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Appunti di dusiologia videoludica

Parlare di dusiologia videoludica è un problema, sotto vari punti di vista.

C’è, in primo luogo, una questione definitoria che deve essere affrontata, prima ancora di arrivare alle specificità dei videogiochi.

Il più grande – e forse unico – esperto al mondo di dusiologia è Marco Carrara, anche noto come Duca di Baionette, il quale intende dimostrare l’importanza delle elfe e la possibilità di fondare un mondo fantasy con tutti i cliché delle storie harem, basato sulle suddette elfe, sensuali e vogliose. La dusiologia è la disciplina che si occupa di studiare tutto ciò.

Però la questione non riguarda solo le elfe. Non è mia intenzione, qui, contrastare apertamente l’auctoritas. Mi permetto semmai di indossare i panni del chiosatore, per andare a postillare e chiarire meglio quanto si dirà in seguito. Perché noi non parleremo di elfe, ma di demoniette. E lo faremo applicando il tutto ai videogiochi. Ma partiamo dall’inizio.

Da dove deriva il termine dusiologia?

Appunti di dusiologia videoludica

La storia di un nome

La dusiologia prende il suo nome da Dusios, una creatura della mitologia dei Galli che venne accostata sia ai fauni sia ai demoni. Sant’Agostino, per esempio, scriveva «daemones, quos Dusios Galli nuncupant» (De civitate Dei, XV, 23,). Faccio notare che, in ogni caso, si sta qui parlando di entità maschili, in merito alle quali si discute delle loro possibili unioni con donne mortali. Le parole di Sant’Agostino vennero riprese, tra gli altri, da Benedetto Bonelli nel 1751, all’interno del suo Animavversioni critiche sopra il notturno congresso delle lammie, per modo di lettera indiritte ad un letterato.

Ci si chiedeva se i fauni, i dusii, gli incubi e altri ancora fossero in realtà la stessa cosa espressa con termini differenti, oppure qualcosa di effettivamente differenziato. Ci si trovava tra l’altro all’interno di una polemica che contrapponeva Bonelli al Tartarotti, per l’appunto autore di Del congresso notturno delle Lammie, nel quale intendeva smontare le credenze relative alle streghe. Non che fosse una novità assoluta, anzi. Già nel Decretum di Burcardo, vescovo di Worms, si leggeva che:

«hai forse creduto anche tu all’esistenza di una donna che la superstizione popolare chiama “strega”? Di notte, a sentire quanto van dicendo alcune indemoniate che sono sospinte a far altrettanto, questa donna, con frequenze periodiche, in compagnia di una caterva di demoni trasformati in donne, cavalca alcune bestie, tanto da essere annoverata tra la schiera degli stessi demoni. Se l’hai creduto, farai un anno di penitenza nei giorni stabiliti» (Picasso, Piana e Motta, 1986, p. 84).

Oppure, più avanti nello stesso testo: «anche tu, come alcune donne, hai creduto d’avere il potere, insieme ad altre adepte di Satana e nel silenzio di una notte tutta particolare, e malgrado le porte chiuse, di sollevarti fino alle nubi e lì combattere contro altre donne con reciproche ferite? Se vi hai creduto, due anni di penitenza nei giorni stabiliti» (Picasso, Piana e Motta, 1986, p. 101).

Si veniva quindi puniti non perché si praticava la stregoneria, ma perché si credeva a quella baggianata della stregoneria. Questo però avveniva nel medioevo, cioè – cosa che in molti tendono a dimenticare – prima che iniziasse il periodo dell’effettiva caccia alle streghe. In tal senso è allora comprensibile che, ancora a metà del 1700, ci fosse chi si combatteva a colpi di trattati e opuscoli in merito alle streghe. Detto ciò, anche il medioevo non era ovviamente monolitico, in merito a certe posizioni, per cui ci furono alternanze fra coloro che ritenevano voli notturni e sabba solo delle allucinazioni demoniache, e coloro che invece li ritenevano reali. Per una prima ed essenziale panoramica sul tema si può vedere Parri (2018, pp. 127-135). Sempre in termini generali, si ricorda che è grosso modo nella seconda metà del Quattrocento che il sabba non è più solo «un sogno ingannevole ispirato dal diavolo [perché ora si crede che] le streghe ci vanno realmente per le vie dell’aere, vi rendono omaggio a Satana e si uniscono carnalmente con lui» (Schmitt, 2004, p. 140).

Comunque sia, la questione qui non riguarda tanto le streghe, ma questi dusii e la loro eventuale parentela con satiri, ‘scimmioni’, incubi e quant’altro. C’è anche la questione della bestialità, dei rapporti con gli animali, come intuibile già da alcuni di questi termini. Perlomeno in alcuni contesti, legati soprattutto a una dimensione popolare, i rapporti coi demoni e il sabba vengono progressivamente bestializzati, ma al tempo stesso anche la bestialità viene demonizzata (Liliequist, 2006).

Vediamo anche meglio cosa fosse questo Dusios, originariamente, con le parole di Lecouteux, che ci fornisce una ricostruzione piuttosto dettagliata:

«Dusius comes from the Indo-European root *dheuos-/*dhus-, which is also that of “god” (theos, deus). In Sanskrit, the closest term to this root means “demon,” a meaning that we find likewise in the Westphalian dûs. In the early Middle Ages, dus-appeared in England in the form –tesse in the compound word haegtesse, and in that of –zussa (Old High German) in hagazussa. These two Germanic terms are feminine, and they are used to gloss “Erynies, Eumenides, Furies, Parcae, pythonesses,” and “daughters of the night.” In the thirteenth century, the term is attested in the Netherlands in the form haghedisse, which has the meaning of “witch”» (Lecouteux, 2018, edizione digitale).

Si prendono insomma semidei, spiriti silvestri e creature boschive e li si demonizza, accostandoli agli incubi, i demoni maschili che di notte farebbero visita alle donne, o ad analoghe creature femminili. Tra parentesi, ci sarebbe anche da ricordare che gli incubi latini erano un po’ diversi, ma non complichiamo ulteriormente le cose.

Vorrei partire da questo punto per porre in risalto l’oculata scelta di Marco Carrara nell’atto fondativo della dusiologia, in quanto ha saputo scegliere una figura che si pone a cavallo fra numerose tradizioni differenti, e attraverso questo sarà anche possibile comprendere meglio la questione delle elfe. Andiamo con ordine.

Si è detto che Dusios apparteneva alla tradizione celtica. Ma si è anche detto che fu ben presto inserito in discorsi cristiani riguardanti i demoni, e non solo. Sant’Agostino, nel suo già citato passaggio del De Civitate Dei, cita infatti i dusii per parlare di Genesi 6, in cui sono presenti queste entità che si uniscono alle «figlie degli uomini» (Gn 6,2). Qui si aprirebbe tutta un’ampia questione su chi o cosa fossero esattamente i «figli di Dio» che si unirono a queste donne, perché emergono giganti, angeli caduti e tanto altro, ma ci interessa sottolineare il termine nefilim (o nephilim), con cui sono identificati nella Torah. Ed è un termine su cui avremo modo di ritornare. Poi, ancora, ci sono fauni, satiri, silvani e dintorni, legati da più di un autore sia agli incubi sia ai dusii.

È per esempio il caso degli Otia Imperialia del 1214: «Siluanos et Panes, quos incubos nominant, Galli vero Dusios dicunt» (Gervasio di Tilbury, 2010, p. 256). C’è inoltre il già citato legame con il mondo demoniaco, al quale si unisce anche un’importante questione di genere: i dusii sono cioè accostati sia a figure maschili sia a figure femminili. Sebbene infatti i dusii appaiano più come degli spiriti maschili, essi sono anche accostati a strigae, lamiae, geniciales feminae e figure analoghe (Schmitt, 2004, p. 48). Un doppio legame che prosegue anche sul piano onirico, dove, «in un’ulteriore sovrapposizione di modelli culturali – l’incubo cristiano (o, piuttosto, nella sua versione femminile, la succube), ossia la figura mitologica del sogno erotico demonizzata dal cristianesimo» (Barucci, 2012, p. 116).

Più precisamente, i dusii inizialmente erano associati a quegli spiriti (demoniaci) che assumevano le sembianze dei mariti per giacere con le donne, ma in seguito si sarebbe anche visto l’accostamento con i corrispettivi femminili. A meno che non venisse concepita una qualche mostruosità, peraltro, risultava piuttosto difficile decretare con precisione l’effettivo rapporto con un incubo o con una succube (Stephens, 2001). Una polluzione notturna era semplicemente l’effetto di un sogno erotico (ispirato dal demonio, certo, ma non paragonabile a un rapporto con un demone) o testimoniava la visita di una succube? Come prova era un po’ debole.

E le elfe?

Torniamo a Gervasio di Tilbury, il quale utilizza il termine provenzale fadas, fate, nel parlare degli uomini che si congiungono con questi spiriti aerei in vario modo nominati. Uomini che vivrebbero felici, finché restano con tali fate, ma che sono anche destinati a morte prematura. Abbiamo dunque la “fata”, che qui non è tanto un’esponente del Piccolo Popolo, quanto nuovamente un qualcosa che si avvicina alla succube. Ricordiamo del resto che non esiste solo la “fata” di matrice irlandese, ma ci sono anche creature in vario modo ben più vicine alle raffigurazioni demoniache.

Ricordo per esempio quanto scritto da Cesare Catà sulle fate dei Sibillini: «se, al posto delle delicate ali leggiadre delle fairies irlandesi, troviamo nelle fate sibilliniche dei rudi, inquietanti polpacci e piedi pelosi di capra, ciò avviene perché siamo di fronte a differenti “meccanismi di condensazione” che scaturiscono, come ho detto, da diversi processi culturali. Il significato simbolico dell’archetipo della fata rimane tuttavia, al fondo, il medesimo» (2016, p. 118). Inutile sottolineare il legame dei piedi caprini con il demonio. Torniamo, però, alle succubi.

