La seguente analisi scaturisce dai recenti discorsi sui video di Horizon Forbidden West e sulla caratterizzazione di Aloy.
Come in tanti altri casi, è impossibile non notare una polarizzazione molto forte, da “o bianco o nero”, in cui però nessuna delle due parti sembra cogliere effettivamente il punto, il nocciolo.
In buona sostanza, ciò avviene perché simili dibattiti si verificano sui social, in cui la brevità di scrittura e fruizione dei post è inevitabilmente contraria all’approfondimento. E gli articoli sulla questione, in diversi casi a loro volta sbrigativi, si limitano a fotografare un dibattito più che a vedere cosa ci sia al di sotto.
Tutta la questione è nata dalle ‘guanciotte’ che Aloy mostra nel trailer di questo videogioco, che appaiono un pochino più piene rispetto al suo modello in Horizon Zero Dawn.
Questa cosa, da un lato, ha istantaneamente prodotto un gran numero di meme e sfottò. E questi materiali e commenti, come risposta, hanno generato levate di scudi sull’importanza di rappresentazioni femminili più credibili e meno stereotipate, al di fuori della ‘bambolona’ ipersessualizzata.
Ora, metto subito in chiaro che quest’ultimo punto è importante e mi trova concorde, ma se ci si ferma qui si sta solo ribadendo ciò che è autoevidente. Sarebbe semmai molto più utile capire se, e quali, siano le caratteristiche precipue di Aloy che generano certe risposte, da entrambe le parti.
A margine, vorrei anche aggiungere che la tesi della Aloy ‘cicciottella’ (che poi sarebbe difficile definirla tale, ma diamolo per buono) come antidoto alla sessualizzazione è una posizione piuttosto innocente. Perché sarebbe un invito a nozze per coloro che seguono un numero di feticismi piuttosto ampio e differenziato. Mi limito a dire che praticamente qualsiasi personaggio femminile (e, sempre più, anche quelli maschili) dei videogiochi già viene ‘inciccito’ in numerose fanart. A partire da Aloy stessa.
Ma, come detto, questa è la buccia della questione. Si trova già abbastanza gente pronta a scannarsi su questa cosa e fin quando ci si ferma qui è solo un dibattito di “mi piace” vs “non mi piace”. Magari un po’ più condito con quelle che rimangono però pur sempre opinioni dettate da gusti personali.
Gusti giustissimi, sia chiaro, ma non sono una base solida per un effettivo ragionamento. Un ragionamento che deve servire non tanto a eleggere un vincitore del dibattito (spoiler: non ci sono vincitori né vinti), ma capire perché quest’ultimo si è innescato.
Per fare ciò, è doveroso partire da quel che è stata Aloy in Horizon Zero Dawn.
Due precisazioni forse ovvie, prima di cominciare. La prima è che ci saranno spoiler. La seconda è che non si sta tenendo conto qui di eventuali questioni ‘morali’ legate al dibattito. Non perché non siano rilevanti, ma perché in molti altri contesti si è parlato solo di quello.
Dubbi ecocritici, briganti massacrati e signori del male
Aloy è stata in più occasioni (per esempio Forni, 2017; Parenzi Vieira e Mota, 2018) identificata come un modello positivo di superamento dei tradizionali ruoli di genere.
Da questo punto di vista è sicuramente un personaggio che può essere definito come motivante, fonte di ispirazione, un modello da seguire.
D’altra parte, Aloy è anche inserita in un videogioco che – pur essendo certamente ricco di pregi – presenta alcuni elementi narrativi che aprono a qualche dubbio in più. Per cui, se ci spostiamo su un altro piano, al di fuori della rappresentazione di genere positiva e propositiva, bisogna fare dei discorsi ulteriori.
C’è un primo aspetto, molto importante, che riguarda molto più la struttura di gioco e la visione del mondo, che lo specifico personaggio di Aloy. Per cui questo aspetto finisce comunque per riguardarla, ma solo in qualità di protagonista del videogioco.
Coloro che si sono approcciati a Horizon Zero Dawn con un approccio ecocritico o environmentalista (per esempio Woolbright, 2018; Condis, 2020; Nae, 2020) hanno, in primo luogo, sottolineato alcune discrepanze fra il tema centrale della narrazione e le caratteristiche portanti del gameplay.
Il videogioco, nella sua essenza, parla di un conflitto tra natura e tecnologia. E considerando il suo legame con il passato (la piaga dei robot di Faro, collocata in un futuro poco successivo al nostro presente) può anche essere facilmente identificato come una critica al capitalismo e, se si vuole, anche alla corsa agli armamenti.
Eppure quel che Horizon Zero Dawn ci propone è proprio un approccio capitalistico e una corsa agli armamenti. Bisogna accumulare risorse, depauperando idealmente il territorio, e bisogna equipaggiarsi al meglio per sconfiggere i propri avversari. Avversari che non sono solo gli iconici robottoni, ma anche un gran numero di nemici umani. Se ci si ferma a riflettere, può suonare un po’ curioso che la paladina dell’umanità abbia stroncato qualche centinaio di vite, lungo il suo viaggio. Certo, in questi casi si attiva una dicotomia fra la dimensione della “città” e quella della “wilderness”: i briganti, i traditori ecc. sono idealmente inseriti in quest’ultima, per cui rientrano tra coloro che sono eliminabili (ho accennato alla cosa in Toniolo, 2020).
Non è che questa discrepanza sia presente solo in Horizon Zero Dawn, sia chiaro. Un gran numero di GDR più o meno open world presentano grosso modo queste problematiche. Qui sono semplicemente un po’ più evidenti per via della proposta ecologica di fondo, che – se analizzata più nel dettaglio – va a porre anche qualche domanda su quale sia l’effettivo contrasto in atto.
