L’articolo di «Vice» non va molto in profondità, ma questi spunti sono di particolare interesse ed è utile partire da qui per sviluppare una riflessione sul ‘riuso’ erotico (e non solo) della strega Ranni.

L’obiettivo è quello di avanzare alcune ipotesi sul perché una simile figura abbia attirato così tanto interesse. Il ricorso alla cosiddetta rule 34 (secondo cui se qualcosa esiste allora esiste anche un contenuto pornografico su di essa) non è una spiegazione sufficiente. Se è vero che potenzialmente tutti i personaggi finzionali sono ridisegnati e riproposti in contesti erotici (di stampo ‘classico’ o legati a particolari feticismi), lo specifico interessamento verso determinate figure apre a molti stimolanti interrogativi.

Il porno ‘a scadenza’

Il primo punto del discorso non riguarda Ranni nello specifico. È piuttosto una constatazione sullo stato attuale del panorama mediale. È un panorama martoriato da un devastante capitalismo cronofagico (Mazzocco 2019), in cui risulta molto difficile potersi soffermare a lungo su un determinato prodotto o una determinata esperienza mediale. Travolti dal perenne vortice dei consumi, bisogna sempre spostarsi sul trend successivo. Il fatto curioso che ho notato, nel tempo, è che questa espressione del modello capitalistico – forse una delle più subdole – sia anche tra le più sottovalutate e persino giustificate da parte di persone che, in tutti gli altri contesti, ostentano con orgoglio strenue pratiche di resistenza al capitalismo. Forse perché la FOMO (Fear Of Missing Out), seppur inquietante e inquieta, ha anche un carattere consolatorio, per cui si fa fatica ad abbandonarla, o anche solo a desiderare di opporsi a essa.

Questo perché la FOMO – o meglio, i meccanismi che la alimentano – ha un legame con la gratificazione istantanea. Guardare i social, ricondividere quello di cui tutti parlano, lasciarsi trasportare dall’algoritmo di Netflix in un turbinio di serie tv che tante altre persone stanno guardando…

Sono tutte attività con una gratificazione immediata. Si parla del qui-e-ora. Sempre e comunque. E appena è trascorso, diviene un qualcosa di vecchio, da cui siamo autorizzati a staccare l’attenzione per poterci concentrare sulla nuova serie tv, sul nuovo film, sul nuovo videogioco di cui tutti parlano.

Di studi accademici sulla FOMO ne esistono moltissimi. Mi limito qui a riportare una recente systematic review sull’argomento (Tandon, Dhir, Almugren, AlNemer e Mäntymäki 2021), in cui è possibile trovare una sintesi ragionata di quanto la letteratura accademica ha fatto emergere.

Sottolineo anche che, sebbene la FOMO sia primariamente legata – e non in termini positivi – all’impiego costante dei social media (Rozgonjuk, Sindermann, Elhai e Montag 2020), il suo impatto ha chiaramente un riflesso anche sui consumi. Se si parla ovunque della serie tv/film/videogioco/ecc. del momento, sui social, io rimango tagliato fuori, a meno che non decida di fruire nei (sempre più ristretti) tempi indicati di quel prodotto, così da poterne parlare.

Inutile sottolineare come questo ricambio costante sia, da un lato, il perfetto strumento di asservimento ai ben oliati ingranaggi del consumismo capitalistico e, dall’altro, risulti un temibile avversario della libertà di pensiero critico. Le persone preoccupate da questo fenomeno dovrebbero accogliere con gioia le occasioni in cui un prodotto riesce a provare una maggiore resistenza discorsiva rispetto a quella brevissima finestra di interesse a cui è destinato. Eppure, con una acredine che trovo paradossale, in quei casi emergono le lamentele. È successo anche con lo stesso Elden Ring, ritenuto da molti ‘colpevole’ per aver mantenuto ferma su di sé per troppo tempo l’attenzione degli appassionati, catalizzandone la produttività discorsiva.

E anche i contenuti erotici fanmade non sono esenti da simili dinamiche, stando a quel che emerge dal sopra citato articolo (Cole 2021), per i creatori di questi contenuti è stata una corsa contro il tempo: che senso avrebbe avuto, altrimenti, condividere le loro animazioni porno su Ranni, se Elden Ring fosse uscito dalla discorsività attuale?