Le succubi si impossessano del seme maschile. Per cui ne impediscono la maturazione. Si parlava infatti di un «seme fecondo, cotto et bene stagionato» (Huarte, 1582, p. 352) in opposizione al seme fiacco di molti uomini maturati che «non guardano mai di maturare il seme» (ivi). Per cui immaginate il dramma, per una persona intenzionata a far maturare il proprio seme, che si trovasse improvvisamente visitato da una succube, pronta a sottrarglielo. Anche la pericolosità della succube, il suo legame con la morte, sta tutto qui, secondo le credenze che legavano lo sperma alla vita:

«Per Shakespeare e i suoi contemporanei, gli spiriti vitali di un uomo sono contenuti nel suo seme, e questo è di quantità finita, così che ogni esborso diminuisce il totale, e quindi la vita rimanente: ogni orgasmo è una piccola morte. in inglese, “morire” e “raggiungere l’orgasmo” erano racchiusi nello stesso verbo: to die» (Cattaneo, 2019, p. 250).

Ma i legami tra fate ed incubi/succubi non si fermano qui. Leggiamo per esempio che «Interestingly, in Alsace the Virgin is honored at a place that has been called Dusenbach recalling Gervase’s dusii since the thirteenth century. Dusenbach might be translated as the River (Bach in German) of the Incubi or, to use another word, fairies» (Walter, 2014, p. 138. Corsivi miei).

Ci sono sovrapposizioni di ogni sorta. Tra cristianesimo e paganesimo, ma anche tra folklore, mito e religione. Come ricordava Giuseppe Cocchiara nel suo vecchio ma sempre degno studio, il famoso Malleus Maleficarum altro non è che «la più ricca enciclopedia, che noi abbiamo intorno ai pregiudizi del secolo XV e non soltanto della Germania» (2016, p. 62). Così come satiri e fauni si mescolano con i demoni, così fanno anche le fate e le altre creature del Piccolo Popolo.

A proposito, il suddetto Malleus Maleficarum ci ricorda che « The reason why demons make themselves into incubi or succubi is not for the sake of pleasure, since a spirit does not have flesh and bones, but the strongest reason is that through the fault of debauchery they may harm the nature of both aspects of man (the body and the soul), so that humans will in this way become more inclined to all faults» (Mackay, 2009, p. 127). I demoni non lo facevano per divertimento, insomma, ma le cose sarebbero cambiate.

Nell’attuale contesto postmoderno la riproposizione dei rapporti carnali coi demoni è in molti casi differente. Non solo: le sopra citate mescolanze hanno raggiunto una nuova dimensione, ed ecco perché Marco Carrara – sapientemente – ha scelto proprio le elfe del fantasy cliché come emblema della dusiologia, sebbene una certa parte della tradizione parrebbe spingere verso altre figure, come le succubi. Questo perché è il nome stesso selezionato, il mitico Dusios con tutte le sue declinazioni, a contenere in sé questa adattabilità poliedrica e proteiforme.

Nel panorama contemporaneo ci sarebbero molti prodotti da analizzare, per il loro legame con la dusiologia. Qui ci limiteremo ad alcune considerazioni sul mondo videoludico, prendendo in analisi un caso di particolare rilevanza.

Helltaker, ovvero il manifesto della dusiologia videoludica

Parliamo subito di quello che può essere considerato il manifesto della dusiologia nei videogiochi. Si tratta di Helltaker, un breve ma significativo videogioco polacco, sviluppato da vanripper e pubblicato nel 2020. L’obiettivo di questo videogioco è quello di scendere agli inferi per creare un harem di sensuali demoniette.

Helltaker, oltre a essere gratuito e debordante di recensioni positive su Steam, offre tutti gli elementi necessari per aiutarci a definire quelle che sono le caratteristiche necessarie a un prodotto dusiologico (non solo videoludico, peraltro: avremo modo di fare almeno un paio di esempi anche esterni). Avremo modo di lanciare varie questioni che riprenderemo poi in una tabella riassuntiva, di potenziale utilità per future tassonomizzazioni dusiologiche. Alla base di tutto c’è l’opposizione tra le elfe e le diavolette, che qui ci limitiamo a citare, sia perché si sono già fatti numerosi discorsi teorici più su, sia perché è chiaro in quale ambito stiamo andando a collocarci, con Helltaker.

Prima di tutto si ha la possibilità di riflettere sulla scelta di campo tra “amore” e “sesso”. In molti casi, come sottolineò Khandaker-Kokoris (2014, p. 112) si tende a sovrapporre i videogiochi legati all’amore e quelli legati al sesso. Il che è un problema. C’è infatti il rischio di depauperare entrambe le componenti chiamate in causa (Tagliaferri, 2015), come succede nei vari giochi con una romance che culmina in un atto sessuale più o meno intravisto. Ciò avviene soprattutto quando tutto ciò è una componente aggiunta a un qualche videogioco più ampio (un GDR, per esempio).

Diversi dating sims, al contrario, sono molto più focalizzati sulla componente amorosa e hanno modo di svilupparla con maggior concretezza, generando un’attrattiva che si fa forte del fatto che, alla fine, è sicuro che si verrà amati se si faranno le giuste azioni (Isbister, 2017, p. 32). Allo stesso modo, sull’altro versante, alcuni dei videogiochi presenti su Nutaku sono molto focalizzati verso un’esperienza erotica videoludica (ma solo alcuni, altri sono un insieme di meccaniche gacha con qualche seno di contorno).

Helltaker è in tal senso interessante. Si apre con una più o meno implicita promessa erotica, legata a questo harem di demoniette. Proseguendo, ci si domanda invece se non sia la componente romantica a prevalere, alla fine di tutto. Magari – spoiler – nel finale segreto con Beelzebub. Ma in realtà, alla fine, il gioco si rivela essere qualcosa di ancora differente. Questa parabola è peraltro seguita anche dal protagonista stesso, che viene presentato come il macho palestrato e nerboruto, perennemente con gli occhiali da sole addosso, solo per ribaltare poi questa immagine. E, su questo, andiamo verso un altro punto.

In secondo luogo c’è la decostruzione ironica della mascolinità stereotipica. Il protagonista del gioco ci viene presentato come un macho che vuole solo sottomettere le diavolette per crearsi un harem, ma il finale ci mostra invece una situazione ben diversa, con il nostro eroe intento a offrire i pancakes che ha cucinato alle suddette diavolette. Il tutto dopo che queste ultime hanno scelto di seguirlo spesso per motivi totalmente opposti rispetto ai desiderata del protagonista.

Potrebbe sembrare un elemento casuale, ma è in realtà molto importante. Lo è per Marco Carrara, la massima autorità nel campo della dusiologia, considerando che in molte delle sue recenti live egli ha speso parole legate alla body positivity per gli stereotipati eroi del fantasy, che meriterebbero in tal senso più cura e attenzione, uscendo da certi frusti schemi rappresentativi di machismo alla Conan. Ma c’è anche il legame con i prodotti non videoludici.

L’esempio più importante è probabilmente Ho messo incinta la figlia di Satana di Carlton Mellick III, uno dei romanzi più rappresentativi di questo autore. Il protagonista di quest’opera incarna una figura maschile che soffre per la sua impossibilità nell’adeguarsi al modello che la società e la famiglia gli impongono. Per questo si è rifugiato lontano da entrambe le cose, costruendosi una casa di Lego e avendo come unico amico un lottatore di sumo sempre ubriaco. Eppure egli si ritrova chiamato in modo inatteso alla paternità, dopo aver ingravidato inconsapevolmente una succube, con la quale creerà una famiglia, dopo molte esitazioni e dopo aver maturato una piena consapevolezza di come sia talvolta necessario andare contro ai dettami della società, della religione e della famiglia non per chiudersi in un solipsistico isolamento (come faceva all’inizio), ma per difendere quelli che sono i valori in cui davvero si crede.

Ho messo incinta la figlia di Satana è in tal senso una delle migliori opere di Carlton Mellick III, una delle quali la componente sentimentale raggiunge la sua dimensione più profonda. Un’altra è senz’altro Stacking Doll, ma con quest’ultima ci allontaniamo dalla dusiologia. Un’ampia fetta dei racconti di Mellick è caratterizzata da un rapporto di coppia basato sulla sottomissione del protagonista (maschio e umano) nei confronti della sua compagna (femmina e non umana) (ne parlo in Toniolo, 2021). In queste due opere, invece, la sottomissione più o meno forzata viene sostituita da una accettazione reciproca e da un percorso di crescita che porta comunque lontano dai modelli di mascolinità che la società impone.

C’è però anche una differenza fondamentale tra Ho messo incinta la figlia di Satana ed Helltaker: il primo porta avanti un modello monogamico, mentre il secondo propone un contesto harem. Verrebbe da dire che Helltaker è più vicino alla produzione manga e anime che ruota intorno alle monster girls, dove la componente harem è in effetti piuttosto diffusa. E, a ben vedere, le diavolette di Helltaker si prestano piuttosto bene a essere inserite nel novero delle monster girls, considerando il loro processo di ‘moeficazione’ (Akgün, 2017). Non è tuttavia una caratteristica univoca nemmeno in tal senso. Un manga come Le mie palle – Proteggerò la mia terra? (Shigemitsu Harada, 2006-2010), per esempio, è un ottimo esponente dusiologico, nel quale però il rapporto è con una singola demonietta, che diverrà infine la moglie del protagonista.