La natura in Horizon Zero Dawn esiste perché lo ha voluto un software. Aloy stessa esiste perché lo ha voluto un software. Il contrasto di fondo non è quindi tra natura e tecnologia, o tra natura e cultura, o tra due visioni dello sfruttamento delle risorse. È il contrasto manicheo fra due programmi che incarnano un principio di creazione e uno di distruzione.
Il videogioco semina anche degli spunti di maggiore interesse, a tal proposito, ma non va poi a coglierne i frutti. Viene detto infatti che ADE, il programma legato alla distruzione, era stato ideato col compito di bloccare la terraformazione di GAIA, se essa non fosse stata eseguita correttamente. Un simile dettaglio avrebbe facilmente aperto la strada a una conflittualità per più stratificata e anche più vicina a quel messaggio ecocritico che, in modo incerto, Horizon Zero Dawn sembra pur voler veicolare. Se, per esempio, ADE avesse voluto annientare l’umanità dopo essersi reso conto che essa stava ripercorrendo lo stesso sentiero distruttivo del passato. Invece viene semplicemente reso un software impazzito, relegato nella posizione da tradizionale signore del male che deve distruggere tutto senza un perché.
L’altra soluzione non è che sarebbe stata la più interessante di tutte, ma almeno sarebbe stata in linea con l’ambientalismo identificato in Horizon Zero Dawn, che è di matrice piuttosto tradizionale. Ovvero con una natura minacciata dagli esseri umani (in questo caso da una tecnologia creata dagli esseri umani), strutturata quindi in termini di negazione. Sarebbe ovviamente ben più apprezzabile e originale un approccio post-ambientalista, attivo e propositivo, come suggeriva Peter Berg (2001). Ma sarebbe comunque stato un elemento di complessificazione rispetto all’avversario ontologicamente malvagio.
Come detto sopra, Horizon Zero Dawn condivide simili aspetti con un gran numero di altri videogiochi, e non si tratta certo di ‘peccati mortali’ che rendono impossibile godersi il videogioco. Anzi, l’avventura mantiene numerosi tratti di piacevolezza.
Tuttavia, già questo fattore è una spia del fatto che anche certe scelte compiute su Aloy, che sono state dettate da ragioni di giocabilità, non siano necessariamente le migliori in termini assoluti.
Sono il factotum della città
Tanti protagonisti videoludici sono delle Mary Sue o dei Gary Stu. E in molti contesti la cosa è praticamente inevitabile.
Chi bazzica un po’ il mondo delle fanfiction probabilmente già sa cosa vogliano dire questi termini. Essi nascono nel mondo delle fanfiction, per l’appunto, ma sono stati poi applicati anche a un gran numero di personaggi letterari più o meno famosi. Attualmente, dire che un personaggio è una Mary Sue (se femmina) o un Gary Stu (se maschio), significa definirlo un personaggio fin troppo perfetto, prescelto ed eletto, al quale tutti si affidano per qualsiasi incarico rilevante, che è amato da tutti (solo i cattivi la/lo disprezzano e, in quanto cattivi, è chiaro che siano nel torto) e possiede caratteristiche o poteri praticamente unici.
Abbiamo anche diversi esempi famosi. Harry Potter, per esempio, è un perfetto Gary Stu. Oltre a essere l’eletto, il prescelto, l’unico e l’inimitabile, ogni volta che si trova in difficoltà c’è sempre un qualcosa che risolve miracolosamente la situazione. Silente che regala a casaccio punti a Grifondoro è divenuto un meme, ma in realtà è proprio una spia molto evidente di questa cosa.
Proprio a proposito dell’esempio fatto con Harry Potter riporto un parere di Chiara “Gamberetta” che è molto utile per portare avanti il discorso:
«Io ho l’impressione che un’ampia fascia di pubblico non voglia (più?) storie costruite in maniera “tradizionale” e basate sul conflitto, ma cerchi solo un personaggio con cui identificarsi e attraverso il quale vivere i propri sogni senza ostacoli. Niente di male. Il mio problema però è che trovo questo tipo di narrativa noiosa. È come giocare con un videogioco in cui non puoi mai morire: senza sfida che divertimento c’è?» (Gamberetta, 2011).
Bisogna capirsi un attimo. Nessun corso serio di narratologia e scrittura creativa vi direbbe che va bene scrivere una storia in cui il conflitto viene abbassato in continuazione, in cui c’è un personaggio che non compie alcun reale arco di trasformazione e che se la cava sempre perché è l’eletto o per l’intervento di un deus ex machina. Se si legge anche solo il corso base di Marco Carrara (2021) emerge con chiarezza quanto sia importante strutturare il tutto in un certo modo. Allo stesso modo se acquistate qualche buon manuale come quello di Dara Marks (2007) e John Truby (2009).
Ciò che emerge qui è che una storia può affascinare un gran numero di lettori e lettrici anche se la sua struttura non è ottimale, perché riesce a far leva su altre caratteristiche (di identificazione, di rispecchiamento dei propri bias, ecc.). Tuttavia, se quella stessa storia vincente fosse stata strutturata in un altro modo avrebbe ricevuto anche apprezzamenti più solidi e variegati.
Arriviamo ai videogiochi. Soprattutto se siamo davanti a prodotti più o meno ruolistici e più o meno open world, è molto facile che i protagonisti virino fortemente verso un certo grado di ‘marysuismo’. Questo perché, in quanto protagonisti di un videogioco di questo tipo, devono avere una fortissima agency. Deve essere lasciato loro il potere di intervenire sempre e comunque.