Alcune considerazioni. La prima è che, prescindendo dal singolo caso, il legame del porno con la FOMO, i social media ecc. è più diretto di quel che si potrebbe pensare. Anche il porno è una forma di gratificazione istantanea, basata sulla disponibilità immediata, sull’essere a-portata-di-mano. Anche il porno può generare facilmente aspettative falsate su di sé e sul proprio corpo, derivanti da un impietoso confronto, molto simile a quello dell’esposizione costante a migliaia di immagini di modelli/e su Instagram e altri social, spesso filtrate, modificate o perlomeno accuratamente selezionate (mi limito a segnalare una fonte recente tra le moltissime presenti in merito: Barton 2021).

Una nota a margine: è chiaro che ci sia anche la pornografia amatoriale, oltre a quella fuori dall’ordinario e mitizzata dei pornoattori, ma non rappresenta una particolare alternativa, in quest’ottica dei modelli, né tantomeno della sua disponibilità immediata. Soprattutto considerando i sempre più porosi e difficilmente identificabili confini tra i “pro” e gli “amatori” del settore (Hofer 2014).

La seconda considerazione è che, spesso, nei discorsi sul capitalismo cronofagico, la pornografia (anche quella fanmade sulle waifu finzionali) è il convitato di pietra della situazione. Sempre ben presente, ma che nessuno osa nominare.

La terza considerazione, infine, è che non condivido il fatalismo dell’articolo sulla fine dell’interesse per i contenuti erotici a tema Elden Ring. Come prova del suo discorso, l’autrice (Cole 2021) cita il caso di Alcina Dimitrescu, ma in realtà la ‘vampirona’ di Resident Evil Village è proprio un esempio contrario alla sua tesi. A distanza di tempo, infatti, lady Dimitrescu rimane un personaggio piuttosto vitale, in termini di produttività fanmade, a sfondo erotico e non (su questo si tornerà più avanti). Il suo caso, insomma, è il perfetto esempio di come esista una “coda lunga” (sullo stile del noto modello di Chris Anderson: 2004) anche per i contenuti erotici fanmade.

Non mancano inoltre casi di (ri)attivazione tardiva di interesse, come si è visto lo scorso anno con l’esempio della cosiddetta Ankha Zone (l’animazione fanmade del rapporto sessuale tra Ankha e Abitante sulle note di Camel by Camel), realizzata mesi dopo l’uscita di Animal Crossing: New Horizons (2020) e divenuta virale ancor più tardi (Adam 2021).

Personaggi performativi

Riporto un significativo passaggio dell’articolo di «Vice»:
«Several of the artists I talked to brought up the popularity of Lady Dimitrescu erotica from Resident Evil Village in January as a comparison, much of which came out before the game was even released. But one could argue that Capcom knew exactly what it was doing when it created a giantess who physically and verbally dominates and steps on you; compare this to Elden Ring, where characters are more grotesque than horny, and fans are left to fill in the blanks with their own imaginations. Much like the gameplay, getting boned up for Elden Ring is a beautiful but open-ended mystery, made possible with collaboration» (Cole 2021).

È solo un passaggio, ma contiene sottotraccia due elementi molto importanti, che ho isolato precedentemente nei punti 2) e 3) citati in apertura: il confronto con il caso di Alcina Dimitrescu e l’importanza di questi vuoti narrativi da riempire.

Qualche mese fa ho iniziato a ragionare sul maggiore o minor grado di performatività di determinati personaggi videoludici nei recuperi fanmade. L’ho fatto partendo da due contributi sul mio sito (Toniolo 2021a e 2021b), dedicati a due personaggi che sono stati molto chiacchierati, nell’ultimo anno: la già citata Alcina Dimitrescu di Resident Evil Village e Aloy di Horizon Zero Dawn e Horizon Forbidden West. Tra parentesi, è anche mia intenzione dare poi uno sviluppo più sistematico e accademico a queste riflessioni, in un’altra sede. Qui mi limito a richiamare velocemente alcuni aspetti.

Ho usato la metafora del marmo e dell’argilla, per parlare del differente trattamento di personaggi come loro da parte della community. Aloy è come il marmo: materia nobile, da ammirare, da ‘statuizzare’, ma anche molto poco malleabile. La stragrande maggioranza dei contenuti su un personaggio con le sue caratteristiche sono celebrativi e non trasformativi: che si tratti di fanart, di storie o altro, è sempre la Aloy originaria, celebrata ed esaltata nelle sue qualità di eroina senza macchia e senza paura.