Qui si apre allora una terza e importante questione, che riguarda la biforcazione tra “harem” e “waifu”. Non che le due dimensioni siano sempre e comunque mutualmente esclusive, ma di solito una figura che viene eletta a “waifu” è caratterizzata da un investimento affettivo univoco e selettivo, mentre nel modello “harem” si viaggia in una maggiore indeterminatezza oscillatoria. Inutile ricordare che la stessa situazione è riscontrabile anche in un differente rapporto di gender, con il cosiddetto “husbando” che si contrappone a un “harem” maschile (senza contare tutte le ulteriori declinazioni queer). Le controparti sono presenti in molti più casi di quelli che ci si aspetterebbe. Per ogni Crush Crush c’è un Blush Blush (andate a cercarli, se non li conoscete), senza contare i vari Monster Prom e simili, con una forte unione tra ragazze/i mostro e queerness.

Una quarta, fondamentale, componente è quella del sacrificio. Perlomeno quando la dusiologia appare nella sua declinazione demoniaca, c’è sempre uno scotto da pagare. Helltaker costituisce in tal senso un esempio di particolare interesse, perché trasforma questa componente in una meccanica di gioco. Trovandosi all’inferno, la volontà del protagonista si consuma rapidamente, per cui egli deve ponderare ogni sua azione, o rischia di ritrovarsi prosciugato. Questa è una perfetta trasposizione di ciò che da sempre caratterizza i rapporti con le succibi. Si è detto che le succubi sottraggono lo sperma, e che lo sperma rappresenta la vita: più esso viene consumato e più si accorcia la propria esistenza. Quale premessa migliore per impostare dei livelli che devono essere completati entro un numero definito di mosse, pena l’annientamento del protagonista?

Qualche spunto per il futuro

La dusiologia è una disciplina nuova. Per questo, può essere interessante seminare qualche spunto di riflessione che – chissà – magari qualcun altro andrà a recuperare, man mano che il sapere dusiologico andrà diffondendosi.

Ecco allora, qui di seguito, appunti sparsi e considerazioni. Oltre alla tabella con un breve sunto su quanto detto in precedenza, e che potrà essere di utilità come base di partenza per ulteriori indagini.

I seguenti punti possono combinarsi in vario modo e non sono per forza mutualmente esclusivi. Si può avere, per esempio, una storia harem all’interno della quale finisce tuttavia per emergere una singola waifu. Allo stesso modo, le colonne sottostanti non sono da intendersi come abbinamenti preferenziali. Si tratta semplicemente di andare a visualizzare le principali suddivisioni.

Tabella riassuntiva

Detto questo, vediamo che altro si potrebbe fare, a proposito della dusiologia videoludica.

C’è in primo luogo da considerare maggiormente le elfe, tramite lo studio di videogiochi come Aisling and the Tavern of Elves.

In secondo luogo sarebbe utile un ampio e accurato studio sulle meccaniche di gioco, su come esse vadano a tradurre in forme coerenti di gameplay quelli che sono i principi della dusiologia. Abbiamo avuto modo di fare un breve esempio, a proposito di Helltaker, con la volontà consumata. Si può e si deve tuttavia estendere il discorso in futuro.

Vale anche la pena ricordare che esistono videogiochi che solo per una parte del loro contenuto rientrano in una prospettiva dusiologica. Un esempio è Mirror di Kagami Works, un misto tra un match 3 e un dating sim erotico. Un po’ come Huniepop, giusto per capirsi. La parte del gioco legata all’elfa oscura ha per certo una forte componente di dusiologia, ma il resto del gioco se ne discosta.

Ci sono poi videogiochi che hanno un potenziale implicito di dusiologia. Come la serie Diablo. Nel libro di Cain si legge dell’amore tra l’angelo Inarius e la demoniessa Lilith (la figlia di Mephisto). Dall’unione di angeli e demoni come loro sarebbero nati i nefilim (ve li ricordate? Li abbiamo citati in precedenza).

Ci sarebbe, infine, da compiere una mappatura di tutte le presenze minori di succubi, demoniesse e simili che compaiono nei videogiochi, visto che tanti prodotti soprattutto fantasy le presentano come nemici. Prendo un singolo esempio di un videogioco poco noto: Rage of Mages 2.

Bibliografia

Akgün Buket, Mythology moe-ified: classical witches, warriors, and monsters in Japanese manga, «Journal of Graphic Novels and Comics», 11(3), 2017, pp. 271-284.

Barucci Guglielmo, Simile a quel che talvolta si sogna: i sogni del Purgatorio dantesco, Le Lettere, Firenze 2012.

Bonelli Benedetto, Animavversioni critiche sopra il notturno congresso delle lammie, per modo di lettera indiritte ad un letterato, Simone Occhi, Venezia 1751.

Catà Cesare, Filosofia del fantastico. Escursione tra i monti sibillini e l’Irlanda sul concetto di fantasia. Seconda edizione riveduta, Il Cerchio, Rimini 2016.

Cattaneo Arturo, Shakespeare e l’amore, Einaudi, Torino 2019.

Cocchiara Giuseppe, Storia del folklore in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2016 (1952).

Gervasio di Tilbury, Otia imperialia. Libro III. Le meraviglie del mondo, Fortunata Latella (a cura di), Carocci, Roma 2010.

Huarte Juan, Essame de gl’ingeni degli huomini per apprender le Scienze, Camillo Camilli, Venezia 1582.

Isbister Katherine, How Games Move Us. Emotion by Design, MIT Press, Cambridge 2017.

Khandaker-Kokoris Mitu, NPCs Need Love Too: Simulating Love and Romance, from a Game Design Perspective, in Jessica Enevold ed Esther Maccallum-Stewart (a cura di), Game Love. Essays on Play and Affection, McFarland, Jefferson 2015, pp. 111-124.

Lecouteux Claude, The Hidden History of Elves and Dwarfs: Avatars of Invisible Realms, translated by Jon E. Graham, Inner Traditions, Rochester, 2018.

Liliequist Jonas, Sexual Encounters with Spirits and Demons in Early Modern Sweden: Popular and Learned Concepts in Conflict and Interaction, in Gabor Klaniczay e Eva Pocs (a cura di), Christian Demonology and Popular Mythology, Central European University Press, 2006, pp. 152-169.

Mackay Christopher, The Hammer of Witches. A Complete Translation of the Malleus Maleficarum, Cambridge University Press, Cambridge 2009.

Parri Ilaria, La magia nel Medioevo, Carocci, Roma 2018.

Picasso Giorgio, Piana Giannino, Motta Giuseppe (a cura di), A pane e acqua. Peccati e penitenze nel Medioevo, Europia, Novara 1986.

Schmitt Jean-Claude, Medioevo «superstizioso», trad. it. di Maria Garin, Laterza, Roma-Bari 2004.

Stephens Walter, Incredible Sex: Witches, Demons, and Giants in the Early Modern Imagination, in Jewell Keala (a cura di), Monsters in the Italian Literary Imagination, Wayne State University Press, 2001, pp. 153-176.

Tagliaferri Simone, La rappresentazione del sesso all’interno dei videogiochi, in Luca Papale e Francesco Alinovi (a cura di), VirtualErotico. Sesso, pornografia ed erotismo nei videogiochi, Unicopli, Milano 2015, pp. 129-152.

Tartarotti Girolamo, Del congresso notturno delle Lammie, A spese di Giambatista Pasquali, Libraro e Stampatore in Venezia, 1749.

Toniolo Francesco, Cacciatrici, amanti, antropofaghe: le figure femminili in Carlton Mellick III, «Polythesis. Filologia, interpretazione e teoria della letteratura», 2, pp. 41-56. Presente nella pagina delle pubblicazioni qui sul sito.

Walter Philippe, Christian Mythology: Revelations of Pagan Origins, translated by Jon E. Graham, Inner Tradition, Rochester, 2014.

I videogiochi survival horror: la storia – parte 5

Nella parte 4 della storia dei survival horror videoludici ci eravamo soffermati su due cose in particolare: Amnesia: The Dark Descent da un lato e i videogiochi di Slender Man dall’altro. In entrambi i casi abbiamo un fortissimo legame con il mondo del gaming su YouTube. Un mondo che in quegli stessi anni si stava strutturando anche grazie a questi prodotti. Si prosegue ora con questo sguardo sull’horror tra indie e youtuber, passando a un’altra serie che ha avuto una grande importanza: Five Nights at Freddy’s. Si parlerà poi anche di Gone Home, perché apparve ad alcuni come una operazione mimetica nei confronti dei survival horror.

Quinta parte della storia dei survival horror videoludici

Five Nights at Freddy’s: bambini, youtubers e vigilanza

Amnesia: The Dark Descent era nato come progetto interno a un team che già si occupava di videogiochi horror, in quello che è forse considerabile l’effettivo momento di nascita dei grandi canali di gaming, di cui ha accompagnato e in parte indirizzato la crescita. I videogiochi di Slender Man si erano sviluppati come una naturale evoluzione di quel crescente universo crossmediale legato a questo personaggio. Le centinaia di “cloni” e variazioni sul tema da loro generati sono stati in grado di fornire un abbondante materiale agli youtubers. Five Nights at Freddy’s (Scott Cawthon, 2014) è nato invece praticamente per caso dall’incontro fra un videogioco per bambini e uno youtuber, e grazie a YouTube si è diffuso poi con estrema rapidità nonostante le ridotte dimensioni del progetto.

Nel maggio 2014, il critico e youtuber Jim Sterling pubblica un video (2014) in cui analizza il trailer di un videogioco presente su Steam Greenlight. In questo caso il videogioco è Chipper & Sons Lumber Co. (Scott Cawthon, 2013), un gioco per bambini con protagonista un castoro, già rilasciato in versione mobile. Sterling critica aspramente la grafica del gioco e soprattutto il design dei personaggi, i quali dovrebbero risultare carini e attraenti, ma appaiono invece uncanny, inquietanti. Probabilmente, ironizza il critico, si tratta in realtà di uno strano e spaventoso mondo post apocalittico in cui sono rimasti solo dei robot. Sul momento, al di fuori di questo video, nessuno presta troppa attenzione a quello che sembra soltanto l’ennesimo progetto di scarso interesse presente sul Greenlight, realizzato da uno sviluppatore con già molti videogiochi all’attivo, ma nessuno di successo.