Pensiamo al comandante Shepard di Mass Effect. Il destino della galassia intera è letteralmente nelle sue mani. Le sue scelte possono essere aspramente criticate da altri personaggi, ma niente e nessuno gli toglieranno il suo potere decisionale, e sarà sempre lui/lei a occuparsi di tutto. E Shepard è già un personaggio con qualche elemento di complessificazione in più, per cui pensiamo anche solo a Link di The Legend of Zelda. È il prescelto, il campione delle dee, il migliore di tutti i guerrieri, l’unico che può maneggiare la Spada Suprema e tanto altro ancora. Ed è lui a poter e dover fare tutto.
Questo perché giocare nei panni dei comprimari non è altrettanto divertente. È quanto per esempio fecero, per ragioni di crossmedialità, nel videogioco Enter the Matrix (2003), il che generò diversi problemi (si veda Carr, 2008). Certo, ci sono delle eccezioni, così come non mancano storie corali in cui si ha una squadra di eroi ed eroine, ma alla fine anche lì emerge sempre un protagonista primario.
In questo senso, Aloy non è né “migliore” né “peggiore” di Link o di tanti altri personaggi che l’hanno preceduta e seguita. È una prescelta di prima categoria (la ‘reincarnazione’ della più grande scienziata di tutti i tempi), forse la più abile guerriera del suo mondo, tutti quanti pendono dalle sue labbra e nessuno mette mai in dubbio il suo operato.
È una reietta solo a parole, cosa che peraltro è una caratteristica di molte Mary Sue e Gary Stu. Viene presentata come una sorta di emarginata, l’ultima degli ultimi, ma questa cosa è solo dichiarata a parole e non ha alcun impatto narrativo, al di fuori di un paio di dialoghi. Nella sostanza, piuttosto, Aloy si comporta sempre allo stesso modo, sia che abbia davanti a sé l’ultimo dei mendicanti, sia che stia parlando con il sovrano del sole. Ha sempre lo stesso atteggiamento di forte determinazione che talvolta sfiora l’arroganza.
E, come detto, in un certo ‘senso’ deve avere questo potere di imporsi, di non essere mai contrastata, perché altrimenti sarebbe impossibile abbinarla alla modalità di gioco, con tutte le missioni primarie e secondarie che è chiamata a svolgere. Però è anche un personaggio senza un arco di trasformazione profondo e senza un difetto fatale. Ci sono alcuni (pochi) momenti in cui la storia sembrerebbe aprire degli spiragli in tal senso, come quando muore il suo padre adottivo. Sarebbe stato un possibile cambiamento per innescare un percorso di trasformazione interiore e di cambiamento, se fosse morto a causa del difetto fatale di Aloy. Ma dopo un breve filmato l’episodio viene lasciato alle spalle senza alcuna conseguenza, e Aloy rimane quella che era prima.
In questo è in buona compagnia, lo abbiamo già ricordato, ma è bene ricordarlo ulteriormente per evitare fraintendimenti (magari voluti e strumentali). Aloy e tanti altri protagonisti videoludici possono rimanere personaggi molto interessanti per altre ragioni, e nei quali è bello immedesimarsi, anche grazie a questa loro grande agency. Ciò non vuol dire però che siano grandi personaggi in senso assoluto.
Non è un caso che, per esempio, quando realizzano delle trasposizioni a fumetti di The Legend of Zelda, Link viene trasformato in un eroe molto più dubbioso, che talvolta pecca di arroganza e deve pertanto cambiare interiormente per essere in grado di trionfare, ecc. Perché di base il Link videoludico funzionerebbe molto poco. Ha bisogno di essere umanizzato, e ciò prevede che abbia un qualche difetto e un conflitto che non sia solo quello contro Ganondorf. Il Link videoludico è, da questo punto di vista, troppo statico e troppo perfetto, così come Aloy e così come lo sono tanti altri protagonisti e protagoniste.
Tengo anche a precisare che non si sta parlando del mero viaggio dell’eroe. Nella sua forma basilare è chiaro che sia ben applicabile anche a questi personaggi, con qualche minima attenzione per l’iperfetazione di prove intermedie che caratterizza questi videogiochi.
Il marmo e l’argilla
È tempo di tornare alla questione delle ‘guanciotte’ di Aloy. Se le polemiche sull’aspetto di Aloy sono più che pretestuose, le sue difese paiono fin troppo passionali e sovradimensionate. In alcuni casi si può immaginare che ci sia dietro del semplice baiting, con l’interesse per sfruttare la polemichetta del giorno. In altri casi potrebbe non essere così.Aloy è un personaggio ‘pietrificato’. È fatta per costituire un modello, è fatta per potersi identificare in lei. Ma non è assolutamente progettata per la trasformatività.
Anche i contenuti della fanbase su di lei sono molto più celebrativi che performativi. Tolto qualche contenuto erotico – immancabile, secondo i principi della regola 34 dell’internet – molti dei contenuti su di lei mostrano una Aloy che… è semplicemente la Aloy del videogioco. Questo deriva da due fattori. Il primo è quel che è stato trattato in precedenza: la Aloy videoludica è un personaggio un po’ ingessato, fin troppo perfetto. E ci sono anche ragioni comprensibili per cui sia così, ma ciò non cambia la sua natura. Per cui già ha un gradiente di rielaborazione performativa più basso di altri personaggi.
A questo si aggiungono le talvolta fin troppo pronte levate di scudi, contro chi mira a trasformare in qualche modo Aloy, anche ridicolizzandola come ‘cicciona’. Il punto della questione non riguarda la sciocchezza – ed è tale – di definire grassa Aloy perché ha delle guance un filo più tondeggianti. Il punto è che questo episodio aiuta a porre in evidenza la differenza di performatività di certi personaggi. Il che non vuol dire che alcuni siano ‘giusti’ e altri ‘sbagliati’, vuol dire che hanno un destino differente in quelle che sono le reazioni del fandom.