Personaggi come Alcina Dimitrescu (ma il discorso si applica perfettamente anche agli altri tre Lord di Resident Evil Village) sono invece estremamente malleabili, nelle loro rappresentazioni fanmade. Alcina può apparire come una sadica gigantessa cannibale (per cui nella sua versione originaria), ma anche come una madre affettuosa, come un’icona LGBTQI+, come una litigiosa ‘sorellona’ sempre in contrasto con Karl Heisenberg, come una cantante, come una diva del passato e molto altro ancora.

Osservare solo i – pur numerosissimi – contenuti erotici fanmade su Alcina è pertanto uno sguardo limitato e limitante. Essi rappresentano solo una parte del portato trasformativo di un personaggio come questo, che appare facilmente plasmabile in vario modo, al pari dell’argilla.

Se la differenza riguardasse solo la componente erotica, la distinzione sarebbe tanto immediata quanto ovvia, ma la questione è molto più complessa e stratificata. La carenza (non è comunque una completa assenza) di contenuti erotici su Aloy è solo in parte legata al suo essere un personaggio meno sessualizzato di altre icone videoludiche. Ridurre il tutto a questo fattore sarebbe una lettura piuttosto epidermica, persino ingenua, del fenomeno. Diversi siti traboccano di fanart che erotizzano personaggi anche molto meno sensuali di Aloy, se servisse in tal senso fare la prova del nove. E, al tempo stesso, Aloy performa poco e male in termini trasformativi anche al di fuori delle produzioni erotico-pornografiche.

È, semmai, una questione di aperture potenziali, simili al concetto dei varchi narrativi (Cajelli e Toniolo 2018) sfruttabili per ampliare una storia in un contesto crossmediale. La costruzione narrativa dei quattro Lord di Resident Evil Village è fatta di tanti tasselli informativi spesso appena accennati, ma che aprono numerose porte sui loro possibili sviluppi.

E, arrivati a questo punto del discorso, si sarà intuito come l’impalcatura narrativa di Elden Ring sia un terreno potenzialmente molto fertile, da questo punto di vista. Tutti i “Souls” lo sono, del resto. Volendo ricordare una espressione di Vaatividya che riassume molto bene il concetto, «Dark Souls gives you resources that you can interpret in a multitude of ways» (citato in Macdonald e Killingsworth 2016, p. 81). L’argomento è stato approfondito in vario modo da numerose pubblicazioni nel corso del tempo (tra cui l’appena citato Macdonald e Killingsworth 2016; Ascher 2015; Schniz 2016; Mecheri e Romieu 2017; Hoedt 2019 e molti altri) e la stessa attività di creatori di contenuti come Vaatividya e Sabaku no Maiku ne rappresentano una prova concreta.

In perfetto stile ‘soulsiano’, insomma, Ranni la strega è un prisma di possibilità appena accennate, tutte da sviluppare. È una guida e aiutante, una divinità da venerare, una compagna di vita da amare, una creatura indifesa da difendere, una creatura potentissima da cui farsi difendere, una strega, un’entità incorporea, una cospiratrice…

Si possono immaginare moltissimi contesti differenti legati a Ranni. Anche solo stando ancorati alla lore di Elden Ring, le interpretazioni sono molteplici in merito al suo operato. Un fattore molto interessante dei “Souls”, Elden Ring compreso, è proprio la negoziabilità dei punti di vista. Emergono segreti su segreti, posizioni divergenti e contrastanti, ma in ultima analisi è difficile identificare con assoluta certezza quale possa essere la “verità”, quale sia il “migliore dei mondi possibili” tra quelli desiderati e immaginati dai diversi personaggi. Già da questo punto di vista, pertanto, la vicenda di Ranni, la sua missione, è leggibile in vario modo.

E questa molteplicità può ovviamente solo crescere esponenzialmente nel momento in cui si esce dal canone in senso stretto. Quando si iniziano a riempire quei vuoti narrativi non solo con altre tessere di quel mosaico composto dalle informazioni fornite nel gioco, ma con la propria immaginazione. Ma anche allontanandosi dal canone, la figura di Ranni risulta perfettamente adattabile a un gran numero di contesti differenti.