Ad agosto dello stesso anno viene però pubblicato Five Nights at Freddy’s, sempre realizzato da Scott Cawthon. Il videogioco, che ottiene un ampio e immediato successo, presenta come nemici degli spaventosi animatronics assassini. Queste figure iconiche costituiscono uno degli elementi di maggior interesse del videogioco, anche grazie alle reactions degli youtubers dinnanzi agli improvvisi assalti delle creature. In un’intervista, alla domanda sull’origine di questa idea degli animatronics, Scott Cawthon ha fornito la seguente risposta:

«I’d made a family friendly game about a beaver before this, but when I tried to put it online it got torn apart by a few prominent reviewers. People said that the main character looked like a scary animatronic animal. I was heartbroken and was ready to give up on game-making. Then one night something just snapped in me, and I thought to myself- I bet I can make something a lot scarier than that». (in Couture, 2014. Corsivi miei).

Cawthon è riuscito a trasformare le critiche rivolte a un suo videogioco nel punto di forza di un differente prodotto. Laddove un personaggio uncanny può rovinare un videogioco per bambini, lo stesso design può contribuire alla riuscita di un horror. Cawthon non cita Jim Sterling, nell’intervista, ma molto probabilmente ha in mente (anche) il noto critico, trattandosi forse della persona con la maggior notorietà che aveva parlato di Chipper & Sons Lumber Co. prima dell’uscita di Five Nights at Freddy’s, criticando peraltro l’aspetto inquietante e “robotico” dei personaggi.

L’anno seguente Cawthon ha commentato «Jim, I love you man! ;)» nel video di Jim Sterling (2015) su Five Nights at Freddy’s 3 (Scott Cawthon, 2015). Il commento è stato percepito come ulteriore prova della primaria rilevanza di Sterling fra le voci critiche rivolte al precedente gioco dello sviluppatore. Jim Sterling, tornato due anni più tardi sulla vicenda per commentarla (2016), si è detto felice per l’inaspettato andamento della situazione. Il critico ha anche definito Cawthon un esempio per tutti gli sviluppatori indipendenti.

L’episodio ha un valore tutto sommato aneddotico, ma contiene al suo interno buona parte dei fattori che hanno determinato il successo di Five Nights at Freddy’s: gli animatronics, i bambini, gli youtubers.

Five Nights at Freddy’s, in primo luogo, è considerabile un horror per bambini. Non dal punto di vista dei sistemi di classificazione o dei genitori, ma il fatto stesso che molti si siano interrogati sull’opportunità di lasciar giocare i propri figli a questo videogioco ne suggerisce la popolarità fra i giovanissimi. Osservando per esempio la parental guide di Imdb il gioco è sconsigliato ai minori di dodici anni. Secondo i vari sistemi di classificazione il videogioco è consigliato per bambini con più di dieci o quindici anni, a seconda del territorio considerato.

Inoltre il commento più popolare al video di Jim Sterling dedicato a Five Nights at Freddy’s 3, scritto da TotalBiscuit, sottolinea ulteriormente questo successo: «5 Nights is a weird one. I was surprised when I heard my 11 year old talking about it. Apparently, that’s all the kids play on the school bus. They all get out their phones and play 5 Nights then discuss the strange lore theories that people have about it. I think it’s one of the first times I’ve felt completely left behind by something in gaming» (2015).

Questo successo è correlabile a diversi fattori, fra cui la presenza degli youtubers e l’elemento della “prova di coraggio”. Di questo si era già parlato nella parte 4 a proposito di Slender Man (Pruett, 2015). I bambini parlano fra loro del gioco e lo provano per dimostrarsi coraggiosi. È del resto un videogioco facilmente accessibile ed economico, di cui esistono anche delle versioni gratuite (come nel caso di Slender Man). Un bambino troppo spaventato per giocarci, o impossibilitato a farlo, può comunque conoscerne il mondo di gioco attraverso i filmati degli youtubers (Hernandez, 2015). Così contribuisce ugualmente a diffondere la popolarità del gioco tramite pratiche discorsive (come, nuovamente, nel caso di Slender Man).

Ciò che Five Nights at Freddy’s aggiunge, rispetto a Slender Man, sono gli animatronics. Osservando anche le discussioni online (si veda per esempio questa discussione su Reddit: u/FruityPebblesAndHam, 2016) sulla popolarità di Five Nights at Freddy’s fra i giovanissimi sono più che altro questi gli elementi citati, youtubers e animatronics.

Slender Man presenta una ricchissima lore, facilmente espandibile, ma è un singolo personaggio. Gli animatronics sono invece numerosi e tutti diversi per aspetto e personalità, immediatamente riconoscibili e distinguibili fra loro, iconici al pari di diversi mostri cinematografici (Bycer, 2015). Sono inoltre riconducibili alle logiche collezionistiche di molti reali giocattoli che hanno riscosso grande successo negli ultimi decenni, come He–Man, i Pokémon e i Gormiti.

Il loro aspetto uncanny li rende inoltre collocati a metà fra due pratiche che possono entrambe essere facilmente sviluppate: renderli più spaventosi o amichevoli. Sono anche facilmente rintracciabili le loro versioni sessualizzate, anche su piattaforme come YouTube o DeviantArt, senza addentrarsi in siti dedicati a qualche specifico feticismo. Questo fatto non costituisce, comunque, una particolare sorpresa. Numerosi altri personaggi di prodotti per bambini o ragazzi vengono sessualizzati in certe community online, e gli animatronics di Five Nights at Freddy’s, in quanto animali robotici, si legano facilmente al fandom furry, produttivamente molto attivo anche a proposito di contenuti erotici.

Anche solo limitandosi a YouTube, senza considerare fanfics e altre produzioni dal basso, sono tantissimi i video con milioni di visualizzazioni in cui gli animatronics sono amichevoli, simpatici. Diversi video come Typhoon Cinema (2015) e Don’tJokeAround – FNAF & BENDY ONLY (2015) presentano gli animatronics della serie in quest’ottica, e hanno accumulato milioni di visualizzazioni. Così come ne esistono diversi altri in cui viene potenziata la loro natura orrorifica. Se questi ultimi possono interessare un pubblico più adulto, o essere utilizzati come “prova di coraggio”, la loro versione amichevole può essere considerabile, per i bambini, qualcosa di simile all’interesse per i dinosauri: creature potenti e spaventose che sono però sotto il controllo del bambino, che gli sono amiche.

Risultano estremamente popolari anche altri contenuti come le canzoni dedicate a Five Nights at Freddy’s. Le più note sono quelle di The Living Tombstone, noto per i suoi remix musicali dedicati a prodotti di successo come My Little Pony: Friendship is Magic e i lungometraggi animati Disney. Il suo video col maggior numero di visualizzazioni (circa 220 milioni a giugno 2021) è dedicato proprio a Five Nights at Freddy’s (The Living Tombstone, 2014).

In alcuni casi si sono creati dei nuovi filoni, a loro volta generativi, nati dall’idea di un determinato canale che viene imitato da diversi altri. Un esempio è legato ai video “My Dear Friend” (come Blu’s Studio, 2018; Smoke the Bear, 2018; Jaze Cinema, 2018), i quali seguono una sorta di canovaccio comune. Ogni video racconta una storia di amicizia fra un animatronic e una bambina (più raramente un bambino), spesso legata a un elemento temporale. Talvolta la bambina trova l’animatronic danneggiato e, ricordando i giorni felici trascorsi insieme, cerca di aggiustarlo. In altri casi è l’animatronic a ricordarsi della bambina e, in nome di quei ricordi, si mette sulle sue tracce, le porta un regalo o la salva da un pericolo. Anche quando questi robot vengono presentati come pericolosi, viene mostrato che non fanno mai del male ai bambini che sono stati loro amici.

Video analoghi sono rintracciabili già nel periodo immediatamente successivo all’uscita del gioco, ma a distanza di anni sono tornati in auge, diffondendosi. Sourcy (2014), per esempio, è stato pubblicato nel dicembre del 2014 (il primo Five Nights at Freddy’s risale ad agosto dello stesso anno) e mostra una struttura similare: una bambina ritrova, rotto e gettato nella spazzatura, l’animatronic Bonnie, con cui aveva trascorso dei momenti felici in passato. Bonnie viene raccolto, aggiustato (dall’ingegnere di Team Fortress 2 [Valve, 2007]) e può infine riabbracciare la sua amica. Molti dei successivi video riutilizzano, peraltro, lo stesso modello della bambina presente in questo video.

A fianco di questi numerosi e variegati contenuti sono anche presenti video let’s play e simili. Questi, fin dalla comparsa del videogioco, hanno ottenuto un ampio numero di visualizzazioni e contribuito alla rapidissima diffusione di Five Nights at Freddy’s. Il primo gameplay di Markiplier dedicato a questo videogioco è stato pubblicato il 12 agosto 2014, quattro giorni dopo il rilascio della prima versione di Five Nights at Freddy’s (sulla piattaforma Desura).

Il suo video (Markiplier, 2014), che a giugno 2021 ha superato i novanta milioni di visualizzazioni, due giorni dopo la sua pubblicazione era stato già visualizzato più di un milione di volte (Dato recuperabile tramite wayback machine). In questo gameplay «he screams 94 times in a 17 minute long video, not articulating words properly, and he often gets perplexed, verbalizing 10 no’s in a row, when most startled» (Pietruszka, 2016: 64). Lo youtuber, inoltre, mette in risalto fin dal titolo quanto Five Nights at Freddy’s sia particolarmente spaventoso («WARNING: SCARIEST GAME IN YEARS», tutto in maiuscolo), come ribadisce ulteriormente nella descrizione del video.