Farò un parallelismo con i quattro lord di Resident Evil Village, perché me ne sono occupato di recente, con una particolare attenzione per Lady Dimitrescu. Loro quattro sono stati fin da subito trasformati e rielaborati in tantissimi modi. E non si tratta solo della feticizzazione di Alcina Dimitrescu, per quanto ovviamente presente. Su Tumblr sono divenuti – tutti e quattro – icone LGBTQIA+. Ci sono fumetti in cui sono una grande famiglia felice. Altri in cui litigano come in una sitcom. Alcuni nobilitanti e alcuni più che degradanti. E sono in tal senso ‘avvantaggiati’ sotto numerosi aspetti.
Non sono i protagonisti, tanto per cominciare, per cui non hanno addosso quel fardello dell’eroe. Non sono pensati per essere dei modelli. O meglio, possono comunque diventarlo, ma non è che questo sia uno dei punti di forza della loro caratterizzazione. Ci sono interessanti discussioni su come Alcina Dimitrescu sia un piccolo ma importante passo per la rappresentazione della figura materna nei videogiochi, ma – appunto – non è che questo sia il suo cavallo di battaglia. Sono, inoltre, composti da una serie di microunità tematiche, a volte anche discordanti fra loro, che gli consentono di prendere facilmente un gran numero di possibili bivi ideali.
Aloy è l’eroina guerriera. E poco altro. Portarla al di fuori di questo campo di azione appare in qualche modo una violazione della sua persona e di tutto ciò che rappresenta. Karl Heisenberg e Alcina Dimitrescu possono diventare tutto ciò che si vuole, sono una materia grezza malleabile.
Aloy la vediamo per ore e ore di gioco, ma grosso modo si comporta sempre allo stesso modo, ha pochissime esitazioni e pochissimi cambiamenti interiori. È integerrima, incrollabile, sempre focalizzata. Salvatore Moreau di Resident Evil Village lo vediamo per una manciata di minuti scarsi. Eppure il singolo dettaglio di lui, solo soletto, che guarda vecchie commedie romantiche e si deprime mentre sgranocchia formaggio apre una miriade di possibilità sul suo personaggio.
In questo è forse il personaggio più letterario fra i quattro lord. Perché tanti memorabili personaggi della letteratura sono proprio resi tali da una singola battuta o azione. Non dal fatto che li ritroviamo per migliaia di pagine. Il fatto poi che si tenda sempre, scolasticamente, a impostare una certa visione fin troppo ‘impegnata’ della letteratura porta a qualche confusione in tal senso, col pensiero che sia necessaria chissà quale lungaggine artificiosa per rendere meritevole un personaggio. Eppure le grandi storie e i grandi personaggi stanno spesso in un dettaglio o in una frase.
Come diceva David Punter a proposito del Frankenstein di Mary Shelley, questo romanzo «ha una trama semplice, che è grandemente complicata dai sofisticati congegni narrativi» (2006, p. 109). Che è bene ci siano, ma non sono quelli ad aver reso immortale Victor Frankenstein e la sua Creatura. Per quello bastano tre o quattro frasi del libro.
Aloy ha al suo centro un’identità molto salda e anche molto statica. Prima l’ho definita “pietrificata”. Se si vuole usare un’espressione che le renda più giustizia potremmo definirla “marmorea”. Nel senso che ha un’identità nobilitante e durevole. È un modello, come detto. Ma il marmo è anche ben poco trasportabile e ben poco malleabile. I quattro lord di Resident Evil Village sono come argilla: basta un tocco per dare loro qualsiasi forma si voglia.
Oppure, per fare un esempio più geek: Aloy è come una costosa action figure. La si ripone in una vetrina e la si ammira. E guai a coloro che si permettono di toccarla. I personaggi come i quattro lord sono come il pupazzo preferito di quando eravamo bambini: si può sempre inventare una qualche storia su di loro, in contesti sempre diversi. Non c’è un modo giusto o sbagliato di collocarsi, ma sono due forme differenti di esistenza. Che evocano risposte differenti in coloro che vi si relazionano.
È su questa base che si stratifica poi tutto il resto. Tutti i pur corretti giudizi di natura morale. Ma finché la discussione ricade sempre e solo su di essi c’è sempre il rischio di una prospettiva monca, incompleta.
Bibliografia
Berg P. (2001), The Post-Environmentalist Directions of Bioregionalism, 2001. Link.
Carr D. (2008), Le regole del gioco, il fardello della narrativa. Enter the Matrix, in M. Bittanti (a cura di), Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti, Unicopli, Milano, pp. 143-162.
Carrara M. (2021), Corso base di scrittura creativa e sceneggiatura, «Agenzia Duca». Link.
Condis M. (2020), Sorry, Wrong Apocalypse: Horizon Zero Dawn, Heaven’s Vault, and the Ecocritical Videogame, «Game Studies», vol. 20, n. 3.
Forni D. (2017), Horizon Zero Dawn: The Educational Influence of Video Games in Counteracting Gender Stereotypes, «ToDigra», vol. 5, n. 1, pp. 77-105.
Gamberetta C. (2011), Due o tre parole su Harry Potter, in «Gambery Fantasy», 21 settembre 2011. Link.
Marks D. (2007), L’arco di trasformazione del personaggio. Come e perché cambia il protagonista di una grande storia, trad. it. D. Scopelliti, Dino Audino, Roma.
Nae A. (2020), Beyond Cultural Identity. A Critique of Horizon Zero Dawn as an Entrepreneurial Ecosystem Simulator, «Postmodern Openings», vol. 11, n. 3, pp. 269-277.