È un potenziale che al momento si è sviluppato – almeno osservando i diversi contenuti fanmade su vari siti – lungo determinate tipologie di percorsi. Ho visto, per esempio, diverse rappresentazioni di Ranni nei panni di una ragazza contemporanea, intenta a giocare al computer mentre sgranocchia patatine e coccola Blaidd. E poi c’è il filone erotico/pornografico di cui si è già detto in precedenza, spacchettabile nelle sue versioni vanilla e nei vari feticismi più o meno ricorrenti in casi del genere.

La natura non umana di Ranni, e in particolare le sue quattro braccia, rafforzano questa trasformatività performativa, in contesti erotici e non solo. È un discorso che ho già fatto a proposito di Alcina Dimitrescu (Toniolo 2021a), su come i corpi parzialmente umani delle varie monster girls offrano un ampio panorama esplorativo di interazioni performative, sia nelle rappresentazioni della quotidianità, sia nel mostrare atti sessuali altrimenti impossibili. Evito quindi di ripetere nuovamente il tutto, rimando a quell’articolo, a un altro mio contributo accademico in merito (Caselli e Toniolo 2021) e alla bibliografia lì riportata per approfondimenti.

La promessa e il futuro

L’aspetto probabilmente più interessante, legato al personaggio di Ranni e al suo ‘riuso’, esce al di fuori del perimetro da cui si è partiti con l’articolo iniziale. E tutto ciò avviene con la constatazione che, in questo universo di rappresentazioni di Ranni, ci sia molto erotismo, ma anche molto romanticismo.

Su questo elemento, i parallelismi con il caso di Alcina Dimitrescu vengono meno. Non che siano mancate storie romantiche legate alla ‘vampirona’, sia chiaro, ma sono contenuti minoritari. Con Ranni, invece, molti contenuti fanmade sembrano rispondere al desiderio di una avventura romantica, di cui la strega blu è una candidata perfetta.

Ranni è, in primo luogo, di bell’aspetto e, pur non essendo umana, ha una struttura fisica assolutamente compatibile con la piacevolezza umana. Come è stato sottolineato osservando videogiochi che, a differenza di Elden Ring, prevedono delle effettive romance all’interno del gioco, il pubblico maschile tende sì ad apprezzare la componente sentimentale, ma non rinuncia all’estetica della partner virtuale che hanno scelto (Tomlinson 2019). Un esempio che viene portato è quello delle Asari di Mass Effect, le avvenenti aliene dalla pelle blu/azzurra (proprio come Ranni, per inciso) che popolano questa trilogia e che sono state al centro di più di uno studio (come Zekany 2016 e Lucas 2016).

Ma la quest di Ranni è anche, all’interno di Elden Ring, ciò che più si avvicina a una effettiva romance. Il matrimonio con Ranni, sebbene abbia primariamente una funzione simbolica, costituisce comunque la promessa di una vita – per non dire un’eternità – da poter trascorrere insieme alla propria consorte. Certo, gli sviluppi sono in larga parte lasciati al di fuori del gioco, in quei varchi narrativi potenzialmente esplorabili, ma è proprio questo a rendere stimolante il tutto.

Si torna, insomma, alla questione della performatività. Affiancata da questo termine, promessa, che è stato poco fa introdotto. Voglio riportare, in merito alla questione, le seguenti parole: «il performativo consiste nel promettere (sotto-genere euforico) o nello smentire una promessa attesa (sotto-genere disforico). Se questa ipotesi non è troppo forte, si può dire che il performativo – compresi i giuramenti, le dichiarazioni, gli auguri, le confessioni ecc. – ruota invariabilmente intorno alla promessa, alla sua presenza o assenza» (Brandt 1992, p. 6). Provengono dal testo Per una semiotica della promessa. Il senso con cui, in quel testo, si parla di “performativo” è diverso rispetto al discorso qui riportato, ma la nozione è estendibile.

Ranni è la waifu della promessa – come ho voluto intitolare questo articolo – perché siamo duplicemente legati a lei in tal senso.

Lo siamo, all’interno della storia di Elden Ring, da quella sorta di patto, di contratto, che possiamo stipulare con lei.

Ma lo siamo soprattutto perché il suo essere un personaggio performativo – nel senso sopra indicato – lascia aperta la grande promessa di tutti gli sviluppi futuri che possiamo immaginare per lei.