L’eccessiva e scomposta reazione di Markiplier al videogioco produce un effetto comico che rende particolarmente piacevole, soprattutto per i bambini, condividerlo con i propri amici per ridere insieme: «When you combine jumpscares with over the top personalities, you get hilarious videos to watch and share with your friends» (Bycer, 2016).

Il video di PewDiePie (2014) su Five Nights at Freddy’s, pubblicato alcuni giorni più tardi (il 22 agosto 2014) condivide diversi tratti con quello di Markiplier (fra cui il titolo in maiuscolo), e sono stati soprattutto let’s play come i loro a far esplodere in un tempo brevissimo la popolarità del videogioco (Bycer, 2016). Il video di PewDiePie ha ottenuto nell’immediato un numero di visualizzazioni più elevato rispetto a Markiplier (oltre quattro milioni in sei giorni). Sul lungo periodo non ha però avuto la stessa crescita (circa 16 milioni a giugno 2021).

Durante il video (5: 20), di fonte a un jump scare, lo youtuber abbandona per un momento l’inglese e lancia un’imprecazione in svedese. Come se fosse uscito per un momento dal personaggio, tornando a essere Felix Kjellberg. Egli stesso aveva dichiarato proprio in quei giorni (Kjellberg, 2014, citato in Fägersten, 2017: 4) che l’utilizzo della lingua inglese è strettamente legato al suo calarsi nel ruolo di PewDiePie. L’utilizzo dello svedese è apparso allora come una sorta di garanzia sull’autenticità degli spaventi che lo youtuber mostra in video.

I jump scares, però, divengono rapidamente prevedibili, e al secondo o terzo video su uno stesso gioco gli youtubers tendono a non reagire più come prima, spostando l’attenzione su altri elementi, ove possibile. In questa prospettiva Five Nights at Freddy’s si è rivelato doppiamente efficace, nel far perdurare l’interesse verso il prodotto.

In primo luogo il gioco nasconde diversi segreti e accenna a eventi mai del tutto chiariti, che possono essere discussi nelle teorie sulla lore. Il video di The Game Theorists (2014) dedicato a questo gioco ha superato i 22 milioni di visualizzazioni a giugno 2021.

A proposito di questo video, inoltre, lo scrittore Massimo Spiga ha scritto che «la precisione talmudica con cui viene condotta l’analisi, più affine allo studio meticoloso dei testi sacri che non alla discussione di un pezzo di cultura pop, ha una qualità elusiva e apparentemente sovrumana: questa caratteristica è il risultato dell’accumularsi di migliaia di interventi e osservazioni da parte della mente-alveare di internet, che spesso raggiunge una onnicomprensività a cui un singolo studioso non potrebbe mai arrivare» (2018: posizioni ebook 593–596). Questo è peraltro solo uno dei numerosi video che il canale ha dedicato alla serie.

In secondo luogo si tratta di un videogioco economico e veloce da sviluppare, fattore che ha permesso a Scott Cawthon di rilasciare rapidamente dei seguiti. Five Nights at Freddy’s 2 (Scott Cawthon, 2014) è stato pubblicato appena tre mesi dopo il primo, Five Nights at Freddy’s 3 (Scott Cawthon, 2015) è uscito dopo altri quattro mesi e Five Nights at Freddy’s 4 (Scott Cawthon, 2015) dopo quattro ulteriori mesi. In circa un anno sono pertanto stati rilasciati i quattro episodi canonici della serie principale, ciascuno dei quali introduce animatronics con un comportamento differente e nuove meccaniche con cui aver a che fare.

I singoli videogiochi risultano delle esperienze brevi, che stancano piuttosto presto, ma la distanza ravvicinata dei seguiti consente di presentare sempre nuovi e inattesi jump scares e risorse da gestire. Dopo un periodo di pausa un po’ più lungo, Scott Cawthon ha inoltre rilasciato gli altri due episodi ufficiali della saga. Questi propongono variazioni sul tema più significative ma contengono comunque diversi scare jumps. Si tratta di Five Nights at Freddy’s: Sister Location (Scott Cawthon, 2016) e Freddy Fazbear’s Pizzeria Simulator (Scott Cawthon, 2017), quest’ultimo ibridato con le meccaniche di un gestionale. Cawthon, infine, ha realizzato dei videogiochi non canonici, come Five Nights at Freddy’s World (Scott Cawthon, 2016) e Ultimate Custom Night (Scott Cawthon, 2018).

Il primo è un gioco di ruolo in cui si controlla un party di animatronics per farli combattere contro diversi nemici; è il meno spaventoso e, pertanto, viene più frequentemente indicato come idoneo per dei bambini piccoli appassionati della serie, i quali possono giocare coi personaggi cui sono affezionati senza subire spaventi improvvisi. Questo videogioco, peraltro, è stato inizialmente rilasciato su Steam come i precedenti, ma Cawthon l’ha poi rimosso, dicendosi insoddisfatto nonostante l’87% di recensioni positive (Weber, 2016). In seguito ha reso disponibile su Game Jolt la versione completa e gratuita del videogioco, il quale è dunque tutt’ora ottenibile. Il secondo riprende la struttura base della serie, rendendola però personalizzabile. È infatti possibile selezionare quali animatronics bisognerà evitare, il grado di difficoltà, l’ambientazione e altri fattori.

Oltre agli elementi citati, Five Nights at Freddy’s è una serie particolarmente adatta a YouTube anche per una componente visuale, la quale può essere intesa come un passo in avanti rispetto agli altri due videogiochi che hanno accompagnato i gamers nella loro fase nascente. Senza voler fare teleologiche letture a posteriori sulla “necessità” di questa evoluzione, è effettivamente presente un ulteriore elemento. Amnesia: The Dark Descent offriva una coinvolgente prima persona fino a quel momento poco sfruttata nei survival horror; i videogiochi di Slender Man hanno inserito una telecamera come elemento di mediazione; Five Nights at Freddy’s ha moltiplicato le telecamere e reso immobile il protagonista.

Five Nights at Freddy’s, al fondo, è un videogioco sulla vigilanza, almeno per quanto riguarda i suoi episodi canonici, tanto sul piano delle meccaniche quanto su quello della narrazione. Si intende qui il termine “vigilanza” in due delle sue accezioni. Sia come «Il fatto di esser vigilante, di comportarsi e agire con grande circospezione e attenzione» (voce Vigilanza in Treccani.it) sia come sinonimo di sorveglianza: «attenzione assidua e diretta rivolta a qualcuno o a qualcosa per tutelare o difendere» (voce Sorveglianza in Treccani.it). A questi potrebbe essere eventualmente aggiunta la terza e più specifica accezione di vigilanza privata e/o vigilanza notturna. In diversi episodi si gioca infatti nei panni di un sorvegliante notturno, intento a sorvegliare una pizzeria (primi due episodi) o un parco divertimenti (nel terzo).

Nei Five Nights at Freddy’s bisogna controllare due o tre punti di accesso al locale in cui ci si trova e, al tempo stesso, tenere d’occhio le telecamere di sorveglianza disposte nell’ambiente, per capire da quale direzione stanno avanzando i nemici. Gli animatronics attaccano all’improvviso, ma è possibile tenere traccia del loro avvicinamento progressivo, il che contribuisce a costruire la tensione. Come ha osservato Thomas Grip, questa scelta colloca il focus sul momento che precede l’incontro col mostro, a differenza di diversi altri survival horror: «This is quite rare in videogames where much of the gameplay happens once a monster starts coming after you. But in most horror movies and books, much of the narrative revolves around what happens beforehand» (Thomas KL, 2017).

Il legame fra prima persona e sorveglianza non stupisce, è ricollegabile al più ampio fenomeno di soggettivazione dell’esperienza con cui vengono facilmente occultate logiche di controllo (Eugeni, 2015: 81), ma questa sua declinazione specifica assume alcune peculiarità. Sorvegliante e animatronics si individuano a vicenda, entrambe le parti possono conoscere o perlomeno intuire la posizione dell’altro. Non si è collocati in un nuovo panopticon in cui i prigionieri non sanno se sono effettivamente osservati, se la controparte è fisicamente presente. Si registra inoltre una sorta di bizzarra inversione di mobilità.

Gli animatronics, nella realtà saldamente ancorati al pavimento, scorrazzano liberamente all’interno del complesso, mentre il sorvegliante umano è ‘inchiodato’ alla sua poltrona. Egli, infine, si trova nella stessa situazione degli youtubers che registrano i gameplay e, tendenzialmente, del pubblico che ne fruisce: seduti, di fronte a uno o più schermi che registrano o trasmettono un evento cui occorre prestare attenzione. La molteplicità di stimoli in contemporanea risulta peraltro ancor più stringente in relazione ai video live, dove spesso lo streamer deve prestare attenzione al gioco, alla chat, alle donazioni e a eventuali altri elementi.

Gone Home: giocare con gli stilemi del genere

Il “caso” di Gone Home, merita qui una parentesi all’interno del percorso evolutivo dei survival horror. Ed è utile farlo qui, al termine di questo ‘blocco’ del percorso dedicato al genere su YouTube.

Gone Home non appartiene al genere, e sarebbe difficilmente collocabile nell’horror in senso lato, ma solo dopo che lo si è giocato o si è letto qualcosa in merito; in caso contrario può esserci perlomeno un momento (o anche più) di incertezza. «Se guardando le foto del gioco o l’immagine della copertina su Steam avete pensato che Gone Home fosse un gioco horror, siete in buona compagnia; probabilmente lo abbiamo pensato tutti» (Rubbini, 2013a), scrive – non a torto – uno dei recensori che si sono occupati del videogioco.