Parenzi Vieira P. e Mota R.R. (2018), A Representação Feminina em Horizon Zero Dawn, Proceedings of SBGames 2018, pp. 694-703.
Punter D. (2006), Storia della letteratura del terrore. Il «gotico» dal settecento ad oggi, trad. it. O. Fatica e G. Granato, Editori Riuniti, Roma.
Toniolo F. (2020), Muoversi tra città e wilderness. Il confine nei videogiochi di ruolo fantasy, in O. Castiglione (a cura di), Confini, Aracne, Roma, pp. 265-282.
Truby J. (2009), Anatomia di una storia. I ventidue passi che strutturano un grande script, trad. it. V. Tavini, Dino Audino, Roma.
Woolbright L. (2018), Ecofeminism and Gaia Theory in Horizon Zero Dawn, «Trace», vol. 2.
Riassumiamo in estrema sintesi quanto indicato nella parte 3 (alla cui lettura si rimanda per una panoramica più ampia). Negli anni immediatamente precedenti all’affermazione di YouTube, i videogiochi horror hanno assistito a una progressiva virata verso l’action, soprattutto (ma non solo) nelle produzioni occidentali. Alcune saghe horror giapponesi rimangono più vicine ai modelli del periodo precedente, ma sono relegate nei confini di una determinata nicchia. In questo quadro emergono tuttavia dei “nuovi” survival horror, indipendenti, prodotti in occidente, che abbandonano l’action, ottengono un grandissimo successo e divengono una presenza costante su YouTube.
Vengono di seguito presentati, singolarmente, vista l’importanza che hanno rivestito, i tre “apripista” che in tempi diversi hanno maggiormente sospinto questa nuova ondata: Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010) e Slender: The Eight Pages (Parsec Productions, 2012). A essi, nella quinta parte, si aggiungerà Five Nights at Freddy’s (Scott Cawthon, 2014) come ultimo elemento del terzetto.
Nel loro periodo di uscita, l’affermazione del gaming sulla piattaforma è un processo in corso, e diversi youtubers hanno raggiunto l’effettiva notorietà proprio grazie a uno o più di questi videogiochi. Amnesia: The Dark Descent, in particolare, è strettamente legato alla carriera di PewDiePie (Smith T., Obrist, Wright, 2013), Markiplier (Youtubers First Videos | Youtubers First Time! ™, 2015) e Favij (NiKyBoX, 2012a).
Una breve annotazione: alcuni dei discorsi che saranno trattati qui e nella quinta parte li ho anche affrontati in Evolution of The YouTube Personas Related to Survival Horror Games (un mio articolo accademico, in inglese, pubblicato su «Persona Studies») e, in misura minore, in altri miei articoli dedicati a YouTube. Rinvio alla pagina delle pubblicazioni per i vari link agli articoli.
Amnesia: The Dark Descent (e Penumbra): la relazione simbiotica
Amnesia: The Dark Descent non è stato il primo survival horror realizzato da Frictional Games (un team indipendente svedese fondato nel 2007), e già i suoi predecessori rivelano alcuni elementi di interesse per il presente discorso. Il videogioco è stato preceduto dalla trilogia Penumbra: Overture (Frictional Games, 2007), Penumbra: Black Plague (Frictional Games, 2008) e Penumbra: Requiem (Frictional Games, 2009). Quest’ultimo, in realtà, è un’espansione del suo predecessore, ma viene ugualmente considerato come un terzo episodio. In ogni caso sono tutti e tre ascrivibili a questo genere.
Il primo Penumbra era nato come tech demo per mostrare le capacità dell’HPL Engine 1 (palese riferimento a Howard Phillips Lovecraft) sviluppato dal team, ma osservando i pareri positivi sulla demo gli sviluppatori hanno poi deciso di portarne avanti lo sviluppo, per rilasciarlo come prodotto compiuto. Il videogioco è ambientato in una miniera popolata da creature mostruose, la storia viene raccontata tramite le pagine di un diario disseminate per l’ambiente, ha una visuale in prima persona, contiene al suo interno alcuni enigmi, consente di trascinare o afferrare un gran numero di oggetti (quest’ultimo aspetto deve molto all’origine del gioco come tech demo, nata per mostrare il funzionamento dell’engine, compresa la fisica degli oggetti). Prevede inoltre l’utilizzo di una torcia con durata limitata e include dei farraginosi combattimenti corpo a corpo.
Non è uno sparatutto (non sono presenti armi da fuoco), anche se condivide con gli FPS la visuale, racchiude diversi elementi ricorrenti del survival horror (il diario, gli enigmi, l’impiego della torcia…). Al tempo stesso, però, sembra seguire un filone evolutivo differente sia rispetto allo sviluppo action di Resident Evil 4 e Dead Space, sia ai videogiochi come Deadly Premonition e Cursed Mountain.
La differenziazione, qui intuibile soprattutto osservando il videogioco a posteriori, diventa progressivamente più evidente con i successivi videogiochi di Frictional Games. Un’importante differenza è riscontrabile già nel successivo Penumbra: Black Plague, in cui i combattimenti (il cui funzionamento era stato largamente criticato, in Penumbra: Overture) sono stati completamente rimossi. Non è più possibile affrontare i nemici, è possibile solo nascondersi e fuggire. Aumentano inoltre i jump scares, alternati da fasi più o meno lunghe volte a far crescere la tensione.
Durante il periodo di uscita della trilogia di Penumbra, il gaming su YouTube si trova ancora in uno stadio di formazione. Stanno nascendo canali specificamente dedicati ai let’s play e i video sull’argomento sono in crescita, ma ancora non è stata raggiunta la massa critica, e la piattaforma è dominata da altre tipologie di video, come il vlogging.
