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Dall’avatar al loa: un’alternativa in chiave voodoo ai simulacri videoludici

Come noto, il termine avatar è abitualmente utilizzato nei videogiochi per descrivere le nostre protesi digitali, i simulacri di cui noi assumiamo il controllo per la durata dell’esperienza ludica. Avatar è un termine che è stato “preso in prestito” dall’induismo, in cui indica la discesa di una divinità sulla terra. È un termine certamente sensato, per descrivere l’esperienza videoludica, e su cui di quando in quando si torna a riflettere (per esempio Papale e Fazio 2018).

Non è però l’unico possibile. Sarebbe possibile prendere il lessico di un’altra tradizione religiosa e utilizzarla per descrivere questo rapporto tra giocatori e personaggi, da una differente prospettiva? È quanto si farà di seguito con il voodoo.

NOTA: quanto scritto qui di seguito è una parziale rielaborazione di un contributo che scrissi qualche anno fa, lasciandolo poi nel cassetto virtuale del computer. Oggi lo strutturerei diversamente e non escludo – nel futuro – di recuperare questi concetti in maniera più ordinata e robusta. Mi sembrava però che potesse comunque essere interessante, per cui – in attesa di eventuali sviluppi futuri – lo condivido qui. Mi sono giusto limitato a una ripulita generale del testo.

Tra i vari contenuti che vorrei approfondire in futuro c’è anche la possibilità di uno “spin-off” per la storia dei videogiochi horror che sto portando avanti qui sul sito, in cui parlare delle rappresentazioni voodoo nei videogiochi. Anche in vista di questa possibilità, dunque, pubblicare questo articolo può essere l’avvio di un discorso.

i simboli di due loa del voodoo

Breve definizione terminologica

Il voodoo, con tutte le sue grafie e varianti, è un termine problematico, sia per l’assommarsi di tradizioni e immagini non sempre pertinenti – se non del tutto fuorvianti – intorno al concetto, sia per l’ampiezza del termine, nei cui confini rientrano numerose e differenti entità, anche a seconda della tradizione considerata. I dizionari, e particolarmente quelli dedicati alla storia delle religioni, forniscono la cornice per un primo inquadramento:

«Vodu, vodun, voodoo sono varianti di trascrizione del termine africano, con il quale, nelle lingue fon[1], nel Dahomey e nel Togo, si designa un dio, uno spirito, un oggetto carico di potere numinoso. Il termine è servito a indicare la religione popolare dell’isola di Haiti […]. Nella sua origine e nelle sue attuali condizioni, il Voodoo è religione ‘popolare’, nel senso che è respinta dalle classi cd. colte o intermedie» (di Nola 1976, corsivo dell’autore)[2].

Si riscontrano qui almeno tre punti di interesse immediato. In primo luogo la trascrizione dell’originario termine fon presenta numerose variazioni, anche superiori a quelle riportate nella voce enciclopedica; si segnalano almeno vaudou, woodoo e vodhun. Secondariamente è possibile constatare la polisemia del termine, in quanto esso indica almeno tre differenti concetti, pur relativamente vicini fra loro: dio, spirito, oggetto; ma viene anche utilizzato per indicare – in maniera più o meno appropriata a seconda del caso – un luogo, una religione, una pratica magica ed altro ancora. Infine emergono due delle principali aree geografiche cui è legato il culto: l’Africa occidentale fra Ghana e Benin da un lato, l’isola di Haiti dall’altro.

Oltre a questa complessa struttura bisogna inoltre considerare le ‘sovrastrutture’[3] che nel corso degli anni si sono sviluppate nei media e nei discorsi, trasmettendo una immagine spesso distorta, oscura o riduttiva del voodoo. L’utilizzo stesso dei termini è dunque parzialmente compromesso da una lunga tradizione in cui il culto è unicamente associato «a un immaginario da film dell’orrore, fatto di magia nera, streghe, zombi e fantasmi e che ha trovato uno sbocco commerciale in un mercato affascinato dal gotico, dall’esoterico, dal dark e dall’horror» (Brivio 2012, p. 41).

Alla costruzione di questo immaginario hanno contribuito numerose opere letterarie, cinematografiche[4] e, negli ultimi anni, anche videoludiche. Per questo motivo si è qui scelto di utilizzare, un po’ provocatoriamente, il termine voodoo, proprio perché è la variante – fra le molte possibili – più compromessa rispetto a questo immaginario di bamboline e morti viventi, che costituiscono la categoria di recuperi più diffusi nei videogiochi. Verrà inoltre considerata principalmente, sebbene non esclusivamente, la tradizione voodoo di Haiti, per la stessa ragione.

Detto questo, occorre fornire almeno alcune indicazioni di carattere generale sulla religione voodoo, per rendere comprensibile quanto si dirà in seguito.

Il pantheon voodoo e le pratiche rituali a esso collegate costituiscono una materia multiforme, che presenta differenze considerevoli non solo fra il culto haitiano e quello africano, ma, ad esempio, anche all’interno della stessa Haiti. Una breve presentazione dell’argomento non può pertanto far altro che offrire alcune indicazioni generali. La struttura del culto poggia su quella che Maya Deren ha definito una Trinità, composta da Morti, Misteri e Marassa (Deren 1997, pp. 30-65). Questi ultimi sono i Gemelli Divini, e anche per i bambini gemelli di qualche famiglia sono previste determinate attenzioni rituali. Il culto dei morti invece, pur con le sue particolarità, si spiega da solo (si veda Métraux 1971, pp. 243-265).

I “Misteri” infine sono i loa, definiti spesso anche “spiriti”, “genî” e, in determinati contesti e territori, anche “santi” o “angeli”. Improprio invece definire i loa delle divinità, sebbene alcuni di loro derivino effettivamente da alcuni déi africani. Essi sono piuttosto gli intermediari fra un dio, unico, distante e disinteressato – Mawu-Lisa dell’Africa occidentale o il Bondyé haitiano (Thayer 2009), versione del Dio cristiano che assume la valenza del fato e del destino – e il mondo dei mortali.

Similmente, non è appropriato definire i loa “diavoli” o spiriti infernali, come è stato fatto in più occasioni dal clero haitiano, e come una loro rappresentazione in chiave oscura e diabolica continua a veicolare. I loa non sono malvagi, per quanto spesso appaiano permalosi e intrattabili. Anche i più “oscuri” fra loro (quelli che rientrano nella famiglia petro), che si prestano a essere invocati in rituali di magia nera, rivelano spesso anche una valenza positiva in altri contesti[5].

Esistono alcuni loa principali largamente conosciuti e adorati – e molti di questi si presentano anche in più ‘versioni’ differenti, sia all’interno di una stessa famiglia loa sia tramite controparti positive e negative di uno stesso archetipo – ma vi è poi un continuo proliferare di nuovi “misteri”, rivelati durante le possessioni, derivati dagli antenati o attraverso altre forme ancora. Métraux riporta il curioso episodio in cui un sasso con attaccate due conchiglie, rinvenuto per caso da un pescatore, diviene un nuovo loa sotto il nome di “Capitano Déba” (Métraux 1971, pp. 82-83).

Spesso inoltre i loa sono stati assimilati dai fedeli voodoo ai santi cristiani, per via di alcuni particolari iconografici dei santi che richiamano determinate caratteristiche di uno o più spiriti. Più in generale, diversi rituali sono stati modellati su quelli cristiani oppure, in Africa, su elementi della religione islamica, e se è pur vero che questi elementi sono spesso ripresi solo come patina superficiale, tanto da portare a discutere sull’effettivo sincretismo del voodoo, il loro impatto non è comunque indifferente (Hubron 1987, pp. 101-120; Métraux 1971, pp. 324-336; Brivio 2012, p. 12).

Il videogiocatore e il suo avatar

In un videogioco si assiste all’attorializzazione del videogiocatore, attraverso quella che Maietti ha definito «messa in ruolo videoludica» (Maietti 2004, p. 124, corsivo dell’autore). In altre parole si è chiamati a interpretare un ruolo coerente con il mondo narrato, diventandone un individuo. Non sempre tale messa in ruolo comporta una presenza a schermo; al contrario è possibile «conferire al fruitore il potere di abitare il mondo di gioco non solo concedendo la possibilità di incarnare un simulacro attorializzato […] ma semplicemente attribuendo facoltà interattive che modificano il mondo narrato, come in Tetris» (Trabattoni 2014, p. 19).

Sempre Maietti parla anche di «gradiente interattivo del simulacro» (Maietti 2004, pp. 127-128) (ossia in che misura il giocatore può modificare alcune caratteristiche del suo alter ego digitale) e classifica quattro differenti forme di attorialità, a seconda che il simulacro sia presente o assente, plurale o individuale (Maietti 2004, pp. 128-130).

Il passo successivo, anche in vista di queste diverse possibilità, è considerare il videogiocatore non necessariamente – o non solo – un attore, ossia un personaggio che agisce o subisce una azione, ma un attante, ossia un ruolo/funzione di uno o più attori (Bertolo e Mariani 2014, pp. 117-119). Esempio classico in tal direzione è costituito dagli strategici, in cui il giocatore, impartendo ordini a un intero esercito, è l’attante Destinante (colui che persuade il soggetto a compiere un’azione) che indirizza un attante Soggetto collettivo verso il suo Oggetto (lo scontro con gli avversari, la conquista di un presidio, ecc.).