Risulta infatti piuttosto semplice trovare post di utenti che, anche a distanza di anni, domandano se Gone Home sia un gioco horror, se ci siano finali alternativi con parti più spaventose, e altri simili quesiti. Per inventariare alcuni esempi:

«Is this a horror game? I played like 30 mins of this and I thought it was supposed to be a horror game but I guess it isnt [sic]?» (f1reflygr7, 2013); «is gone home horror? anything like until dawn?» (Skermac, 2016); «il gioco alla fine non è horror a parte per i suoni inquietanti, però vorrei sapere se il finale vero e proprio è appunto horror e se ci sia qualche jump scare (sempre nel finale intendo)» (giorgi974, 2016); «I want to try this game due to it winning game of the year from a couple of places but seeing a little from this game I see it has a scary/horror type feel. Is it really scary?» (Whoop❤AAA | #BananaBoat, 2013); «I remember that Gone Home was kinda pitched as a horror game, I almost got suckered into buying it because I thought it would be like Amnesia» (lucben999, 2018).

Il videogioco contiene effettivamente numerosi elementi che rimandano al genere horror, come la vecchia magione da esplorare di notte, il temporale, la scoperta di passaggi segreti, gli accenni all’occultismo. L’immagine stessa scelta per presentare il prodotto su Steam sembra rimandare immediatamente a una qualche storia di fantasmi. Si tratta di una scelta voluta, indirizzata a mantenere almeno temporaneamente nell’incertezza il giocatore, come ha dichiarato lo stesso Steve Gaynor (uno dei fondatori di Fullbright Company) in un’intervista (Super Bunnihop, 2014).

Questa incertezza è stata in alcuni casi apprezzata, al punto che qualcuno ha definito Gone Home – non ironicamente – il gioco più spaventoso dell’anno (Haas, 2013), perché non viene mai rilasciata la tensione legata all’idea che qualcosa di soprannaturale stia per giungere. In altri casi, alcuni utenti hanno persino parlato di “truffa”, e c’è infine chi ha segnalato lo scollamento fra alcuni elementi e prospettive (la casa di Gone Home, per esempio, è stata da molti elogiata per il suo realismo, ma sotto molti aspetti è in realtà costruita seguendo la logica delle improbabili magioni di Resident Evil, Silent Hill e altri horror: Carroll N.T., 2014).

Questa incertezza, prescindendo dai giudizi su di essa, è effettivamente presente e ricercata, e potrebbe essere indicabile come uno degli elementi che hanno contribuito al successo del videogioco. I fattori dietro all’ottimo andamento di Gone Home sono numerosi e di diversa natura, fra cui la sua capacità di attirare il pubblico LGBT e un oculato utilizzo di saldi e sconti. Considerando il periodo della sua uscita, comunque, anche la componente “horror” sembra aver contribuito in maniera non indifferente.

Gone Home è stato rilasciato nell’estate del 2013, in un periodo di particolare ‘fame’ di horror in prima persona, iniziato durante l’anno precedente nel momento in cui – come visto – si affermano diversi gamers particolarmente seguiti giocando a videogiochi come Amnesia: The Dark Descent. La crescita esponenziale della scena indie, che a breve avrebbe riempito Steam e altre piattaforme, è appena agli inizi, e in un certo senso la domanda supera l’offerta. Per questo motivo vengono portati in video e si diffondono anche videogiochi molto derivativi, piccoli o piccolissimi progetti indipendenti, spesso poco curati, perché risultano comunque utili per alimentare le nascenti serie di gameplay a tema horror.

Videogiochi come Dream of the Blood Moon (The Unbeholden, 2013), The Rake: Hostel (Mark R., 2012), Inside (9ine, 2012), The Lost Souls (Nuclear Games, 2012), Mental Hospital: Eastern Bloc (2DHD, 2012), One Late Night (Black Curtain Studio, 2013), Eyes: The Horror Game (Paulina Pabis & Michał Pabis, 2013), Maere: When Lights Die (Maeregame, 2013), The Midnight Man (Sean Toman, 2013), Stairs (GreyLight, 2013) e molti altri, di alterna qualità, sono rintracciabili con frequenza in diversi canali di gaming come FavijTVtm, Parliamo di Videogiochi, Markiplier e PewDiePie.

Tutto ciò che è in prima persona ed è riconducibile all’horror – e soprattutto a titoli di successo come Amnesia: The Dark Descent o Slender: The Eight Pages – diventa di potenziale interesse per gli youtubers e il loro pubblico, non senza alcune situazioni particolari. Una di queste è legata ad Anna (Dreampainters, 2012), videogioco italiano ambientato in una segheria di Periasc (località della Val d’Ayas). Come ha sottolineato Alessandro Monopoli, fondatore e senior programmer di Dreampainters, in un’intervista:

«Per Anna, la sfida è stata comunicare alla stampa che il gioco era un’avventura grafica e non un horror come Amnesia. Una sfida che non abbiamo vinto, perché veniva sempre paragonato a quest’ultimo, quando avrei preferito che venisse paragonato a The Evil Within, che è un avventura [sic] horror. Molti si lamentavano che in un gioco simile ad Amnesia non ci fossero mostri, ma questo perché era un gioco molto diverso da Amnesia» (Nosenzo, 2015: 143).

Monopoli cita le incomprensioni della stampa, sul fatto che Anna non fosse un gioco come Amnesia o un (survival) horror, ma un’avventura grafica. Anche su YouTube è tuttavia riscontrabile la stessa situazione: «Ellino alle prese con un gioco, stile Amnesia, 100% Italiano!» (Parliamo di Videogiochi, 2012); «I hope you will enjoy this adventure into a survival horror nightmare» (Markiplier, 2012); «Etalyx plays an upcoming indie horror game called Anna» (Etalyx, 2012).

Un “fraintendimento” che peraltro, oltre a risultare comunque piuttosto sensato, ha probabilmente giovato alla visibilità del videogioco, il quale è stato anche giocato da youtubers molto seguiti come PewDiePie e Markiplier. A luglio 2018 Anna conta oltre 160.000 persone che l’hanno avviato almeno una volta su Steam (Games–Achievements–Players, 2018). Alessandro Monopoli diceva, già nel 2013, che «il gioco ha venduto ben più di qualsiasi nostra più idilliaca speranza» (in Rubbini, 2013b), ed è possibile che questo inatteso risultato sia derivato anche dai gamers in cerca di videogiochi horror che lo hanno presentato sui loro canali.

Considerando allora, come detto, il periodo di uscita, un effettivo contributo al successo di Gone Home potrebbe anche esser derivato dagli youtubers che lo hanno inteso come un gioco almeno «a bit spooky» (OfficialNerdCubed, 2013). Questo videogioco potrebbe dunque inserirsi in questa iniziale fase del “survival horror su YouTube”, in cui sono gli youtubers a recuperare gli horror e adattarsi ad essi. Ma emergono anche, al tempo stesso, i primi accenni di un movimento in direzione opposta.

Bibliografia

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Aloy: ecocritica, narratologia e ‘guanciotte’

La seguente analisi scaturisce dai recenti discorsi sui video di Horizon Forbidden West e sulla caratterizzazione di Aloy.

Come in tanti altri casi, è impossibile non notare una polarizzazione molto forte, da “o bianco o nero”, in cui però nessuna delle due parti sembra cogliere effettivamente il punto, il nocciolo.

In buona sostanza, ciò avviene perché simili dibattiti si verificano sui social, in cui la brevità di scrittura e fruizione dei post è inevitabilmente contraria all’approfondimento. E gli articoli sulla questione, in diversi casi a loro volta sbrigativi, si limitano a fotografare un dibattito più che a vedere cosa ci sia al di sotto.

Tutta la questione è nata dalle ‘guanciotte’ che Aloy mostra nel trailer di questo videogioco, che appaiono un pochino più piene rispetto al suo modello in Horizon Zero Dawn.

Questa cosa, da un lato, ha istantaneamente prodotto un gran numero di meme e sfottò. E questi materiali e commenti, come risposta, hanno generato levate di scudi sull’importanza di rappresentazioni femminili più credibili e meno stereotipate, al di fuori della ‘bambolona’ ipersessualizzata.

Ora, metto subito in chiaro che quest’ultimo punto è importante e mi trova concorde, ma se ci si ferma qui si sta solo ribadendo ciò che è autoevidente. Sarebbe semmai molto più utile capire se, e quali, siano le caratteristiche precipue di Aloy che generano certe risposte, da entrambe le parti.

A margine, vorrei anche aggiungere che la tesi della Aloy ‘cicciottella’ (che poi sarebbe difficile definirla tale, ma diamolo per buono) come antidoto alla sessualizzazione è una posizione piuttosto innocente. Perché sarebbe un invito a nozze per coloro che seguono un numero di feticismi piuttosto ampio e differenziato. Mi limito a dire che praticamente qualsiasi personaggio femminile (e, sempre più, anche quelli maschili) dei videogiochi già viene ‘inciccito’ in numerose fanart. A partire da Aloy stessa.

Ma, come detto, questa è la buccia della questione. Si trova già abbastanza gente pronta a scannarsi su questa cosa e fin quando ci si ferma qui è solo un dibattito di “mi piace” vs “non mi piace”. Magari un po’ più condito con quelle che rimangono però pur sempre opinioni dettate da gusti personali.

Gusti giustissimi, sia chiaro, ma non sono una base solida per un effettivo ragionamento. Un ragionamento che deve servire non tanto a eleggere un vincitore del dibattito (spoiler: non ci sono vincitori né vinti), ma capire perché quest’ultimo si è innescato.

Per fare ciò, è doveroso partire da quel che è stata Aloy in Horizon Zero Dawn.

Due precisazioni forse ovvie, prima di cominciare. La prima è che ci saranno spoiler. La seconda è che non si sta tenendo conto qui di eventuali questioni ‘morali’ legate al dibattito. Non perché non siano rilevanti, ma perché in molti altri contesti si è parlato solo di quello.