Osservando retroattivamente i video relativi al videogioco, caricati di anno in anno, è possibile individuare il germe del cambiamento che sarebbe giunto a breve con Amnesia: The Dark Descent. Il 2007 presenta, oltre ai trailer, alcuni video riconducibili alla categoria “how to” (come jazzkomp, 2007 e KPIQA, 2007). Entrambi i video mostrano come uccidere i cani presenti nella miniera del primo Penumbra, poiché si tratta di un nemico particolarmente ostico, al punto che alcuni giocatori pensavano fosse impossibile eliminare queste creature.
Poi ci sono video di sostanziale trolling (KirmiZ, 2007) e brevi filmati su determinate parti del gioco (come l3ks1, 2007 e Altraum, 2007). A parte la bassa qualità visiva, ciò che emerge immediatamente è la completa assenza di commentari vocali; quando – non sempre – uno youtuber inserisce pensieri e opinioni lo fa tramite scritte in sovraimpressione o piccoli box. I video reperibili sono inoltre molto pochi, soprattutto escludendo trailer e video rimossi.
Il quadro complessivo di due anni più tardi risulta già molto diverso. I video del 2009, relativi non solo ai due capitoli successivi della saga ma anche al primo Penumbra, sono molto più numerosi e soprattutto presentano impostazioni differenti. Perdurano i video brevi o brevissimi volti a mostrare uno specifico elemento (come un easter egg in VAXIS TAA, 2009, della durata di appena nove secondi), affiancati da gameplay a episodi in cui è presente un commentario audio dello youtuber (come TheScarlettears, 2009, ColdTrix8, 2009 e Helloween4545, 2009a) e altri in cui i commenti rimangono in forma scritta (come Captain Perfect, 2009a). Compaiono inoltre anche contenuti di carattere più creativo che remixano determinati materiali per realizzare nuovi contenuti video. Un esempio è il fake trailer di un ipotetico film su Penumbra, realizzato montando spezzoni di diverse pellicole horror (bloodrunsclear, 2009).
Questa moltiplicazione è già sufficiente a generare un differente livello empatico. Si può fare un breve confronto legato alle prime due comparse del mostro in Penumbra: Black Plague all’inizio del gioco. Nel primo caso si tratta di un piccolo jump scare, in cui il nemico viene intravisto mentre si muove dietro una porta, nel secondo il mostro si mette sulle tracce del protagonista nascosto e, se lo trova, comincia a inseguirlo.
Nel video di Captain Perfect (2009a), fornito solo di pochi commenti scritti, lo youtuber si limitava a scrivere «What the fuck was that!» (minuto 4:03), e fugge poi dal mostro senza scrivere nulla (Captain Perfect, 2009b). Si segnala che, al momento in cui si sta scrivendo ora, quei commenti non sembrano più visualizzabili.
Hellowen4545 inserisce invece un commentario audio, ma in entrambe le situazioni (2009b e 2009c) appare più stupito che spaventato, continuando a ripetere frasi come “what the hell is that?” con un tono perplesso. La maggior parte dei gameplay dedicati agli episodi di Penumbra è però collocabile nel periodo successivo all’uscita di Amnesia: The Dark Descent, tanto che sono rintracciabili commenti ai video in cui i Penumbra vengono considerati dei “cloni” di quest’ultimo gioco, quando ne sono invece i predecessori. Il gameplay di Markiplier del 2012 presenta un commentario audio molto più vivace e variegato, in cui lo youtuber reagisce alla prima apparizione con tono di sfida (2012a), ma alla seconda continua a urlare in maniera scomposta mentre il mostro è sulle sue tracce (2012b).
L’anno successivo giunge invece il gameplay di Favij (FavijTVtm, 2013), in cui viene inserita in un angolo la cam che mostra il busto dello youtuber, così da poter osservare le sue reazioni live. Favij, a inizio video, dice di conoscere già la parte iniziale del videogioco, perché lo aveva giocato l’anno precedente sul canale NiKyBox (2012b) per aprire la sua serie “Giochi nel Buio”, e pertanto premette che non dovrebbe avere «infarti esageratamente incredibili durante questo primo episodio» (FavijTVtm, 2013, minuto 1:42). Alla prima comparsa del mostro ha una moderata reazione, dicendo di non ricordarsi quel momento, mentre alla seconda, pur essendo pronto, comincia a esclamare ad alta voce.
Confrontandolo anzi con il suo precedente gameplay dello stesso gioco (NikYBoX, 2012b, in cui non era presente la cam) le reazioni sono più ‘urlate’ e plateali, nonostante conosca quella parte. Si noti peraltro che, in linea con le imprecazioni più frequenti degli youtubers italiani (Kurpiel, 2016) utilizza spesso l’espressione «cazzo!» (e, in generale, altre forme di intercalare; Fägersten, 2017) e – seguendo un’altra pratica ricorrente – assegna un soprannome al mostro (Kurpiel, 2017), chiamandolo Piff.
Le reactions ai videogiochi horror, come emerge già da questo breve esempio, vengono tendenzialmente sempre più “spettacolarizzate” nel tempo. Una reazione può anche essere in chiave comica, soprattutto se il videogioco consente alcune pratiche differenti rispetto al mero avanzamento lungo il percorso prestabilito. Restando sull’esempio del mostro che compare in Penumbra: Black Plague, già un video del 2008 mostra come sia possibile ‘giocare’ con la fisica del gioco e la capacità del protagonista di spostare oggetti. Nel video (NossX, 2008) viene impilata un’immane quantità di oggetti davanti alla porta che il mostro deve spalancare, e appena l’azione viene compiuta tutti questi oggetti sono improvvisamente spinti via come in un’esplosione.