Il termine qui impiegato, simulacro, è «in ultima istanza una strategia che si applica per simulare la presenza di una entità che è invece assente: non può descrivere il lavoro del giocatore, che è ben presente come strategia attanziale, discorsiva e interpretativa» (D’Armenio 2014, p. 35, corsivo dell’autore). Al di fuori di questa riserva sull’impiego del termine per le fasi interattive di un videogioco, “simulacro” ha avuto anche largo impiego nella fantascienza, in cui ha finito per indicare un ampio spettro di concetti e figure differenti. Questa varietà attributiva contribuisce a rendere meno univocamente definibile il termine, tanto più che, se effettivamente alcune sue applicazioni fantascientifiche hanno un legame più o meno stretto con la presenza del videogiocatore (un esempio potrebbe essere Matrix), in altri casi la distanza è marcata. La definizione stessa di “simulacro” si muove in tal senso[6].

Bruno Fraschini, in un suo testo, ha definito il simulacro con cui il giocatore interagisce col mondo digitale come «una protesi digitale, qualcosa che dona all’essere umano la possibilità di compiere azioni in un mondo di cui non fa “realmente” parte» (Fraschini 2004, pp. 110-111). Parlare di “protesi” vuol dire indicare non più un sostitutivo “ingannevole” (simulacro è, per definizione, umbratile, inautentico, esteriore), ma un sostitutivo “funzionale”, ossia in grado di replicare determinate funzioni in assenza dell’arto/organo a esse predisposto[7]. Nei mondi digitali, in particolare, a essere in posizione di assenza – nel senso di “non fisicamente presente col proprio corpo” – è l’intera corporeità del giocatore, che ha dunque bisogno di questa protesi digitale.

Un altro termine utilizzato – con molta più frequenza – per descrivere la protesi/simulacro è avatar. Non è infrequente, infatti, leggere che “Lara Croft è l’avatar del videogiocatore”, o che “in un MMORPG il giocatore personalizza il proprio avatar”. Si veda una definizione del termine sanscrito avatāra, da cui i suoi utilizzi odierni sono stati mutuati:

The idea of an avatāra, a form taken by a deity, is central in Hindu mithology, religion and philosophy. Lite rally the term means “a descent” and suggests the idea of a deity coming down from Heaven to Earth. The literal meaning also implies a certain diminuition of the deity when he or she assumes the form of an avatāra. Avatāras usually are understood to be only partial manifestations of the deity who assumes them […]. Theologically an avatāra is a specialized form assumed by Viṣṇu for the purpose of maintaining or restoring cosmic order (Kinsley 2005).

Una definizione, questa, che si ricollega alla già espressa idea di una entità sostitutiva, parziale, diminutiva, in cui trovarsi per un periodo più o meno duraturo al fine di realizzare un determinato obiettivo. Anche questo non è un termine univoco, non solo perché – banalmente – è ripreso da un concetto religioso, ma anche perché la sua applicazione attuale fa riferimento ad oggetti differenti. Alcuni di questi sono gli avatar di piattaforme digitali relativamente vicine ai videogiochi, come Second Life, mentre altri – esempio classico: l’avatar utilizzato in un forum – sono decisamente più distanti. Non mancano inoltre, anche in questo caso, contaminazioni fantascientifiche, fra cui il romanzo Snow Crash (1992) di Neal Stephenson o il film Avatar (2009).

In ambito videoludico, prescindendo dall’accennata questione terminologica, esiste un doppio scambio fra l’avatar digitale e il suo controllore nel mondo reale – o nel mondo “non-virtuale”, seguendo la proposta di Waggoner[8]. La prima direzione di questo passaggio è quella che va dall’utente al suo avatar; si tratta della personalizzazione estetica o delle decisioni comportamentali, in base al fine desiderato o al ruolo che si vuole ricoprire. Non necessariamente il risultato ottenuto rispecchia l’aspetto e la personalità di colui che impiega un determinato avatar – in campo videoludico e non – ma come accennato è anche possibile che l’utente desideri calarsi volontariamente in una rappresentazione molto diversa dal suo io non-virtuale[9].

Questo primo passaggio è, come intuibile, più forte ed esplicito in presenza di un avatar personalizzabile, o di cui è possibile controllare le decisioni. Un simile caso costituisce però solo una parte delle identità assumibili in un videogioco. Un esempio classico è quello di Mario, il noto idraulico baffuto: il suo aspetto non è personalizzabile, né il giocatore può influenzarne il comportamento al di fuori del controllo motorio (il che costituisce comunque una presa di posizione, una decisione, ma piuttosto blanda).

Eppure anche Mario è un avatar del giocatore. Questo perché, se spesso un avatar ha una funzione “sociale”, di doppio del proprio ruolo non-virtuale o di suo contraltare, per presentarsi e relazionarsi in un determinato contesto virtuale, altrettanto frequentemente esso viene impiegato in contesti narrativi, non necessariamente sociali.

Un episodio platform di Super Mario ha una storia già stabilita, che il giocatore più che influenzare deve concretizzare. Non si tratta di un racconto tradizionale, ma di un racconto ludico, ossia un elemento che rappresenta «l’aspetto narrativo delle meccaniche di gioco e l’aspetto interattivo della narrazione» (Fulco 2004, p. 66). Un racconto dettato da cambiamenti di stato, anche solo da quello di quiete a quello di moto o viceversa. Rimane dunque, a questo livello, la possibilità del giocatore di interagire sul mondo virtuale e la sua narrazione, attraverso il proprio avatar (facendo avanzare Mario lungo un livello di gioco, ad esempio), e in tal senso è ‘personalizzabile’ perlomeno la posizione di quest’ultimo nello spazio. Rimane evidente, però, la distanza di una simile situazione dalle personalizzazioni estetiche e relazionali/comportamentali offerte da un titolo come il già citato Word of Warcraft.

È soprattutto – ma non esclusivamente – in casi come quello di Mario che emerge il secondo “scambio” fra avatar e videogiocatore, opposto al precedente. Papale utilizza il termine identificazione, in contrasto con proiezione, per descrivere questo fenomeno, in cui «il giocatore introietta il tratto caratteriale predominante del personaggio, facendolo suo e vivendolo come se fosse parte del suo essere» (Papale 2013, pp. 85-86). Più in generale si parla di Proteus effect (effetto Proteo, dal nome del mutaforme dio greco), in base al quale il comportamento di un individuo in un mondo virtuale – e in una certa misura al di fuori di esso – sarebbe regolato dalle caratteristiche visive dell’avatar (genere, colore degli abiti, carnagione, ecc.). Questo effetto, insieme a similari espressioni e teorie correlate, rappresenta l’altra faccia della medaglia nel rapporto videogiocatore-avatar. Su questo interscambio è possibile segnalare un parallelismo con il culto voodoo.

Il videogiocatore: cavallo e cavaliere

Uno dei fondamenti del voodoo è costituito dal fenomeno della possessione. Un loa, durante una cerimonia ma anche nella vita quotidiana, discende su un fedele e lo “cavalca” per un certo lasso di tempo. Per tutta la durata della possessione il “cavallo” assume le caratteristiche di quello specifico loa che lo controlla: richiede determinati vestiti e cibi, utilizza un particolare linguaggio e compie una serie di gesti inconsueti. Coloro che assistono a un fenomeno simile si rivolgono al posseduto come se fosse il loa, e un mancato riconoscimento della sua identità o autorità provocherebbe collera e sdegno. Si tratta inoltre di una possessione volutamente ricercata, per quanto temuta, essendo spesso la sua manifestazione preceduta da vertigini, senso di smarrimento e terrore.

Tutto ciò ha portato a un’ulteriore condanna del clero locale contro il voodoo, in cui si è vista una sorta di possessione demoniaca. I fedeli del culto però, al contrario, distinguono le possessioni degli spiriti maligni – pericolose, da evitare – da quelle dei loa, pur talvolta violente, sfiancanti e in una certa misura pericolose. A differenza di quella che, grosso modo, è la tradizione africana, nel voodoo haitiano non sono solamente gli iniziati a essere posseduti, ma è un fenomeno che può capitare a qualsiasi fedele e, in casi particolari, anche ad alcuni estranei. Celebre in tal senso il caso di Maya Deren, studiosa e artista americana entrata in contatto col voodoo per un documentario sulle danze indigene, che è stata “cavalcata” dalla loa Erzulie.

La cineasta ha parlato di “bianca oscurità”, espressione divenuta poi piuttosto celebre, per raccontare la sua esperienza di possessione, e soprattutto dei momenti che l’hanno preceduta (Deren 1997, pp. 292-308). A prescindere dall’effettiva ‘autenticità’ delle possessioni[10] – che nel sistema-voodoo sono effettivamente “autentiche”, nel senso di “fondanti” – ciò che interessa sottolineare è il rapporto fra loa e fedele che viene ad instaurarsi. Autosuggestionato, attore consapevole di un gioco delle parti, o realmente posseduto, il “cavallo” segue le indicazioni del suo “cavaliere” divino anche quando esse lo pongono in situazioni socialmente imbarazzanti o pericolose (a cui pur vengono posti dei taciti limiti dalla comunità, difficilmente oltrepassati).

L’“interpretazione” del loa di turno avviene inoltre secondo le caratteristiche del “cavallo”. Un uomo e una donna saranno “cavalcati” differentemente da uno stesso loa (solitamente la possessione riguarda un loa del proprio genere, ma non è una regola costante), così come una mambo posseduta agirà diversamente rispetto a una hunsi sua sottoposta. Si potrebbe affermare, pur con una certa dose di approssimazione, che ciascun loa abbia un suo “canovaccio” da seguire, fatto di specifiche richieste (ogni loa apprezza un particolare cibo, o del tabacco, o altro), movenze particolari ed espressioni ricorrenti. Su questa base, piuttosto stringente in linea di massima, si innestano alcune peculiarità del “cavallo” di turno.