Nell’intreccio di queste due promesse, ciò che emerge maggiormente è l’idea di fedeltà. Il personaggio di Ranni emerge, nella sua quest, sempre legato a questo concetto. Blaidd e Iji si dichiarano più volte suoi fedelissimi servitori. E anche noi siamo chiamati ad aggiungerci a questa cerchia, in una fedeltà che è inizialmente di vassallaggio, di servitium militare. Ma a questo può poi subentrare – se rimaniamo fedeli a Ranni, se non le voltiamo le spalle – anche un servitium amoris: un rapporto sbilanciato, probabilmente, in cui lei è la domina e noi i suoi servitori, ma in cui pure ci promette idealmente una fedeltà eterna.

Riporto, a tal proposito, le parole del filosofo Alain Badiou sulla fedeltà in amore: «In love, fidelity signifies this extended victory: the randomness of an encounter defeated day after day through the invention of what will endure, through the birth of a world» (Badiou 2012, pp. 45-46). Il senso della promessa torna molto forte: sto idealmente promettendo che, dalla casualità di un incontro, nascerà un costante rinnovamento di comunione reciproca.

E, verrebbe da aggiungere, cosa c’è di più casuale e fortuito degli incontri di Elden Ring? Quanti, senza delle indicazioni precise, sarebbero in grado al primo tentativo di portare a termine con precisione tutte le quest dei vari personaggi?

Prescindendo dalla questione dell’incontro, questa promessa torna a colpirci. Per avviarmi verso le conclusioni, vorrei citare il seguente passaggio: «la postmodernità, pur insieme a un preoccupante ritorno dell’egocentrismo e del narcisismo, va custodendo, se non enfatizzando, il bisogno di tenerezza e intimità, di dolcezza e felicità e dunque va reclamando la necessità di depotenziare la “durezza del cuore” e di promuovere un sentire intenerito» (Rossi 2006, p. 245).

Anche quando ci muoviamo nei finzionali mondi virtuali, possiamo inciampare in questo bisogno in qualsiasi momento, davanti a una promessa.

Possiamo essere attratti, giocando a Mass Effect, da Liara T’Soni perché, sì, è un’aliena, ma con caratteristiche di gradevolezza assolutamente umane. Per poi trovarci a farle dire dal/la nostro/a Shepard che tutto ciò che desideriamo dal futuro è «marriage, old age, and a lot of little blue children».

Possiamo stringere un oscuro e bizzarro patto con Ranni e augurarci che il nostro personaggio possa essere felice e contento per sempre. Che è proprio la formula di chiusura di tante fiabe.

Immersi nel vasto mare dell’erotismo, ogni tanto ci si schianta contro uno scoglio di sentimenti.

Possiamo persino giocare a un videogioco come HuniePop e desiderare che, al di là dei rapporti sessuali con tutte le donne del gioco, ci sia la possibilità di sviluppare un legame più intimamente romantico.

Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

Bibliografia

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Sirene, canneti e ginestre: un pizzico di Leopardi in una canzone di Fable II

Coloro che hanno giocato a Fable II probabilmente ricorderanno la canzone Down by the Reeds. In italiano Dietro alle canne. È il motivetto che canticchia Hannah/Hammer la prima volta che la incontrate. Inizia così: «Down by the reeds / Down by the reeds / Swim the sirens of Oakvale / Out to the seas».

È un pezzo sufficiente per impostare l’indagine del presente articolo, legata al fatto che Down by the Reeds è duplicemente legata alla poetica e al pensiero filosofico di Giacomo Leopardi.

Sirene, canneti e ginestre in Fable 2

Due premesse, prima di tutto, su queste sirens che vengono citate. In italiano si perde un po’ la distinzione fra mermaid e siren, visto che il termine “sirena” va bene per entrambi, ma si parla di creature differenti. Le mermaids sono le sirene dei miti nordici, misteriose e sfuggenti, ma in generale piuttosto pacifiche.

Le sirens sono le sirene mediterranee, del mondo greco, come quelle che cercarono di irretire Ulisse. Creature ammaliatrici e antropofaghe, molto pericolose. E infatti, se cercate una traduzione inglese dell’Odissea troverete le sirens, mentre la nota fiaba di Andersen è intitolata The Little Mermaid.