Aloy: ecocritica, narratologia e guanciotte

Dubbi ecocritici, briganti massacrati e signori del male

Aloy è stata in più occasioni (per esempio Forni, 2017; Parenzi Vieira e Mota, 2018) identificata come un modello positivo di superamento dei tradizionali ruoli di genere.

Da questo punto di vista è sicuramente un personaggio che può essere definito come motivante, fonte di ispirazione, un modello da seguire.

D’altra parte, Aloy è anche inserita in un videogioco che – pur essendo certamente ricco di pregi – presenta alcuni elementi narrativi che aprono a qualche dubbio in più. Per cui, se ci spostiamo su un altro piano, al di fuori della rappresentazione di genere positiva e propositiva, bisogna fare dei discorsi ulteriori.

C’è un primo aspetto, molto importante, che riguarda molto più la struttura di gioco e la visione del mondo, che lo specifico personaggio di Aloy. Per cui questo aspetto finisce comunque per riguardarla, ma solo in qualità di protagonista del videogioco.

Coloro che si sono approcciati a Horizon Zero Dawn con un approccio ecocritico o environmentalista (per esempio Woolbright, 2018; Condis, 2020; Nae, 2020) hanno, in primo luogo, sottolineato alcune discrepanze fra il tema centrale della narrazione e le caratteristiche portanti del gameplay.

Il videogioco, nella sua essenza, parla di un conflitto tra natura e tecnologia. E considerando il suo legame con il passato (la piaga dei robot di Faro, collocata in un futuro poco successivo al nostro presente) può anche essere facilmente identificato come una critica al capitalismo e, se si vuole, anche alla corsa agli armamenti.

Eppure quel che Horizon Zero Dawn ci propone è proprio un approccio capitalistico e una corsa agli armamenti. Bisogna accumulare risorse, depauperando idealmente il territorio, e bisogna equipaggiarsi al meglio per sconfiggere i propri avversari. Avversari che non sono solo gli iconici robottoni, ma anche un gran numero di nemici umani. Se ci si ferma a riflettere, può suonare un po’ curioso che la paladina dell’umanità abbia stroncato qualche centinaio di vite, lungo il suo viaggio. Certo, in questi casi si attiva una dicotomia fra la dimensione della “città” e quella della “wilderness”: i briganti, i traditori ecc. sono idealmente inseriti in quest’ultima, per cui rientrano tra coloro che sono eliminabili (ho accennato alla cosa in Toniolo, 2020).

Non è che questa discrepanza sia presente solo in Horizon Zero Dawn, sia chiaro. Un gran numero di GDR più o meno open world presentano grosso modo queste problematiche. Qui sono semplicemente un po’ più evidenti per via della proposta ecologica di fondo, che – se analizzata più nel dettaglio – va a porre anche qualche domanda su quale sia l’effettivo contrasto in atto.

La natura in Horizon Zero Dawn esiste perché lo ha voluto un software. Aloy stessa esiste perché lo ha voluto un software. Il contrasto di fondo non è quindi tra natura e tecnologia, o tra natura e cultura, o tra due visioni dello sfruttamento delle risorse. È il contrasto manicheo fra due programmi che incarnano un principio di creazione e uno di distruzione.

Il videogioco semina anche degli spunti di maggiore interesse, a tal proposito, ma non va poi a coglierne i frutti. Viene detto infatti che ADE, il programma legato alla distruzione, era stato ideato col compito di bloccare la terraformazione di GAIA, se essa non fosse stata eseguita correttamente. Un simile dettaglio avrebbe facilmente aperto la strada a una conflittualità per più stratificata e anche più vicina a quel messaggio ecocritico che, in modo incerto, Horizon Zero Dawn sembra pur voler veicolare. Se, per esempio, ADE avesse voluto annientare l’umanità dopo essersi reso conto che essa stava ripercorrendo lo stesso sentiero distruttivo del passato. Invece viene semplicemente reso un software impazzito, relegato nella posizione da tradizionale signore del male che deve distruggere tutto senza un perché.

L’altra soluzione non è che sarebbe stata la più interessante di tutte, ma almeno sarebbe stata in linea con l’ambientalismo identificato in Horizon Zero Dawn, che è di matrice piuttosto tradizionale. Ovvero con una natura minacciata dagli esseri umani (in questo caso da una tecnologia creata dagli esseri umani), strutturata quindi in termini di negazione. Sarebbe ovviamente ben più apprezzabile e originale un approccio post-ambientalista, attivo e propositivo, come suggeriva Peter Berg (2001). Ma sarebbe comunque stato un elemento di complessificazione rispetto all’avversario ontologicamente malvagio.

Come detto sopra, Horizon Zero Dawn condivide simili aspetti con un gran numero di altri videogiochi, e non si tratta certo di ‘peccati mortali’ che rendono impossibile godersi il videogioco. Anzi, l’avventura mantiene numerosi tratti di piacevolezza.

Tuttavia, già questo fattore è una spia del fatto che anche certe scelte compiute su Aloy, che sono state dettate da ragioni di giocabilità, non siano necessariamente le migliori in termini assoluti.

Sono il factotum della città

Tanti protagonisti videoludici sono delle Mary Sue o dei Gary Stu. E in molti contesti la cosa è praticamente inevitabile.

Chi bazzica un po’ il mondo delle fanfiction probabilmente già sa cosa vogliano dire questi termini. Essi nascono nel mondo delle fanfiction, per l’appunto, ma sono stati poi applicati anche a un gran numero di personaggi letterari più o meno famosi. Attualmente, dire che un personaggio è una Mary Sue (se femmina) o un Gary Stu (se maschio), significa definirlo un personaggio fin troppo perfetto, prescelto ed eletto, al quale tutti si affidano per qualsiasi incarico rilevante, che è amato da tutti (solo i cattivi la/lo disprezzano e, in quanto cattivi, è chiaro che siano nel torto) e possiede caratteristiche o poteri praticamente unici.

Abbiamo anche diversi esempi famosi. Harry Potter, per esempio, è un perfetto Gary Stu. Oltre a essere l’eletto, il prescelto, l’unico e l’inimitabile, ogni volta che si trova in difficoltà c’è sempre un qualcosa che risolve miracolosamente la situazione. Silente che regala a casaccio punti a Grifondoro è divenuto un meme, ma in realtà è proprio una spia molto evidente di questa cosa.

Proprio a proposito dell’esempio fatto con Harry Potter riporto un parere di Chiara “Gamberetta” che è molto utile per portare avanti il discorso:

«Io ho l’impressione che un’ampia fascia di pubblico non voglia (più?) storie costruite in maniera “tradizionale” e basate sul conflitto, ma cerchi solo un personaggio con cui identificarsi e attraverso il quale vivere i propri sogni senza ostacoli. Niente di male. Il mio problema però è che trovo questo tipo di narrativa noiosa. È come giocare con un videogioco in cui non puoi mai morire: senza sfida che divertimento c’è?» (Gamberetta, 2011).

Bisogna capirsi un attimo. Nessun corso serio di narratologia e scrittura creativa vi direbbe che va bene scrivere una storia in cui il conflitto viene abbassato in continuazione, in cui c’è un personaggio che non compie alcun reale arco di trasformazione e che se la cava sempre perché è l’eletto o per l’intervento di un deus ex machina. Se si legge anche solo il corso base di Marco Carrara (2021) emerge con chiarezza quanto sia importante strutturare il tutto in un certo modo. Allo stesso modo se acquistate qualche buon manuale come quello di Dara Marks (2007) e John Truby (2009).

Ciò che emerge qui è che una storia può affascinare un gran numero di lettori e lettrici anche se la sua struttura non è ottimale, perché riesce a far leva su altre caratteristiche (di identificazione, di rispecchiamento dei propri bias, ecc.). Tuttavia, se quella stessa storia vincente fosse stata strutturata in un altro modo avrebbe ricevuto anche apprezzamenti più solidi e variegati.

Arriviamo ai videogiochi. Soprattutto se siamo davanti a prodotti più o meno ruolistici e più o meno open world, è molto facile che i protagonisti virino fortemente verso un certo grado di ‘marysuismo’. Questo perché, in quanto protagonisti di un videogioco di questo tipo, devono avere una fortissima agency. Deve essere lasciato loro il potere di intervenire sempre e comunque.

Pensiamo al comandante Shepard di Mass Effect. Il destino della galassia intera è letteralmente nelle sue mani. Le sue scelte possono essere aspramente criticate da altri personaggi, ma niente e nessuno gli toglieranno il suo potere decisionale, e sarà sempre lui/lei a occuparsi di tutto. E Shepard è già un personaggio con qualche elemento di complessificazione in più, per cui pensiamo anche solo a Link di The Legend of Zelda. È il prescelto, il campione delle dee, il migliore di tutti i guerrieri, l’unico che può maneggiare la Spada Suprema e tanto altro ancora. Ed è lui a poter e dover fare tutto.

Questo perché giocare nei panni dei comprimari non è altrettanto divertente. È quanto per esempio fecero, per ragioni di crossmedialità, nel videogioco Enter the Matrix (2003), il che generò diversi problemi (si veda Carr, 2008). Certo, ci sono delle eccezioni, così come non mancano storie corali in cui si ha una squadra di eroi ed eroine, ma alla fine anche lì emerge sempre un protagonista primario.

In questo senso, Aloy non è né “migliore” né “peggiore” di Link o di tanti altri personaggi che l’hanno preceduta e seguita. È una prescelta di prima categoria (la ‘reincarnazione’ della più grande scienziata di tutti i tempi), forse la più abile guerriera del suo mondo, tutti quanti pendono dalle sue labbra e nessuno mette mai in dubbio il suo operato.