Si consideri ora un videogiocatore, alle prese con una proiezione – per riutilizzare l’espressione citata in precedenza – sul proprio avatar. Quest’ultimo va a rispecchiare i pensieri, i desideri, i gusti, o anche l’aspetto fisico dell’individuo al di fuori dello schermo, temporaneamente calatosi in lui, o che l’ha addirittura plasmato per tale funzione, e ritorna l’immagine dell’avatāra, del dio incarnato, pur qui in una “disincarnazione” digitale. Si può, adesso, sostituire i loa a Viṣṇu, e i fedeli voodoo alle sue incarnazioni.

L’immagine – perché, in entrambi i casi, di immagini si tratta – guadagna in efficacia, in termini di parallelismo. La natura della possessione loa – multipla, scambievole, di differente durata ma spesso piuttosto breve – rispecchia la natura di un videogiocatore, abituato a ‘saltare’ frequentemente da un personaggio all’altro, andando anche a controllare personaggi prima impiegati da altri videogiocatori. Più giocatori per più avatar, con legami preferenziali ma non univoci, proprio come i fedeli voodoo sono spesso “prediletti” da un determinato loa, ma possono essere “cavalcati” anche da altri, così come quel loa può “cavalcare” altre persone. Viṣṇu, al contrario presenta incarnazioni di volta in volta differenti ed uniche.

Inoltre, anche laddove è il movimento della proiezione a prevalere, l’avatar videoludico ha spesso alcune caratteristiche basilari che non possono essere modificate. Un esempio: è possibile modificare l’etnia, l’aspetto, il genere e le origini del protagonista di Dragon Age: Origins, così come è possibile fargli compiere una sequela di scelte morali differenti; non si può tuttavia, fra le altre cose, evitare che il personaggio divenga un Custode Grigio. Ogni origine, una volta selezionata, incasella il protagonista in un determinato schema, piuttosto che in un altro, senza grosse variazioni interne: i personaggi “Elfo Dalish” avranno tutti un background quasi uguale, all’interno del loro gruppo, mentre saranno totalmente differenti dagli appartenenti al gruppo “Nobile Umano”.

Andando a controllare il proprio avatar, ciascun videogiocatore lo farà agire in base ai propri desideri, pertanto uno stesso personaggio, controllato da due persone differenti, agirebbe in maniera diversa, modellandosi di volta in volta sul suo controllore[11]. Al tempo stesso, però, lo stesso giocatore, andando a controllare un Elfo Dalish o un Nobile Umano, agirà in modo differente, anche soltanto a livello microscopico, pur mantenendo le stesse idee e gli stessi interessi. I giocatori sono i “cavalieri” voodoo, il loa, che controllano di volta in volta differenti “cavalcature”, immettendovi la propria personalità per tutta la durata della possessione, ma presentando anche – pur minimi – adattamenti alla natura del proprio “cavallo”.

Nel movimento opposto, l’identificazione, i ruoli sono invertiti, o invertibili. Se nel parallelismo precedente la possessione voodoo è stata considerata come fenomeno autentico, in questo caso essa ritorna come finzione. Il fedele saprebbe – anche solo inconsciamente – che durante la possessione è tenuto ad interpretare il loa di turno in base alla sua personalità. Se “cavalcato” da Baron Samedi, ad esempio, farà in modo di procurarsi degli occhiali scuri, mentre una “interpretazione” di Damballah Wedo lo porterà a gettarsi in acqua e arrampicarsi sugli alberi, e una di Ogun (o Ogoun) Badagris vedrà un frequente ricorso ad espressioni come “Foutre tonerre!” o “Grains moin fret![12].

Così anche il videogiocatore, in differenti gradazioni a seconda della libertà concessagli, agirà in base al ruolo che viene chiamato ad interpretare. Questo come generica tendenza, e non legge immutabile, naturalmente, anche in vista della differenza fondante che rimane col culto voodoo. Per i fedeli la possessione è parte di una ritualità, anche quando si svolge in contesti quotidiani, e mantiene una sua sacralità; l’atto del videogiocare è un rituale a bassa intensità: «cerimoniali instant, fondati non tanto sulla condivisione di valori quanto sul radicarsi, magari effimero ma dilagante, di abitudini comuni, nella vita urbana come nei momenti di pausa sociale dal lavoro» (Ortoleva 2009, p. 84. Corsivo dell’autore).

Pertanto è possibile ‘giocare’ col proprio ruolo – cosa che un fedele del voodoo posseduto non può fare con leggerezza – andando tuttavia perlomeno ad incrinare quel cerchio magico che caratterizza un «mondo provvisorio entro il mondo ordinario, destinato a compiere un’azione conchiusa in sé» (Huizinga 2002, p. 13). Al di fuori di queste quasi fisiologiche differenze l’analogia rimane. Il personaggio videoludico, a partire dal suo stesso aspetto, offre al giocatore un implicito ‘canovaccio’ che sarà poi messo in ruolo in differente misura. Banalmente, un personaggio vestito di nero, dallo sguardo truce e dai trascorsi ambigui porterebbe magari il videogiocatore ad avere un approccio più subdolo e aggressivo, rispetto a un leale paladino dall’armatura lucente. Questo non perché il giocatore abbia particolari pulsioni violente, o predilezioni per un approccio “malvagio” al gioco[13], ma perché in quel determinato momento è chiamato a mettere in scena quel tale ruolo, così come un adepto voodoo può ritrovarsi “cavalcato” da qualche loa violento e “oscuro”.

In conclusione il parallelismo presentato non è esattamente combaciante, né probabilmente proponibile come alternativa alla terminologia già impiegata, tecnica o di uso comune che sia, in vista anche della sua minore immediatezza. Rimane però una casualità potenzialmente affascinante, questa doppia somiglianza che pone il videogiocatore ad essere, al tempo stesso, “cavallo” e “cavaliere” di una figura virtuale, tramite una corrispondenza bidirezionale nella messa in ruolo.

Bibliografia

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[1] «Gli Ewe e i Fon sono popoli linguisticamente e culturalmente imparentati che vivono in Africa occidentale, lungo la costa e nell’entroterra del Benin (antico Dahomey), del Togo e del Ghana orientale. Sono circa tre milioni di persone; vivono per la maggior parte in città o in grandi villaggi e dipendono dalla pesca, da coltivazioni intensive e dall’artigianato […]. Il culto degli antenati, che è ritenuto necessario per la perpetuazione del clan, è l’elemento centrale dell’organizzazione sociale dei Fon e di molte delle loro attività religiose. […] All’incirca ogni dieci anni, inoltre, gli antenati vengono “stabiliti”, cioè divinizzati come tovudu (divinità della famiglia)» (Gilbert 2009, corsivo dell’autore.)

[2] Cfr. anche Lovell (2006) e McCarthy Brown (2005).

[3] L’insistenza sull’idea di un accrescimento, di un assommarsi di immagini e concetti intorno ad un nucleo, di “accrezione”, non è casuale, ma si ricollega ai santuari gorovodu (e non solo), costituiti da oggetti progressivamente ricoperti di sangue e materia organica fino ad essere irriconoscibili. Così come in questi santuari, detti tron, l’originario nucleo interno è irraggiungibile o non identificabile, allo stesso modo le comuni idee sul voodoo si basano su opinioni ed immagini stratificate intorno ad un ‘cuore’ pulsante ma spesso inconoscibile. Sul gorovodu ed i suoi rituali cfr.Rosenthal (1998). Sul lato visibile e nascosto degli altari si veda anche Lalèyê (2009).

[4] Alessandra Brivio (2012 p. 40) ricorda come esempi le pellicole Il serpente e l’arcobaleno (The Serpent and the Rainbow, Wes Craven, 1988; tratto dall’omonimo libro di Wade Davis) e Ho camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie, Jacques Tourneur, 1943), ma si può citare come precursore anche il celebre L’isola degli zombies (White Zombie, Victor Halperin, 1932), ambientato ad Haiti ed indicato come il primo film a presentare la figura dello zombie.

[5] Fermo restando quanto affermato, esistono loa con valenze “demoniache”, come Marinette Bwa Chech (Marinette dalle braccia secche), signora del fuoco e dei lupi mannari – che nel voodoo sono esclusivamente di sesso femminile e non corrispondono all’immaginario tradizionale – e divoratrice di uomini (Mennesson-Rigaud e Denis 1947).

[6] Fra le definizioni di “simulacro”: «Riproduzione o imitazione di un oggetto, di un corpo; sagoma […]. Esercitazione o gara spettacolare che simula il combattimento o ne è la trasposizione ludica […]. Simulazione o imitazione di un gesto, di un atteggiamento, di un’azione […]. Figura, immagine di un ente materiale o ideale, che attua in modo imperfetto o provvisorio o che richiama per somiglianza o per imitazione […]. Apparenza, parvenza; indizio o presenza ridotta e appena rilevabile di una condizione ambientale o stagionale o di un’istituzione o di un valore politico o morale […]. Fantasma, spettro, ombra, spirito di un trapassato […] per estens. Apparenza illusoria o fittizia, anche per opera di magia […]. Immagine riflessa in uno specchio o nell’acqua […]. Invenzione fantastica o della mente» (Voce Simulacro, 1998).

[7] «Medic. Sostituzione di una parte anatomica mancante con una artificiale avente analoga funzionalità – In senso concreto: struttura fabbricata un tempo con legno, più recentemente con metallo e resine plastiche, che serve a tale scopo […]. Figur., con riferimento alle facoltà intellettuali indebolite o mutile» (Voce Pròtesi, 1988).

[8] Brevemente: una identità virtuale può essere “reale”, in una certa ottica, per il suo fruitore, tanto quanto la sua identità non-virtuale. Waggoner propone anche il termine verisimulacratude per descrivere il processo con cui gli utenti entrano a far parte di un mondo simulacrale virtuale (Waggoner 2009).