Al tempo stesso vengono scientemente ricercati i videogiochi ritenuti più spaventosi e si cerca di giocarli per la prima volta in video, così da non conoscere già i colpi di scena e ottenere reazioni più naturali (o che paiano tali). È uno dei motivi per cui Favij, ai tempi di NikYBoX, (2012b), aveva inaugurato la sua rubrica con Penumbra: Black Plague invece che con il successivo – e molto popolare – Amnesia: The Dark Descent, perché aveva già giocato per intero quest’ultimo. Questa “ricerca della paura”, e soprattutto degli spaventi improvvisi, si accompagna alla felice constatazione che i videogiochi di Frictional Games si fanno progressivamente più paurosi. È quanto sottolinea Markiplier (2012a) già a proposito di Penumbra: Black Plague, che promette di essere molto più spaventoso del predecessore, il quale aveva un solo momento veramente pauroso in tutto il gioco, legato all’improvvisa comparsa di un verme gigante che sfonda un portone.
È in questa fase evolutiva che si è inserito Amnesia: The Dark Descent, il quale ha contribuito a far nascere quel “bisogno di horror” su YouTube, in un momento in cui alcuni vedevano nella virata action l’unico futuro per questo genere. Come hanno sottolineato in molti, a partire dagli stessi creatori del gioco, quella fra YouTube e Amnesia: The Dark Descent è stata una relazione simbiotica particolarmente vantaggiosa per entrambe le parti. Non solo il gioco ha contribuito alla ‘nascita’ di molti youtubers di successo, e ha accresciuto le proprie vendite grazie a loro, ma ha anche contribuito all’evoluzione del survival horror e, al tempo stesso, dei let’s play:
«“I think Amnesia got a lot of free PR because of “Let’s Play” videos, but I also think that Amnesia opened people to a new style of ‘Let’s Play,’” Frictional Games creative director Thomas Grip told me. “Normally, games are very skill-based. You need to be concentrated and play a certain way to play ‘properly.’ But with horror games, the aim is not to win, but rather to get immersed. That gives a lot more space for ‘Let’s Players’ to put on a show, either by being very scared or just fooling about. On top of that it is really fun to see someone scared for some reason”» (Maiberg, 2015. Corsivi miei).
E ancora:
«Speaking to VICE Gaming in October 2014, The Dark Descent’s creative director, Thomas Grip, explained that there’s ‘a lot to be done in making horror more personal and thought-provoking’, and that ‘a game could be terrifying with a bare minimum of features’. And that’s something indies have been doing while the more publicized, more predictable alternatives take their turns at being the open-world game of the moment: maximizing impact while maintaining modest budgets, development mirroring the gameplay of survival-horror games themselves in using few resources but delivering chills aplenty. […] The popularity of horror in the indie-games field owes much to YouTube, to gamers posting footage of themselves getting terrified In the company of these low-budget, one dare say more intimate experiences – the first-person perspective certainly encourages a deeper bond between player and protagonist» (Diver, 2016: 56-57. Corsivi miei).
Al di fuori di una certa retorica relativa al “fare tanto con poco”, i team indipendenti come Frictional Games sono effettivamente riusciti a risolvere il problema sentito nello stesso periodo di tempo dalle cosiddette produzioni Tripla A: col crescere dei costi di produzione occorre puntare su generi più “sicuri”, e il survival horror non sembrava rientrare nel novero. Amnesia: The Dark Descent (e poi altri videogiochi, come Slenderman e Five Nights at Freddy’s) ha però mostrato la possibilità di realizzare profitti con l’horror mantenendo costi accessibili, e questo è avvenuto anche grazie agli youtubers. Osservando il postmortem del gioco (Grip, 2011) e i due articoli che fanno il punto della situazione a distanza, rispettivamente, di uno e due anni dall’uscita (Thomas KL, 2011, 2012a), è possibile tracciare la progressione nelle vendite di Amnesia: The Dark Descent.
Nel postmortem riportano di aver ottenuto un buon risultato, seppur non miracoloso, durante il primo mese dall’uscita, con 34.000 copie, e nei mesi successivi le vendite sono andate in crescendo, anche grazie ad alcune promozioni, fino a raggiungere le 350.000 unità a luglio 2011 (Grip, 2011: 5). Al di fuori dei saldi non vengono però indicate le ragioni dietro alla diffusione e alla longevità dell’interesse per il videogioco, elementi analizzati più nel dettaglio all’interno dell’articolo sul loro blog (Thomas KL, 2011). I fattori citati sono sostanzialmente due, entrambi riconducibili all’user response: creazione di materiali e discorsi sul videogioco e realizzazione di mod per il medesimo.
Per il primo punto citano, come esempio primario, «the Amnesia WTF video that reached 4 million views» (ivi). Per il secondo sottolineano la differenza con Penumbra: in quel caso un solo utente aveva avviato un progetto di modding, mai portato a termine, mentre per Amnesia: The Dark Descent sono presenti almeno trecento progetti in cantiere, di cui una ventina portati a termine. Questi due elementi si rafforzano peraltro a vicenda, generando un circolo virtuoso.
Le mod, oltre a rendere più varia e duratura l’esperienza di gioco, sono a loro volta mostrate nei video di youtubers come PewDiePie e Markiplier. Questa esperienza ha peraltro lasciato tracce nella community di entrambi. Da una partita a una mod del gioco è nata l’avversione di PewDiePie per i barili, che è divenuta un joke ricorrente nei suoi video. Nel caso di Markiplier, invece, si possono ricordare ad esempio alcuni videogiochi fanmade che richiamano le sue partite a quel videogioco, come Darkiplier: The “Mark” Descent (The One: Sayncraft, 2016) il quale, a dispetto del titolo, è in realtà un più ampio collage di riferimenti a molti giochi horror che lo youtuber ha portato sul suo canale.