È una reietta solo a parole, cosa che peraltro è una caratteristica di molte Mary Sue e Gary Stu. Viene presentata come una sorta di emarginata, l’ultima degli ultimi, ma questa cosa è solo dichiarata a parole e non ha alcun impatto narrativo, al di fuori di un paio di dialoghi. Nella sostanza, piuttosto, Aloy si comporta sempre allo stesso modo, sia che abbia davanti a sé l’ultimo dei mendicanti, sia che stia parlando con il sovrano del sole. Ha sempre lo stesso atteggiamento di forte determinazione che talvolta sfiora l’arroganza.

E, come detto, in un certo ‘senso’ deve avere questo potere di imporsi, di non essere mai contrastata, perché altrimenti sarebbe impossibile abbinarla alla modalità di gioco, con tutte le missioni primarie e secondarie che è chiamata a svolgere. Però è anche un personaggio senza un arco di trasformazione profondo e senza un difetto fatale. Ci sono alcuni (pochi) momenti in cui la storia sembrerebbe aprire degli spiragli in tal senso, come quando muore il suo padre adottivo. Sarebbe stato un possibile cambiamento per innescare un percorso di trasformazione interiore e di cambiamento, se fosse morto a causa del difetto fatale di Aloy. Ma dopo un breve filmato l’episodio viene lasciato alle spalle senza alcuna conseguenza, e Aloy rimane quella che era prima.

In questo è in buona compagnia, lo abbiamo già ricordato, ma è bene ricordarlo ulteriormente per evitare fraintendimenti (magari voluti e strumentali). Aloy e tanti altri protagonisti videoludici possono rimanere personaggi molto interessanti per altre ragioni, e nei quali è bello immedesimarsi, anche grazie a questa loro grande agency. Ciò non vuol dire però che siano grandi personaggi in senso assoluto.

Non è un caso che, per esempio, quando realizzano delle trasposizioni a fumetti di The Legend of Zelda, Link viene trasformato in un eroe molto più dubbioso, che talvolta pecca di arroganza e deve pertanto cambiare interiormente per essere in grado di trionfare, ecc. Perché di base il Link videoludico funzionerebbe molto poco. Ha bisogno di essere umanizzato, e ciò prevede che abbia un qualche difetto e un conflitto che non sia solo quello contro Ganondorf. Il Link videoludico è, da questo punto di vista, troppo statico e troppo perfetto, così come Aloy e così come lo sono tanti altri protagonisti e protagoniste.

Tengo anche a precisare che non si sta parlando del mero viaggio dell’eroe. Nella sua forma basilare è chiaro che sia ben applicabile anche a questi personaggi, con qualche minima attenzione per l’iperfetazione di prove intermedie che caratterizza questi videogiochi.

Il marmo e l’argilla

È tempo di tornare alla questione delle ‘guanciotte’ di Aloy. Se le polemiche sull’aspetto di Aloy sono più che pretestuose, le sue difese paiono fin troppo passionali e sovradimensionate. In alcuni casi si può immaginare che ci sia dietro del semplice baiting, con l’interesse per sfruttare la polemichetta del giorno. In altri casi potrebbe non essere così.Aloy è un personaggio ‘pietrificato’. È fatta per costituire un modello, è fatta per potersi identificare in lei. Ma non è assolutamente progettata per la trasformatività.

Anche i contenuti della fanbase su di lei sono molto più celebrativi che performativi. Tolto qualche contenuto erotico – immancabile, secondo i principi della regola 34 dell’internet – molti dei contenuti su di lei mostrano una Aloy che… è semplicemente la Aloy del videogioco. Questo deriva da due fattori. Il primo è quel che è stato trattato in precedenza: la Aloy videoludica è un personaggio un po’ ingessato, fin troppo perfetto. E ci sono anche ragioni comprensibili per cui sia così, ma ciò non cambia la sua natura. Per cui già ha un gradiente di rielaborazione performativa più basso di altri personaggi.

A questo si aggiungono le talvolta fin troppo pronte levate di scudi, contro chi mira a trasformare in qualche modo Aloy, anche ridicolizzandola come ‘cicciona’. Il punto della questione non riguarda la sciocchezza – ed è tale – di definire grassa Aloy perché ha delle guance un filo più tondeggianti. Il punto è che questo episodio aiuta a porre in evidenza la differenza di performatività di certi personaggi. Il che non vuol dire che alcuni siano ‘giusti’ e altri ‘sbagliati’, vuol dire che hanno un destino differente in quelle che sono le reazioni del fandom.

 Farò un parallelismo con i quattro lord di Resident Evil Village, perché me ne sono occupato di recente, con una particolare attenzione per Lady Dimitrescu. Loro quattro sono stati fin da subito trasformati e rielaborati in tantissimi modi. E non si tratta solo della feticizzazione di Alcina Dimitrescu, per quanto ovviamente presente. Su Tumblr sono divenuti – tutti e quattro – icone LGBTQIA+. Ci sono fumetti in cui sono una grande famiglia felice. Altri in cui litigano come in una sitcom. Alcuni nobilitanti e alcuni più che degradanti. E sono in tal senso ‘avvantaggiati’ sotto numerosi aspetti.

Non sono i protagonisti, tanto per cominciare, per cui non hanno addosso quel fardello dell’eroe. Non sono pensati per essere dei modelli. O meglio, possono comunque diventarlo, ma non è che questo sia uno dei punti di forza della loro caratterizzazione. Ci sono interessanti discussioni su come Alcina Dimitrescu sia un piccolo ma importante passo per la rappresentazione della figura materna nei videogiochi, ma – appunto – non è che questo sia il suo cavallo di battaglia. Sono, inoltre, composti da una serie di microunità tematiche, a volte anche discordanti fra loro, che gli consentono di prendere facilmente un gran numero di possibili bivi ideali.

Aloy è l’eroina guerriera. E poco altro. Portarla al di fuori di questo campo di azione appare in qualche modo una violazione della sua persona e di tutto ciò che rappresenta. Karl Heisenberg e Alcina Dimitrescu possono diventare tutto ciò che si vuole, sono una materia grezza malleabile.

Aloy la vediamo per ore e ore di gioco, ma grosso modo si comporta sempre allo stesso modo, ha pochissime esitazioni e pochissimi cambiamenti interiori. È integerrima, incrollabile, sempre focalizzata. Salvatore Moreau di Resident Evil Village lo vediamo per una manciata di minuti scarsi. Eppure il singolo dettaglio di lui, solo soletto, che guarda vecchie commedie romantiche e si deprime mentre sgranocchia formaggio apre una miriade di possibilità sul suo personaggio.

In questo è forse il personaggio più letterario fra i quattro lord. Perché tanti memorabili personaggi della letteratura sono proprio resi tali da una singola battuta o azione. Non dal fatto che li ritroviamo per migliaia di pagine. Il fatto poi che si tenda sempre, scolasticamente, a impostare una certa visione fin troppo ‘impegnata’ della letteratura porta a qualche confusione in tal senso, col pensiero che sia necessaria chissà quale lungaggine artificiosa per rendere meritevole un personaggio.  Eppure le grandi storie e i grandi personaggi stanno spesso in un dettaglio o in una frase.

Come diceva David Punter a proposito del Frankenstein di Mary Shelley, questo romanzo «ha una trama semplice, che è grandemente complicata dai sofisticati congegni narrativi» (2006, p. 109). Che è bene ci siano, ma non sono quelli ad aver reso immortale Victor Frankenstein e la sua Creatura. Per quello bastano tre o quattro frasi del libro.

Aloy ha al suo centro un’identità molto salda e anche molto statica. Prima l’ho definita “pietrificata”. Se si vuole usare un’espressione che le renda più giustizia potremmo definirla “marmorea”. Nel senso che ha un’identità nobilitante e durevole. È un modello, come detto. Ma il marmo è anche ben poco trasportabile e ben poco malleabile. I quattro lord di Resident Evil Village sono come argilla: basta un tocco per dare loro qualsiasi forma si voglia.

Oppure, per fare un esempio più geek: Aloy è come una costosa action figure. La si ripone in una vetrina e la si ammira. E guai a coloro che si permettono di toccarla. I personaggi come i quattro lord sono come il pupazzo preferito di quando eravamo bambini: si può sempre inventare una qualche storia su di loro, in contesti sempre diversi. Non c’è un modo giusto o sbagliato di collocarsi, ma sono due forme differenti di esistenza. Che evocano risposte differenti in coloro che vi si relazionano.

È su questa base che si stratifica poi tutto il resto. Tutti i pur corretti giudizi di natura morale. Ma finché la discussione ricade sempre e solo su di essi c’è sempre il rischio di una prospettiva monca, incompleta.

Bibliografia

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Carr D. (2008), Le regole del gioco, il fardello della narrativa. Enter the Matrix, in M. Bittanti (a cura di), Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Unicopli, Milano, pp. 143-162.

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Condis M. (2020), Sorry, Wrong Apocalypse: Horizon Zero Dawn, Heaven’s Vault, and the Ecocritical Videogame, «Game Studies», vol. 20, n. 3.

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Marks D. (2007), L’arco di trasformazione del personaggio. Come e perché cambia il protagonista di una grande storia, trad. it. D. Scopelliti, Dino Audino, Roma.

Nae A. (2020), Beyond Cultural Identity. A Critique of Horizon Zero Dawn as an Entrepreneurial Ecosystem Simulator, «Postmodern Openings», vol. 11, n. 3, pp. 269-277.

Parenzi Vieira P. e Mota R.R. (2018), A Representação Feminina em Horizon Zero Dawn, Proceedings of SBGames 2018, pp. 694-703.

Punter D. (2006), Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal settecento ad oggi, trad. it. O. Fatica e G. Granato, Editori Riuniti, Roma.

Toniolo F. (2020), Muoversi tra città e wilderness. Il confine nei videogiochi di ruolo fantasy, in O. Castiglione (a cura di), Confini, Aracne, Roma, pp. 265-282.

Truby J. (2009), Anatomia di una storia. I ventidue passi che strutturano un grande script, trad. it. V. Tavini, Dino Audino, Roma.

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