[9] Ad esempio nel film Ben X (Ben X, Nic Balthazar, 2007) il protagonista, affetto dalla sindrome di Asperger, gioca tutti i giorni ad Archlord. Il suo doppio virtuale, dai lineamenti simili ai suoi, è un potente eroe che ha compiuto qualsiasi impresa, mentre lui nella quotidianità non-virtuale subisce continui assalti da alcuni bulli e fatica a relazionarsi con altre persone.

[10] Già Métraux aveva ampiamente trattato l’argomento, escludendo spiegazioni di carattere psicopatologico e simili, arrivando ad affermare che «lo stato di possessione è dunque spiegabile con il clima intensamente religioso vissuto degli ambienti voduisti» (Métraux 1971, p. 141).

[11] Anche in presenza di scelte assolutamente identiche, all’interno delle opzioni ‘fisse’ di scelta (dialoghi, decisioni per la trama, ecc.) perlomeno il racconto ludico sarebbe sempre diverso, andando ugualmente a rispecchiare un utente piuttosto che un altro. Far soffermare il proprio avatar in città a parlare, piuttosto che tornare subito in missione, è un – banale – esempio di due differenti racconti ludici, che corrispondono a differenti interessi e personalità da parte dei due ipotetici videogiocatori.

[12] Deren (1997, pp. 132-155). Le due espressioni citate, che Ogun impiega come intercalare, sono rispettivamente traducibili come “tuoni e fulmini!” e “i miei testicoli sono freddi!”.

[13] Anche perché, nei videogiochi che prevedono scelte morali, solitamente gli utenti optano per il percorso “buono”, almeno alla prima giocata (Lange 2014).

Aspettando Elden Ring: una retrovisione sul successo in video dei “Souls”

Elden Ring prima o poi arriverà e farà ripartire il ciclo. Tutti i “Souls” (intendendo, con questo termine, i tre Dark Souls, Demon’s Souls, Bloodborne e Sekiro) sono in qualche modo legati alla ciclicità, ma non è di questo che parleremo.

Il ciclo, qui, è quello della discorsività prodotta dai fan. Che già viene continuamente rintuzzata a ogni nuovo trailer, immagine o gossip su Elden Ring. Una volta che il videogioco sarà uscito, tutta questa macchina di discorsività ripartirà, come avviene ogni volta, soprattutto grazie a numerosi video.

Non è la prima volta che scrivo qualcosa sui “Souls”, per cui potete consultare la pagina delle pubblicazioni per ulteriori letture. Segnalo in particolare questo mio articolo accademico su architettura e concept art.

Il discorso sul successo “in video” di questi videogiochi merita però qualche approfondimento in più. Anche con un caso piccolo ma molto concreto che troverete più sotto.

Aspettando Elden Ring: una retrovisione dei souls

Il caso dei “Souls”: difficoltà, horror, spettacolarizzazione e analisi fanmade

Alla sua uscita, Demon’s Souls è stato quello che potrebbe essere definito, seguendo le parole di Jim Sterling (2018), un middle shelf game. Un prodotto “medio”, che non deriva da una piccola produzione ma non ha nemmeno le pretese dei videogiochi nel segmento più alto dei “tripla A”.

Nelle originarie intenzioni dei suoi creatori è rivolto a una nicchia piuttosto definita. Un pubblico principalmente giapponese, amante della difficoltà e disposto a investire un certo numero di ore nel gioco, per poterlo padroneggiare nelle sue sfaccettature, compresa una particolare forma di interazione online. È infatti possibile entrare nel mondo di altri giocatori per aiutarli a sconfiggere i nemici oppure per cercare di assassinarli. Al tempo stesso è ovviamente possibile subire una invasione o invocare l’aiuto di un altro giocatore. Questa forma ibrida fra single player e multiplayer è stata talvolta definita mingleplayer (Waugh, 2014).

I principali hooks con cui il videogioco è stato presentato – almeno inizialmente – si sono legati in primo luogo alla difficoltà, declinata di volta in volta in differenti modi: l’ambiente ostile (trappole), la forza dei nemici, la libertà d’azione e le sue conseguenze, il senso permanente di perdita. Erano questi i principali argomenti utilizzati per catturare l’attenzione del pubblico potenziale.

Le dinamiche del videogioco sono piuttosto note, ma per chi non le conoscesse, si ricorda che è possibile uccidere anche gli NPC amici, perdendo così per il resto della partita la possibilità – per esempio – di apprendere magie o depositare oggetti. Inoltre, quando il personaggio muore, tutte le sue “anime” (utilizzate per salire di livello e acquistare oggetti) non spese rimangono in terra sul luogo del decesso. Il giocatore, per recuperarle, deve ripercorrere il tragitto compiuto in precedenza, sconfiggendo nuovamente i mostri affrontati. In caso di una seconda sconfitta prima del recupero le anime spariscono e sono perse per sempre.

La morte, inoltre, riduce i punti vita del personaggio, rendendo ancor più difficoltoso il recupero. Tutto il gioco, in vari modi, è peraltro legato al senso della perdita e del ritorno/ripetizione (Weis, 2014: 206–207), dalle meccaniche alla componente narrativa. La mancanza della pausa anche quando si gioca offline, inoltre, aumenta ulteriormente la difficoltà, in quanto pure eventuali stimoli esterni al gioco possono andare a render più difficoltosa una partita che non può essere arrestata.

Sempre a proposito della difficoltà, il giornalista Tom Bissell, fra gli altri, ha ripercorso con un certo sarcasmo (e non senza alcune esagerazioni) il sentire legato alla difficoltà di Demon’s Souls, fra narrazioni iperboliche di imprese impossibili e puristi che auspicano una difficoltà ancor più elevata (Bissell, 2012).

Questa generale sensazione di difficoltà può costituire un primo elemento di interesse per l’estensione del successo di un gioco oltre i confini inizialmente per lui profilati, ma già a proposito di questo primo elemento è utile una precisazione. Le strategie per completare un livello di videogiochi come Ikaruga o Super Meat Boy – tanto per fare altri due esempi abitualmente considerati “difficili” – sono numericamente contenute, e quel che primariamente conta è la bravura nell’esecuzione. Ancor più, in un gioco come Getting Over It, per superare gli ostacoli è richiesta una certa conoscenza dell’ambiente e un’ottima padronanza dei controlli. Demon’s Souls, anche per la tipologia di gioco cui appartiene, offre al giocatore una casistica molto più ampia di possibilità per superare gli ostacoli. Le scelte individuali, legate al potenziamento di certi parametri e all’equipaggiamento selezionato, possono cambiare radicalmente l’approccio ai combattimenti.

A prescindere dallo stile di gioco, alcune decisioni possono considerevolmente facilitare il giocatore e si rivelano pertanto idonee per i meno esperti. Fra le classi selezionabili a inizio gioco, per esempio, quella del Nobile è ritenuta ottimale per un inizio avvantaggiato, poiché è più facilmente personalizzabile e dispone fin da subito di un oggetto che recupera gradualmente i punti magia. Per alcuni puristi la scelta di questa classe significa quasi barare, o perlomeno non voler godere fino in fondo della sfida che il gioco offre (Klepek, 2015a).

Altre, invece, possono essere un palese e voluto handicap (per esempio utilizzare per tutto il gioco una delle armi più deboli disponibili) che un veterano può deliberatamente selezionare per accrescere il tasso di sfida.

È pertanto possibile ricercare e fruire di numerosi video sul gioco, per apprendere strategie vincenti o osservare performance di particolare abilità, ma questo non esaurisce minimamente le possibilità offerte da Demon’s Souls.

Al di fuori dello specifico caso, il desiderio di apprendimento è stato indicato come uno dei principali fattori che spingono gli utenti a seguire gli streaming su Twitch (Hamilton, Garretson, Kerne, 2014: 1319). Questo fattore è significativo su YouTube (di cui si parlerà più sotto), dove la possibilità di una fruizione frammentata e dilatata nel tempo, con continui recuperi di parti precedenti del video, potrebbe costituire una ulteriore facilitazione all’apprendimento (consentendo ad esempio di vedere più volte di fila una particolare mossa compiuta dallo youtuber).

Una situazione analoga è riscontrabile anche a proposito della lore, soprattutto a partire dal suo successore, Dark Souls. Si son infatti susseguite le interpretazioni, messe in atto da differenti utenti, in cui si ricollegano fra loro diversi indizi, cercando sempre nuove possibilità.

Lo scavo è talvolta maniacale, come nel caso dell’utente che ha inventariato statue, bassorilievi e vari elementi decorativi di Bloodborne in cerca di legami nascosti.  L’utente è noto come Rakuyo e ha pubblicato diverse analisi della lore nella wiki del gioco. Lunghe, sovrabbondanti e caotiche, esse uniscono con grande libertà elementi di tutti i “Souls” nel tentativo di mostrare collegamenti nascosti fra i diversi videogiochi. Una di queste (Rakuyo, 2018) è per esempio dedicata al castello di Cainhurst, uno dei luoghi visitabili in Bloodborne, del quale vengono riportati persino i dettagli di mobili e vestiti, tutti arbitrariamente collegati ad altri elementi della saga o anche esterni (dal folklore ai manga).

Al di fuori della curiosità, è utile ricordare un caso come questo poiché è emblematico della fortissima produttività al contempo enunciativa e testuale (Fiske, 1992) dei fan della saga, i quali producono – oltre a fanfic e fanart – un forte numero di testi che potrebbero essere definiti come una sorta di “saggistica fanmade”. L’interpretazione della lore non è dunque portata avanti solo attraverso i video di alcuni youtubers, realizzati con taglio divulgativo ed esplicativo, ma anche attraverso più o meno lunghi commentari, talvolta ricolmi di link esterni e rimandi. Se, in ogni fandom, si sviluppano legami «condividendo con gli amici sentimenti e riflessioni sul contenuto [di un programma]» (Jenkins, 2008: 38) e vengono generati testi che sono spesso “riscritture” (Fiske, 2010 [1989]: 116–119), la serie dei “Souls” costituisce un buon esempio per osservare la varietà e talvolta profondità delle teorizzazioni sul prodotto, “riflessioni” e “riscritture” della narrazione utilizzando la lore come chiave di decodifica.