La scelta terminologica in Fable II suggerisce pertanto l’idea di trovarsi davanti a creature molto pericolose. Suggerisce, appunto, e questa è la seconda premessa, perché in Fable II non c’è nessuna sirena. Queste creature vengono nominate nella canzone di Hammer e in poche altre occasioni, ma non rientrano nel bestiario di mostruosità affrontabili durante l’avventura. Le sirens sono un contenuto tagliato. Una di quelle tante idee abbozzate – e infatti se ne trova traccia fra i concept art dell’artbook – che vengono poi messe da parte, strada facendo, per varie ragioni.

Eppure è incredibile constatare quanto simili contenuti siano importanti, nel prodotto finale, anche quando ne sono assenti. Sono come le sinopie della pittura a fresco. Lasciano una traccia sottopelle che è di estremo interesse, perché in molti casi non scompaiono semplicemente nel nulla, ma influenzano i contenuti rimanenti. Se – giusto per fare un esempio – il Forte Ferreo di Dark Souls II somiglia più a una fornace che a una fortezza è proprio perché, inizialmente, era concepito come tale.

Tornando alla canzone di Sorella Hammer, essa si conclude così: «Nobody knows. / Nobody sees. / The sirens of Oakvale. / Down by the reeds». E uscendo dalla finzione videoludica la canzone è estremamente precisa. Nessun giocatore può dire di aver visto le sirene di Oakvale, considerando che nel gioco non sono presenti.

Però può immaginarle. Anche qui, è importante sottolineare dove la canzone stia collocando queste sirene: dietro alle canne, per citare la versione italiana. Quindi ci sono delle sirene, che però nessuno ha visto, occultate da delle canne, ma al tempo stesso queste canne sono l’unica cosa che consente di tener traccia delle misteriose sirene. Se Hammer non nominasse le canne che impediscono di vederle, nessuno saprebbe che quelle sirene esistono, nel mondo di Fable.

In questo canneto c’è tutta la duplicità semantica dello “schermo”, intendibile sia come un qualcosa che occulta e nasconde (la dantesca donna dello schermo, schermarsi, ecc.) ma al tempo stesso mostra e rivela (lo schermo del televisore). Non vediamo le sirene a causa del canneto, ma grazie al canneto immaginiamo le sirene.

Giunti a questo punto, le reminiscenze scolastiche potrebbero aver già suggerito il primo legame con Leopardi, ma lo si può rendere esplicito citando un breve passo di Filosofia-schermi (Cortina, 2016) di Mauro Carbone, da un capitolo emblematicamente intitolato Delimitare per eccedere: «Questa siepe impedisce al “guardo” del poeta di vedere gran parte del paesaggio che si apre oltre il colle. Tuttavia, quando si siede e contempla (“mirando”) la siepe, egli è in grado di immaginare “interminati / Spazi di là da quella e sovrumani / Silenzi e profondissima quiete”» (pp. 107-108). Carbone sta parlando della ben nota siepe presente ne L’infinito di Giacomo Leopardi, e lo fa in termini di schermo, legato tanto alla visione (ostacolata) quanto all’immaginazione (sollecitata).

La siepe è uno schermo che mostra e rivela, così come il canneto della canzone di Hammer. Oltre la siepe ci sono i “silenzi”, e questa parola «nell’opera leopardiana è inequivocabilmente legata alla sfera della morte» (T. Tarani, Il velo e la morte. Saggio su Leopardi, Editrice Fiorentina, 2011 p. 241). Così come sono inequivocabilmente legate alla morte le sirens. Ora, verrebbe da aggiungere che le sirens, perlomeno quelle omeriche, siano anche ben note per il loro canto, il che contrasterebbe con questi silenzi dell’Infinito. Eppure qui c’è tutto il silenzio che si esprime nell’assenza di questo canto, poiché – come si è detto più volte – le sirens non si trovano da nessuna parte, in Fable II.

Se «per poco / il cor non si spaura» a Leopardi, nell’immensità dell’infinito, potrebbe essere per questo rinvio alla morte. O al nulla, a seconda di quali interpretazioni si vogliano seguire. L’infinito è al tempo stesso tutto e nulla. È l’infinitezza delle possibilità, ma proprio perché possibili e non concretizzate esse non esistono. Ma questo tutto-nulla ha un legame con l’esistente, il sensibile e il vicino. È ancora una volta L’Infinito a costruirlo, tramite i dimostrativi “questo” e “quello”: «E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando» (vv. 8-11. I corsivi sono miei).