Nel corso del tempo emergono inoltre nuovi elementi, portati a galla con delle operazioni in qualche misura archeologico/filologiche di esplorazione e ricostruzione dei dati di gioco. A distanza di anni continuano a emergere contenuti tagliati e modificati, che mostrano stadi precedenti dello sviluppo di un gioco, e che possono almeno in parte esser ricostruiti da un utente esperto. Tutto questo porta anche a ripensare alcune teorie, o a formularne di nuove. Canali YouTube come Sanadsk e Crestfallen offrono diversi video in cui riportano questi contenuti tagliati o modificati. Simili materiali, come accennato, offrono ulteriori spunti di discussione relativi alla lore. Osservando il codename di determinati personaggi, per esempio, è possibile intuire quale fosse il loro ruolo originario previsto, il che può aiutare a comprendere perché compiano determinate azioni.

O, per fare un esempio italiano recente, Sabaku no Maiku nel 2021 ha riconsiderato alcune teorie precedentemente espresse alla luce di alcune precisazioni sulla traduzione. Anche la versione impiegata per le proprie analisi si rivela dunque fondante, poiché è sufficiente un errore di traduzione (o anche solo una sfumatura mal interpretata) per far deviare parecchio.

In entrambi i casi, a proposito della difficoltà sia dei combattimenti sia delle interpretazioni, i “Souls” richiedono uno «sforzo esperienziale» (Gandolfi, 2015: 134. Corsivo dell’autore) che è però, almeno in certi termini, liberamente negoziabile dal giocatore, il quale può decidere fin dove spingere la propria “fatica” in determinati settori, tralasciandone magari altri. YouTubee Twitch possono allora sopperire, integrando le attività del giocatore e consentendo lui di sperimentare almeno per interposta persona quanto non ha voluto o potuto raggiungere.

Questo «sforzo esperienziale», basato in parte sull’abilità manuale e in parte su memoria e ragionamento, è molto forte e discusso al lancio di uno dei “Souls” (si vedano i commenti a una recensione di Dark Souls II riportati in ibid: 136–138), andando poi progressivamente scemando, per lasciare il posto a contenuti più leggeri, spesso memetici, ma ritorna in topic al sopraggiungere del videogioco successivo.

Abilità e memoria/ragionamento non sono univocamente legati, rispettivamente, alla difficoltà degli scontri e a quella ermeneutica, ma sono intrecciati fra loro. Per sconfiggere un avversario particolarmente ostico, per esempio, occorre memorizzare e ricordare il pattern dei suoi attacchi ed elaborare una strategia appropriata per combatterlo, verificando per esempio eventuali debolezze e resistenze della creatura. Lo studio della lore, d’altro canto, risulta più efficace se i diversi eventi del gioco sono vissuti in prima persona, invece che reperiti di seconda mano, e per fare ciò occorre una certa abilità per sconfiggere i nemici e completare il gioco.

Un’altra posizione sul tema, differente nei termini ma analoga nei contenuti, è quella presente in un articolo di «Game Developer Magazine», dove emerge con chiarezza il rapporto fra impegno richiesto (anche in termini di attenzione: per gli indizi ambientali, per le informazioni passate…) e ricompense:

«DARK SOULS is hard – notoriously so – but the interesting thing is that it rewards the player for persistence, effort, and learning. That is the premise at the core of its design and what ties the whole experience together. Through practice, players are rewarded with mastery over the gameplay. By paying attention, players are rewarded with secrets and bonuses. By exploring, players are rewarded with entire vistas they never knew existed» (Staff, 2012: 11).

Volendo proseguire, gli hooks dei “Souls” si rivelano particolarmente variegati e tutti decisamente idonei a un contesto fruitivo legato a YouTube e Twtich. Oltre alla sopracitata difficoltà, attuativa ed ermeneutica, sono riscontrabili anche un elemento competitivo atipico (che fornisce materiale per numerosi video sugli scontri PvP) e un legame con l’horror. I “Souls”, pur non appartenendo al genere dei survival horror – particolarmente diffuso su YouTube e forse quello che più ha accompagnato l’ascesa di youtubers come Favij, PewDiePie e Markiplier (Pietruszka, 2016) – vanno a occupare una nicchia a esso tangente, a livello di immaginario e, almeno in piccola parte, reazioni e stati d’animo (Mecheri, Romieu, 2017: 264–268).

Laddove Demon’s Souls e Dark Souls propongono un mondo dark fantasy, con un connubio fra aspetti “oscuri” della tradizione occidentale e della sensibilità orientale (Mecheri, Romieu, 2017: 261–264), con Bloodborne si passa a una rivitalizzazione del gotico (Langmead, 2017), con un particolare riguardo per le opere dello scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft, i cui Grandi Antichi erano già stati fonte di ispirazione per i videogiochi precedenti, seppur in misura minore. È pertanto presente un immaginario comune, almeno in una certa misura, al fianco di alcune scelte più puntuali, come la presenza di pochi ma selezionati attacchi nemici equiparabili a degli scare jumps. Al di fuori di questi aspetti, in fondo marginali, i “Souls” si avvicinano nuovamente a un horror – a un horror potenzialmente divertente da vedere e da giocare – per un elemento legato alla propria difficoltà.

A tal proposito è utile recuperare, da un lato, un articolo di Chris Pruett, nel quale sottolineava l’importanza di rendere i videogiochi «hard, or at least intense» (Pruett, 2011a: 37) per favorire la risposta emozionale del giocatore. Un’eccessiva difficoltà genera frustrazione (come era del resto già ben indicato nell’andamento del flow: Csikszentmihalyi, 1997), ma occorre anche evitare quelle forme artificiose di difficoltà, spesso riscontrate negli horror games soprattutto del passato, legate a scarsa reattività del sistema, scomodità dei controlli o finestre temporali d’azione troppo ridotte e poco chiare (Pruett, 2011a).

I “Souls”, pur presentando ugualmente alcune ‘rigidità’ nel sistema di controllo e nella comprensione d’insieme, risultano decisamente più fluidi e corretti nei confronti del giocatore. La sfida che offrono è coinvolgente da osservare se compiuta da un altro individuo (cui si è legati da una partecipazione emotiva per la difficoltà dell’impresa) ma anche da vivere direttamente, con un effetto di sollievo e ricompensa dopo ciascun traguardo superato.

Questo conduce a recuperare, dall’altro lato, un video del canale YouTube StopMakingSense (2017), emblematicamente intitolato Why Bloodborne’s Horror is so Effective. Pur non trattandosi di un’analisi specialistica, indica con chiarezza un punto di interesse. Molti horror di successo degli ultimi anni sono caratterizzati, in vario modo, dalla presenza di un mostro inseguitore che può uccidere il giocatore in un colpo. Non si tratta di una modalità di gioco nata con Slender Man e i suoi vari “cloni”, ma si è certamente diffusa anche in relazione alla presenza di numerosi videogiochi con caratteristiche similari che sono stati giocati da famosi youtubers.

Simili videogiochi, in assenza di ulteriori elementi di rinforzo, possono risultare più interessanti da vedere che da giocare, per via della riduzione dell’agency e delle possibilità di intervento. Senza compiere uno scavo archeologico nella storia del medium si pensi anche solo ad Haunting Ground (Capcom, 2005), di alcuni anni antecedente al fenomeno di Slender Man, per citare almeno un esempio. Si rimanda all’appendice sulla storia del survival horror per ulteriori approfondimenti.

Questo genera una condizione in cui, potenzialmente, è interessante vedere la reazione di uno youtuber in un contesto di difficoltà (oltre alle più immediate ed esplicite reactions agli spaventi), ma si è meno propensi a calarsi personalmente in quel contesto stesso. In Bloodborne, invece, qualsiasi nemico può rivelarsi una minaccia letale, ma può al tempo stesso essere ucciso, seppur con difficoltà. È una ‘filosofia’ che Bloodborne condivide con giochi che rientrano appieno nel genere dei survival horror, come il primo Resident Evil (Capcom, 1996), rispetto al quale presenta però scontri molto più dinamici e con differenti approcci.

Peraltro, pochi giorni dopo il citato video di StopMakingSense, anche Jim Sterling ha dedicato una sua Jimquisition a un tema analogo, in cui parla della «genuine fear» (2017) che sperimenta esplorando le strade di Yarnham (la città in cui è ambientata la prima parte di Bloodborne), decisamente superiore a quella provata in molti titoli con una esplicita etichetta di “survival horror”. Lo youtuber giunge persino ad affermare che Bloodborne potrebbe esser considerato uno degli ultimi e veri esempi di survival horror, pur comprendendo la scelta di identificarlo come RPG. Il progressivo potenziamento del personaggio, tramite statistiche ed equipaggiamento, caratteristico dei giochi di ruolo, non sarebbe sufficiente a sovrastare, secondo Jim Sterling, la dimensione ansiogena dell’esplorazione, in cui ogni passo può condurre a una inaspettata e letale minaccia.

I “Souls” e YouTube: un piccolo esempio di diffusione tramite la piattaforma

Come indicato poco sopra, i “Souls” hanno presentato differenti hooks capaci di attirare un pubblico più ampio di quello inizialmente pensabile per quello che era nato come un videogioco rivolto a una certa nicchia. Sono, inoltre, degli hooks ideali sia per la realizzazione di video sul gioco sia per il desiderio di provarlo direttamente.

Osservando gli elementi di interesse da un’altra prospettiva, quella delle tipologie di divertimento di Nicole Lazzaro (citate in Bertolo, Mariani, 2014: 194) sono riscontrabili con una certa chiarezza tutte e quattro le tipologie possibili in questa serie: hard fun (la difficoltà delle sfide e la soddisfazione nel superarle), easy fun (l’esplorazione, la sperimentazione, le possibilità più casual insite al loro interno), serious fun (collezione di oggetti, sistematicità nel completamento degli obiettivi) e people fun (cooperazione con altri giocatori e PvP).

Questo ha portato a un rapporto virtuoso fra gli youtubers e i “Souls”, in un reciproco legame. I video dedicati alla serie presenti su YouTube (e Twitch) sono sempre numerosi e, pur non raggiungendo i numeri – per quantità e visualizzazioni – di quelli legati ad altri videogiochi di fortissimo successo, almeno in alcuni momenti sono divenuti i contenuti gaming più visualizzati sulla piattaforma (Parfitt, 2016). Alcuni degli youtubers più frequentemente citati in relazione alla serie sono ‘nati’ insieme ad essa, come Sabaku no Maiku e Vaatividya. In questi casi si è assistito al fattore di crescita (Hudson, 2017), in cui dei piccoli canali vivono una rapida e significativa crescita grazie a un determinato videogioco, al quale rimangono spesso legati nell’immaginario collettivo.

Laddove questo percorso di crescita è riscontrabile anche in diversi altri contesti, il caso specifico di questi youtubers presenta una particolarità ulteriore. Entrambi sono infatti divenuti delle “voci autorevoli” cui affidarsi per interpretare e comprendere la lore della saga. Questo riconoscimento, inizialmente giunto dal basso, è stato in seguito – almeno in una certa misura – istituzionalizzato. La stessa Bandai Namco ha infatti presentato Vaatividya e Sabaku no Maiku come decodificatori della lore, rispettivamente a livello internazionale e italiano, tramite specifici post a tema sulle pagine ufficiali del publisher (compreso il loro sito: Bandai Namco, 2018).

Questi e altri youtubers vanno dunque a coprire il segmento ermeneutico dei “Souls”, e sono in tal senso piuttosto discussi, poiché rappresentano una situazione che non è sempre replicabile nel panorama videoludico. Esistono canali dedicati anche alla lore di altri videogiochi, come per esempio la serie Final Fantasy, ma simili approfondimenti in profondità non sono sempre applicabili con la stessa ampiezza e costanza.

La serietà con cui trattano l’argomento li rende peraltro più facilmente eligibili per forme più istituzionali di comunicazione, rispetto ad altri youtubers con contenuti identificabili come ‘bassi’. Sabaku no Maiku, alle fiere, viene spesso introdotto come un autorevole guru dei videogiochi, e il titolo della sua rubrica su «The Games Machine», Così parlò Sabaku, aveva un sapore sapienziale, quasi da profezia.

Il loro operato non esaurisce tuttavia i possibili elementi di interesse verso i “Souls”. A fianco della dimensione ermeneutica ne sono infatti presenti almeno altre due, che potrebbero essere identificate con i termini “reaction” e “sfida”.

Nella prima tipologia è possibile citare Yotobi, volto storico di YouTube Italia e già affermato prima dell’uscita dei “Souls”. La sua serie sul primo Dark Souls ha posto in risalto, soprattutto all’inizio, le sue reazioni di rabbia e disperazione per le ripetute sconfitte, unite a numerose battute. Emerge un generale contesto comico, leggero, in cui la personalità dello youtuber prevale sul videogioco, a differenza degli altri due casi, in cui Dark Souls mantiene una maggior centralità.

I contenuti legati al trolling potrebbero a loro volta rientrare in una simile casistica, essendo primariamente legati a una reazione (di risata/scherno), o potrebbero essere indicati in una categoria separata, se si volessero operare ulteriori suddivisioni. Abbondano peraltro anche differenti forme di parodia e remix della serie, su YouTube, fra cui si ricordano anche i machinima musicali dell’italiano thePruld.

L’ultima tipologia, legata alla sfida, mostra delle performance spettacolarizzate e difficilmente replicabili da un utente comune, in cui la sfida offerta dal gioco viene portata al limite. Può essere declinata nelle speedruns con autoimposte limitazioni di LobosJr (al secolo Mike Villalobos) o nella registrazione di particolari duelli PvP con azioni difficili da eseguire. Un canale in particolare, SunlightBlade, realizza numerose top ten dedicate ai combattimenti più bizzarri, fortuiti o tattici, raccogliendo le registrazioni delle partite di altri giocatori più o meno noti. Alcuni scontri possono essere apprezzati solamente da chi ha una perlomeno buona conoscenza del funzionamento di determinate armi ed equipaggiamenti. Altri combattimenti, però, mantengono ugualmente una propria dimensione spettacolarizzante, e il commento dello youtuber facilita la comprensione delle mosse meno intuibili.

Presentate queste suddivisioni, è possibile osservare nel dettaglio alcuni degli youtubers che hanno maggiormente legato il proprio nome ai “Souls”, ripercorrere le loro pratiche e rilevare alcune correlazioni con le vendite.

Il nome principale legato alla serie è quello di Vaatividya, al secolo Michael Samuels. In un certo senso può essere escluso dal novero delle microcelebrities di YouTube, nonostante il suo ampio seguito, poiché non mostra mai il suo volto in video e rimane piuttosto schivo. In tal senso quello che è considerabile il suo corrispettivo italiano, Sabaku no Maiku, ha inserito piuttosto presto il suo volto nei video ed è molto più attivo in fiere ed eventi. Vaatividya ha aperto il suo canale poco dopo l’uscita della versione PC di Dark Souls (giunta dopo quella per console).

A quel tempo, come è stato sottolineato, esistevano già diverse fonti online per acceder agli elementi della trama, ma erano tutte organizzate secondo un «IKEA approach of flatpacking the raw materials and leaving you to piece them together with tongue-chewing force of will» (MacDonald, Killingsworth, 2016: 80). Lo youtuber sarebbe stato il primo, insomma, a realizzare un’analisi di successo della lore che apparisse come già organizzata ed esaustiva. Questo fattore potrebbe sembrare in contrasto con quanto detto in precedenza, sull’interesse dei singoli utenti di provar a ricombinare a proprio piacere la lore. Il valore dei video di Vaatividya è stato però, in tal senso, quello di offrire un esempio possibile, un modello con cui potersi confrontare e da poter sfidare.

Per la natura dei contenuti trattati nei suoi video – una riorganizzazione esplicativa della lore – sembrerebbe a un primo impatto che Vaatividya abbia beneficiato dei “Souls” molto più del contrario. Questo perché le visualizzazioni deriverebbero da chi ha già acquistato e giocato uno di questi videogiochi e indaga per capire come decodificarne la lore. Questa modalità di scoperta è certamente presente, ma non è l’unica. Bisogna, in primo luogo, ricordare che non si sta analizzando un sistema chiuso, fondato esclusivamente sul videogioco e i video a tema, ma una costellazione di discorsi che possono generare curiosità verso il prodotto (o, più specificamente, la sua lore) senza che sia stato aperto YouTube o sia stato acquistato il videogioco.

Osservando Sabaku no Maiku, lo youtuber italiano più vicino al modello di Vaatividya, emerge con chiarezza questa prospettiva sfaccettata.

Peraltro, osservando il canale di Sabaku e i suoi social, in diversi commenti emergono persone che dichiarano di aver conosciuto e acquistato i videogiochi della serie grazie a lui. una simile osservazione è corretta, ma riguarda solo persone che lo hanno conosciuto, e pertanto è solo una parte del quadro complessivo.

Risultano di maggior interesse alcuni dati più generali, legati ai fan della serie che non sono necessariamente affezionati a un singolo youtuber. Un chiaro esempio è emerso da un gruppo italiano su Facebook dedicato alla saga, in cui un utente ha chiesto cosa avesse spinto le altre persone ad avvicinarsi a questi videogiochi.

Le differenti risposte presenti possono essere razionalizzate nella seguente suddivisione.

Forma di avvicinamento dichiarata nel postNumero dei post
Canale di Sabaku no Maiku17
Canale di Yotobi19
Canali di Sabaku no Maiku e Yotobi15
Yotobi, Sabaku no Maiku e altri canali3
Acquisto casuale/attratto dalla cover/sconto29
Siti e riviste3
Amici/parenti26
Amici e Sabaku no Maiku10
Altri canali YouTube (thePruld, Rexen91, Saber–X, Queltaleale)5
Altro (di cui sei legati a YouTube ma senza indicazione di canali specifici)12

Si tratta di un gruppo privato, per quanto sostanzialmente aperto a chiunque faccia richiesta di accedervi. Per questa ragione sono state adottate una serie di misure legate ai quesiti sull’etica della ricerca online (Markham, Buchanan, 2012; Zimmer, Kinder–Kurlanda, 2017). Il nome del gruppo non è indicato, né sono presenti i nomi dei singoli utenti o i loro post riportati letteralmente. Il contenuto di questi ultimi è stato raggruppato in alcune categorie, evitando che una o più di esse comprendessero un singolo individuo.

Nonostante questo rimane comunque ipoteticamente possibile risalire al gruppo e, successivamente, alla specifica conversazione e ai suoi singoli partecipanti, abbinabili a determinate posizioni. Sebbene sia facile ottenere l’accesso al gruppo (ufficialmente “privato” ma potenzialmente semipubblico, come detto), eventuali dati sensibili degli utenti al di fuori del singolo messaggio restano legati alle loro specifiche impostazioni sulla privacy e condivisione dei dati, caratterizzandosi pertanto come un caso diverso da quello che era stato portato come esempio problematico in Zimmer (2010).