La voce del vento fra le piante (vicine, percepibili) si lega all’infinito silenzio (lontano, immaginabile). Il vento porta i pensieri verso il silenzio infinito. Così, allo stesso modo, la canzone di Hammer (vicina, percepibile) si lega al misterioso canto di queste sirens (lontane, immaginabili).

Si è giunti fin qui mettendo da parte un altro termine della canzone, che apre la strada al secondo parallelismo con Giacomo Leopardi: Oakvale.

Nel primo Fable, Oakvale è un paesello di Albion. Il paesello in cui inizia l’avventura dell’eroe, per essere più precisi. È un luogo importante, a suo modo. Lo è perlomeno in termini nostalgici, per chi ha giocato al primo Fable e lo ricorda con affetto.

In Fable II, in compenso, non c’è più nessuna Oakvale. La cittadina è stata distrutta e ora, al suo posto, ci sono solo paludi. La regione nota come Wraithmarsh è ciò che rimane di Oakvale e dintorni: un immenso e pericolosissimo acquitrino infestato da mostruosità di ogni genere. Fra cui qualche sirena, molto probabilmente, se solo fosse stata inserita nel gioco per far compagnia a balverini, banshee e troll.

Lo scarto fra i due periodi temporali è considerevole, specialmente all’occhio del giocatore, che ha potuto osservare nei due differenti videogiochi cosa è successo a distanza di secoli in uno stesso luogo, della cui antica bellezza non rimane traccia alcuna.

Anche in questo caso, è possibile che qualche ricordo scolastico si sia già attivato, e la mente sia corsa ai versi de La ginestra, quando Leopardi descrive le pendici del Vesuvio. Un paesaggio brullo, desolato, sterile, a malapena rallegrato dalle ginestre. Eppure, come ricorda in poeta, nel passato quei luoghi traboccavano di vita. Città (Ercolano, Pompei, Stabia), campi, giardini, tutto annientato in un istante dalla furia del vulcano: «di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina, infusa / di bollenti ruscelli» (vv. 215-217).

Nel componimento, Leopardi invita idealmente il suo secolo a osservare la devastazione causata dal Vesuvio: «Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco» (vv. 52-53). Questo è un punto interessante, nel confronto con Fable II. Leopardi critica il pensiero ottocentesco, colpevole di aver abbandonato la ragione per rituffare gli esseri umani nelle illusioni, quando bisognerebbe invece ricordare loro la verità, su quanto la loro esistenza sia fragile e precaria, e i loro progressi inutili.

Ma Fable II non è ottocentesco o romantico. Potrebbe forse esserlo, almeno in parte, Fable III (o forse no, sarebbe un discorso da sviluppare in separata sede), ma non il secondo episodio. Però è un videogioco fiducioso nel progresso, come lo sarà ancor più il terzo episodio.

Il progresso, in Fable, erode tanto il soprannaturale quanto l’epica, man mano che si sviluppa. Se il primo Fable contiene la parodia del fantasy eroico, Fable II ne costituisce per molti aspetti la negazione. Fino a proporre un boss finale che si sconfigge in un istante, senza fatica. La morte del personaggio, poi, ha ben pochi effetti collaterali, e il gioco scorre liscio senza particolari difficoltà.

Una passeggiata in un mondo in trasformazione, nel quale ancora permangono i rimasugli del ‘vecchiume’ soprannaturale che sta via via lasciando spazio al progresso. O, almeno, questo è ciò che credono i “superbi e sciocchi”, coloro che si lasciano ottenebrare dalla fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» (v. 51) che citava ironicamente Leopardi.

È sufficiente un attimo di distrazione perché il soprannaturale, un po’ come la Natura matrigna, si riprenda tutto quanto e spazzi via qualsivoglia progresso. I resti di Oakvale ne sono la prova. E quel che Hammer sta allora cantando è un monito. Le potenze occulte e le forze della natura, spaventose e temibili, restano lì in agguato, dietro alle canne, anche quando il progresso tecnologico (o, più prosaicamente, un taglio nei contenuti previsti per il videogioco) le rimuove dalla nostra vista.

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