Sono 139 risposte complessive, selezionate da un numero un poco più ampio: sono stati esclusi i post multipli di singoli utenti e le risposte ad altri commenti in cui non sono deducibili le motivazioni per l’acquisto. È un campione ristretto, ma può aggiungere un ulteriore piccolo tassello al quadro complessivo. Di questi 139 commenti, 76 sono almeno in parte legati ai video presenti su YouTube. Più della metà delle persone che hanno risposto dichiara pertanto di essersi avvicinate alla serie per via di questi video o anche grazie a loro.

I canali che compaiono più spesso sono quelli di Sabaku no Maiku e di Yotobi. Come accennato in precedenza, i due presentano differenze significative. Yotobi ‘nasce’ come youtuber in un contesto che non è videoludico, legato principalmente ai film trash, e i suoi video sui “Souls” sono legati alle battute e alle reactions rabbiose. I suoi video trattano dunque argomenti differenti e attirano un pubblico ampio e variegato. Questo fattore rende teoricamente più frequente il suo canale come primo approccio alla serie: persone estranee al mondo dei “Souls”, ma che seguono Yotobi, scoprono questi giochi tramite i suoi video.

Sabaku no Maiku, invece, molto più strettamente legato alla lore di questi videogiochi, costituirebbe invece un elemento di rinforzo, con video che accrescono l’interesse di chi già conosce il prodotto. Applicando a questo contesto il discorso di Mike Rose (GDC, 2018) sugli elementi di attrattiva dei videogiochi, i video di Yotobi sarebbero l’hook vero e proprio, mentre quelli di Sabaku no Maiku corrisponderebbero al kicker.

Non sembra allora casuale la distribuzione delle risposte, pur in questo piccolo campione esemplificativo. Osservando le risposte esclusive, il canale di Yotobi ha portato un maggior numero di persone a seguire la serie rispetto a quello di Sabaku no Maiku, ma quest’ultimo risulta maggioritario se si considerano coloro che lo affiancano alle parole di amici e parenti. In questi casi una persona legata al commentatore consiglia di seguire la serie e eventualmente indirizza ai video di Sabaku no Maiku.

Il presente campione, come detto, non risulta particolarmente significativo, ma i dati trovano perlomeno riscontro in diversi commenti ai video dei rispettivi youtubers, il che rende perlomeno ipotizzabile un trend più ampio, considerando anche le dichiarazioni emerse nelle interviste. Uno youtuber come Sabaku no Maiku (e, all’estero, Vaatividya) funge spesso da “rinforzo” per chi conosce già i “Souls” almeno in termini generali, magari proprio perché ne ha sentito parlare da amici e parenti.

Un elemento di pura scoperta è più facilmente abbinabile, invece, a canali di carattere più generale, già seguiti da numerosi utenti per altre tipologie di contenuto. Queste due modalità di conoscenza possono peraltro operare in sinergia, come emerge dalle risposte che hanno indicato insieme Yotobi e Sabaku no Maiku. In questi casi il primo funge da aggancio iniziale, suscitando interesse per la difficoltà del gioco e la rabbia che ne può scaturire; il secondo, invece, porta a conoscere più a fondo il videogioco, suscitando un apprezzamento per le sue componenti narrative.

Viene di seguito fornita una tabella per riassumere le caratteristiche dei tre youtubers che sono stati presi come esempi dei possibili approcci ai “Souls”: la “teoria” di Sabaku no Maiku, la “reaction” di Yotobi e la “sfida” di LobosJr. A loro viene aggiunto ThePruld, il quale ha spinto a sua volta diverse persone ad acquistare il gioco, come ha sottolineato lui stesso nell’intervista. I suoi video mostrano un approccio definibile come “memetico” e, secondo le caratteristiche dei meme (Shifman, 2012, 2014) hanno un grandissimo potenziale in termini di fecondità e longevità, con un continuo remixing che produce una risonanza anche al di fuori della cerchia dei fan.

   Sabaku no MaikuYotobiThePruldLobosJr
Approccio ai “SoulsTeoriaReactionMemeSfida
Principale tipologia di video sui “SoulsWalkthrough (o ‘lorethrough’)Gameplay con commentoMachinima–parodieSpeedrun
Professionista, performer, compagno (Gandolfi, 2016)Professionista (della lore)PerformerPerformerProfessionista
Tassonomia di Bartle (2003)  Explorer, socializer (secondario)  Achiever, Explorer (secondario)SocializerAchiever, Killer (secondario)

I video dedicati ai “Souls” offrono, infine, un esempio concreto di una “convergenza estetico–rappresentativa” che si verifica su YouTube in determinati contesti. La situazione può essere osservata partendo da uno specifico caso che ha avuto una certa risonanza.

Nel 2015 lo youtuber Aegon of Astora, autore di alcune analisi sulla lore della serie (oltre che di diversi gameplay) ha pubblicato un video – non più disponibile – in cui accusava il popolare Vaatividya di plagio (la vicenda è riportata in Klepek, 2015b). Quest’ultimo avrebbe infatti presentato la storia di un personaggio del gioco utilizzando un montaggio e delle argomentazioni simili a quelle di un precedente video di Aegon of Astora sullo stesso tema. Vaatividya ha risposto pubblicamente, dicendo che quelle gli erano sembrate le immagini e le inquadrature più adatte per presentare visivamente un determinato discorso, e diversi altri commenti nei relativi luoghi di discussione hanno rivelato che idee similari erano giunte anche ad altre persone.

Andando oltre la specifica disputa, conclusasi senza aver lasciato particolari strascichi, gran parte dei video sulla lore di Dark Souls presenta effettivamente una serie di caratteristiche comuni. Le accuse a Vaatividja riguardavano parti isolate di video e, una volta emerso una sorta di comune processo ideativo non hanno avuto seguito. Il problema del plagio su YouTube è però effettivamente concreto e diffuso, e riguarda soprattutto i casi in cui vengono copiati dei contenuti in altre lingue, così da rendere più difficile un confronto con l’originale. Un articolo di PlagiarismToday (Bailey, 2018) ha analizzato il fenomeno e le sue dimensioni partendo dal caso specifico di uno youtuber anglofono che ha scoperto un rip off in portoghese – realizzato peraltro da una youtuber con più iscritti di lui – dello script di un suo video sugli anime di genere harem, portando poi alla luce ulteriori copie, ai danni di altri colleghi (Mother’s Basement, 2018).

Le caratteristiche comuni sono in parte legate, in generale, alla tradizione del «video essay a tema cinematografico, dalla voce fuori campo alla giustapposizione suggestiva di materiali eterogenei» (Fassone, 2018: 71), in parte più specifiche. Il video portato da Fassone come esempio specifico è un confronto fra la storia di Bloodborne e le opere di H.P. Lovecraft. Non si tratta pertanto di un video esclusivamente dedicato alla lore della serie, ma è un caso molto vicino.

Fra queste caratteristiche si ricordano:

– assenza di HUD (le informazioni normalmente visibili su schermo, come la barra della salute).

– alternanza di sequenze in cui il personaggio cui il video è dedicato compare come NPC, e sequenze in cui si fanno indossare i suoi abiti al protagonista, in una sorta di cosplay.

– in queste ultime sequenze il personaggio è spesso presentato mentre cammina, con passo lento, in un determinato ambiente a lui correlato. Sono molto frequenti le inquadrature dal basso, frontali o di spalle, che contribuiscono fra l’altro a sottolineare l’imponenza architettonica dei luoghi.

– in presenza di combattimenti, questi ultimi sono mostrati invece con una più abituale inquadratura dall’alto e di spalle, e gli scontri vengono artificiosamente protratti nel tempo se la narrazione a riguardo è piuttosto lunga.

– quando vengono citate le descrizioni di determinati oggetti, l’icona di questi ultimi è aggiunta in sovrimpressione. Talvolta viene mostrato anche il testo stesso.

Questo elenco, non esaustivo, mostra la convergenza fra le scelte di youtubers differenti, i quali giungono, tramite percorsi differenti e autonomi, a quello che è giudicato un optimum nella presentazione dei “Souls” su YouTube. La piattaforma stessa, a seconda del videogioco e del contenuto presentato, informa la struttura dei video andando a ‘imporre’ le sue logiche.

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Cosa sapere per lavorare con i videogiochi (senza essere un catoblepa)

A differenza degli altri contenuti caricati in questa sezione del sito, che sono primariamente saggistici, qui vorrei fare un discorso un po’ differente.

L’idea è nata in seguito ad alcune domande che mi sono state fatte, nei post sui social ma soprattutto in privato, in questi giorni.

lavorare con i videogiochi (e senza fare il catoblepa)

Il contesto è questo: qualche giorno fa è stata annunciata la data di uscita del mio manualetto Lavorare con i videogiochi. Competenze e figure professionali, pubblicato con Editrice Bibliografica. Credo che il titolo sia piuttosto esplicativo, è una guida alle professioni che ruotano intorno al mondo del videogioco. Il che è certamente vero, ma c’è di più.

E qui torno alle domande che mi sono state fatte. La maggior parte erano raggruppabili in “ma si parla anche di X?”, dove X era di volta in volta uno specifico ambito. Io rispondevo di sì, dicendo che si parla anche di X, di Y e di Z. Ma nel fornire queste risposte mi sono tornati in mente gli interrogativi che io, per primo, mi ero posto iniziando a lavorare.

Quegli interrogativi che mi hanno portato, dopo un po’, a capire che un elenco di professioni è condizione necessaria ma non sufficiente, se si vuole fare un vero discorso su cosa voglia dire lavorare con i videogiochi.

Potrei dire che è una questione di mentalità, ma magari a qualcuno il termine non piace, perché è stato un po’ troppo abusato da guru e ‘santoni’ di dubbio gusto. Diciamo allora che è una questione di scelte e decisioni da prendere (il che si fa con una certa mentalità, per cui torniamo comunque lì, ma vediamo se così si aggira l’ostacolo).

Purtroppo c’è più di una fonte che finisce per proporvi quello che è un approccio “da catoblepa”. Alcune lo fanno in buona fede, per ignoranza della materia, altre sono probabilmente in mala fede.

Ora, non so se vi è noto il catoblepa. Non è che sia la creatura fantastica più diffusa, sebbene venga recuperato in qualche videogioco. È una sorta di bue con la testa molto pesante, che tiene sempre abbassata. Secondo gli antichi ha anche uno sguardo che pietrifica e/o un alito velenoso, ma questo non ci interessa. Pensate al capo perennemente chino. Ecco, mi sembra l’immagine perfetta per chi avanza a spron battuto in una direzione senza mai controllare intorno a sé.

Torniamo indietro di un po’ di mesi. Siamo nel momento in cui mi sto preparando per la stesura del manuale. Rileggo tutto ciò che già conosco sull’argomento e che ritengo possa essere utile. Cerco nuove fonti, acquisto libri e manuali di vario genere. Leggo un gran numero di articoli e testimonianze di sviluppatori, come quelle pubblicate su Gamasutra, e leggo anche tutte le conversazioni che generano. Nel frattempo parlo con un po’ di persone che conosco, guardo diversi talk online e molto altro ancora. Raccolgo opinioni e testimonianze, insomma, e confrontandole emerge una cosa prevedibile, ma comunque piuttosto interessante.

Più si va sulle tecnicalità di un ruolo e più le esperienze divergono. Detta così ci si aspetterebbe l’esatto contrario, ma in realtà la cosa ha perfettamente senso. Ricordiamoci quanto siano differenziati tra loro i videogiochi e, di conseguenza, le loro modalità produttive. Anche la stessa, identica operazione se viene compiuta in un gigantesco team con milioni di budget o nel seminterrato del cugino non è davvero identica, perché va a inserirsi in contesti del tutto differenti fra loro.

Una volta acquisita la consapevolezza di questa realtà, l’esito è quello di liberarsi dall’ossessione per la tassonomia. Una fotografia al 100% dettagliata e completa di una certa professione, con tutte le sue ramificazioni interne è probabilmente impossibile, considerando l’ampiezza e mutevolezza del mercato. E se anche fosse possibile non è detto che sarebbe utile e sensata.

Per tornare al manuale, ciò non vuol dire che io sia rimasto sempre e solo sul generico, ci sono anche esempi e casi piuttosto specifici, e tutte le principali aree lavorative sono coperte. Sto dicendo una cosa differente. Immagino un ragazzo o una ragazza all’inizio di un percorso di studi, con questo libro tra le mani. Qual è la cosa di cui avranno probabilmente più bisogno? Direi che non è una panoramica minuta di tutte le varianti di una categoria professionale, che magari sono riscontrabili solo in pochissimi team di sviluppo con centinaia di dipendenti.

Anche qui, non voglio dare una risposta univoca, ma direi che è fondamentale dar loro un aiuto per riflettere sull’approccio e sulle scelte future. E con “scelte future” non intendo tanto quella – faccio un esempio – tra programmare videogiochi o realizzarne le concept arts. Direi che una persona ha già un suo percorso legato alla programmazione o al disegno, e non va a modificarlo solo perché legge un manuale. Certo, il testo può fargli scoprire un po’ di cose in più sull’ambito di interesse, ma non sto parlando di queste scelte qui.

Sto parlando della scelta di lavorare effettivamente con i videogiochi.

Non è una provocazione, sia chiaro. Mi spiego meglio.

Rimuovendo la mitica patina di fascinazione, lavorare con i videogiochi vuol dire che si guadagna da quell’attività. E che ci si guadagna a sufficienza da potersi pagare le bollette, il cibo e tutto il resto. Lavorare con i videogiochi, in senso stretto, vuol dire che il vostro reddito viene da lì.

Aggiungiamo anche un altro dettaglio: quando si lavora con qualcosa che ci piace si possono innescare degli strani meccanismi. Quella cosa, in primo luogo, potrebbe finire per annoiarci o lasciarci indifferenti, non la vivremmo più come un divertimento e uno svago ma come un obbligo. Oppure potrebbe continuare ad appassionarci e, proprio per questo, finiremmo per lavorare in continuazione, senza più troppi confini tra lavoro e riposo, il che può portare a situazioni non proprio ottimali.

Questo è un discorso generico, se vogliamo, ma vale ancor più per i videogiochi. Diverse narrazioni sul medium videoludico sono infatti viziate da storie di ragazzini nerd e un po’ perdigiorno che nel tempo libero sviluppano un videogioco e lo pubblicano su Steam. E – attenzione – ci sono sicuramente dei ragazzini che hanno pubblicato un videogioco su Steam sviluppato nel tempo libero, ma le narrazioni che dicevo sopra sottendono più o meno implicitamente che questa cosa sia un lavoro. Quanto avranno guadagnato, da quel loro progetto? E quanto tempo ci hanno perso, prima di arrivare alla pubblicazione?

Non sto negando il fatto che ci siano casi eccezionali, in cui il videogioco sviluppato nel seminterrato del cugino in tre giorni diviene un fenomeno virale e genera una montagna di soldi. Questi casi esistono e anche nel libro ne ho riportato qualcuno. È utile sapere che ci sono e, in un certo senso, possono anche essere utili, come fonte di ispirazione. Bisogna però fare estrema attenzione nel modo in cui vengono comunicati. Bisogna sottolineare per bene che sono – per l’appunto – casi eccezionali, che non rappresentano assolutamente la norma. Ecco perché ho parlato anche di videogiochi fallimentari, di videogiochi “medi”, di videogiochi a cui è andata bene ma che avrebbero potuto far fare un tonfo incredibile a coloro che li hanno sviluppati. E sono tutte testimonianze pubbliche, ricavate dai postmortem o da dichiarazioni degli sviluppatori stessi.

Immaginate di lavorare due anni a un videogioco, investendoci tempo, energie e soldi, per poi scoprire che è un fiasco commerciale. La sfortuna clamorosa può sempre capitare, al pari della fortuna sfacciata, ma avere il giusto approccio mentale e lavorativo aiuta a ridurre i danni nella maggior parte dei casi. Il che significa entrare in un’ottica di professionalizzazione, in cui mettere in chiaro – prima di tutto a sé stessi – che da quel videogioco bisogna trarci un profitto.

Capisco che sia una prospettiva un po’ inquietante, ma lo è semplicemente perché si viene fin troppo coccolati da discorsi che vanno a ‘venderti’ una realtà differente, in cui esistono solo i casi fortuiti e le mirabolanti storie di successo.

Ma esiste una alternativa?

Questa domanda sarà balzata in mente a qualcuno, se è arrivato a leggere fino a qui. È per forza un prendere o lasciare?

No, non proprio, ma anche qui bisogna capirsi bene e – torno a dirlo ancora una volta – farsi le idee chiare su ciò che si desidera.

Immaginate uno scenario un po’ diverso da quello di prima. Voi tornate a casa dal lavoro, un lavoro che non ha a che fare con i videogiochi. Magari vi trovate a lavorare nella macelleria all’angolo, o in una ditta che produce palline antistress, o qualsiasi altra cosa vi venga in mente. Tornate a casa, dicevo, e nel vostro tempo libero vi mettete a realizzare un videogioco. È possibile, si può fare. Certo, se sperate che esca fuori GTA V siete fuori strada, ma un piccolo videogioco potete crearvelo senza troppi problemi. Se quello è il vostro hobby, il vostro passatempo, potrebbe essere una attività bellissima ed estremamente soddisfacente, da portare avanti senza nessun assillo monetario.

Andiamo avanti a immaginare questa cosa. Finite il vostro videogioco e lo mettete in vendita da qualche parte. Con l’autopubblicazione è molto semplice. Nessuno compra il vostro videogioco? Probabilmente ci rimarrete male, ma economicamente non è un grosso problema, perché la vostra attività lavorativa è un’altra. È la stessa differenza tra un informatico di mestiere e uno ‘smanettone’ per passione. Magari il secondo va una volta dal vicino ad assemblargli il pc e si porta a casa 50 euro per l’operazione, ma non è che questo sia il suo lavoro.

Non è nemmeno una divisione in compartimenti stagni assolutamente irraggiungibili fra loro. Ci si può sempre professionalizzare, se una attività portata avanti come hobby comincia a diventare un qualcosa di più, ma bisogna sempre avere la propria mente ben indirizzata, come una bussola, su dove si vuole andare.

Con queste poche righe non voglio scoraggiare nessuno. Tantomeno col manuale. Ho appositamente inserito al suo interno tante testimonianze di persone che lavorano nel settore per raccontare anche quale sia la fascinazione delle sfide a cui vanno incontro. Così come ho inserito anche casi interessanti, curiosità e situazioni particolari legate a questa galassia lavorativa.

Al tempo stesso, però, ho sentito il dovere di ricalibrare certe narrazioni fin troppo entusiastiche o semplicistiche. Perché c’è anche chi ti dice che, sì, è difficile, ma solo per qualche tecnicismo della situazione, come se fosse un sapere esoterico e settario, che una volta compreso ti spalancherà in automatico tutte le porte. C’è una parte di verità, ma senza il giusto approccio si possono conoscere tutti i tecnicismi che si vuole e non riuscire a combinare nulla. Taccio poi di tutte le storie motivazionali pensate per ‘accalappiare’ persone affascinate dal mondo dei videogiochi.

Uno spoiler per chi volesse leggere il manuale Lavorare con i videogiochi: lì dentro non c’è nessun catoblepa. Ma potreste trovare qualche suggerimento per non diventarlo, oltre a una panoramica su come funzionano i vari lavori che ruotano dentro e intorno a questa industria.

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