Tutto ciò, comunque, contribuisce alla diffusione delle mod e spinge nuovi utenti ad acquistare il gioco e – se ne sono in grado – a realizzare a loro volta una mod. I contenuti creati dai fan possono attenersi allo spirito originario dell’opera oppure compiere significative deviazioni. Può trattarsi di inserti comici come in Killings In Altstadt, una mod in cui uno dei mostri del gioco è trasformato in un mercante russo, con annesso colbacco, e nel suo negozio è possibile ascoltare la musica dei negozi di The Legend of Zelda: Ocarina of Time (PewDiePie, 2012; Markiplier, 2012c).
L’articolo approfondisce anche la questione delle vendite. Il conteggio ammonta a quasi 400.000 unità, di cui circa 300.000 vendute in sconto. Si tratta di una percentuale elevata di copie scontate ma, come sottolineato, anche le copie vendute a prezzo pieno sono circa 6000 al mese, un numero che, oltre a essere più che sufficiente per stipendi e costi di mantenimento, risulta in crescita rispetto all’anno precedente (Thomas KL, 2011), ulteriore segnale del ritorno economico prodotto dalla vitalità della community.
Il report del 2012 traccia una situazione ancor più rosea, con 710.000 unità sicure e, in base all’andamento di determinati bundle in corso, un totale effettivo che può oscillare fra 900.000 e 1.300.000 copie (Thomas KL, 2012a). Pure in questo caso sconti e offerte hanno ricoperto un ruolo significativo, ma anche le copie vendute a prezzo pieno sono ulteriormente aumentate, passando a una media di 10.000 unità al mese. Aggiunge inoltre che pure la serie Penumbra, probabilmente anche trainata dal successo di Amnesia: The Dark Descent, registra stabilmente circa 900 copie vendute ogni mese a prezzo pieno (Thomas KL, 2012a). È anche utile ricordare che, su YouTube, la maggior parte dei video relativi a Penumbra è giunta dopo l’uscita del successivo gioco di Frictional Games, il che sembra contribuire a spiegare queste vendite di un gioco ormai datato, persino leggermente in crescita rispetto al passato.
Nel complesso, Frictional Games ha guadagnato oltre il decuplo della cifra spesa per sviluppare il videogioco.
E negli anni successivi gli incassi sono ulteriormente cresciuti. A luglio 2018 oltre 2.600.000 persone avevano avviato almeno una volta Amnesia: The Dark Descent su Steam (Games–achievements–players, 2018), segno che il numero complessivo del venduto è ancor più elevato, contando coloro che l’hanno acquistato senza averci mai giocato e coloro che l’hanno comprato su una diversa piattaforma.
Le ragioni di questo considerevole successo sono molteplici: «This success is due to many factors, some of which are the uniqueness of the game (horror games without combat do not really exist on PC), the large modding community (more on this later) and the steady flood of YouTube clips (which is in turn is fueled by the modding community output)» (ivi. Corsivi miei). Sempre a proposito di YouTube e modding, poco oltre l’articolo aggiunge:
The output of modding community has been quite big as well. Amnesia is as of writing the 2nd most popular game at ModDB and sports 176 finished mods. Not only do this amount of user content lengthen the life of the game, it has also increased the amount of YouTube movies made with an Amnesia theme. There are lots of popular Let’s Play channels that have devoted quite a bit of time with just playing various user-made custom stories. As mentioned earlier this have probably played a large role in keeping our monthly sales up. (ivi. Corsivo mio).
È peraltro in quest’anno che sono nati o cresciuti alcuni canali di gaming molto popolari, e – come detto – questo loro percorso è proprio legato ad Amnesia: The Dark Descent e altri videogiochi horror. È un ulteriore segnale del fatto che non sia stato solo il gioco di Frictional Games a beneficiare degli youtubers, ma anche il contrario.
Slender Man: creepypasta, videocamere e prove di coraggio
Volendo effettuare una semplificazione si potrebbe affermare che, laddove Amnesia: The Dark Descent ha contribuito alla diffusione dei let’s play (soprattutto a tema horror), Slender Man (o Slenderman) li ha resi appetibili per un’audience di bambini e ragazzi.
Il rapporto fra Slender Man e il gaming su YouTube è scomponibile in due differenti direttrici, una legata al fenomeno delle creepypasta e l’altra ai videogiochi realizzati su questo personaggio. Nel primo caso è possibile parlare di videogiochi come creepypasta, nel secondo di videogiochi sulle creepypasta.
Slender Man è un immenso fenomeno crossmediale bottom up nato praticamente per caso nel 2009, quando un utente di Something Awful posta due immagini modificate in risposta al contest “create paranormal images” (Gerogerigegege, 2009). In queste immagini in bianco e nero, raffiguranti dei bambini, è stata inserita sullo sfondo la sagoma di un uomo alto, magro e senza volto.
La creatura, definita “Slender Man”, si diffonde in brevissimo tempo prima su /x/ (la board di 4chan dedicata al paranormale) e poi in diversi altri siti e piattaforme. Nel frattempo vengono progressivamente definite le caratteristiche di questa creatura, per quanto non si sia formato un canone stringente (Chess, 2015), anche per via della natura fortemente cooperativa e condivisa del progetto (Chess, 2012; Freitas, Amaro, 2016; Smith, 2017) in cui diversi utenti con differenti capacità e punti di vista hanno plasmato la generica idea di fondo.
Quest’idea già nasceva, come ha affermato il suo creatore in un’intervista, da una commistione di vari spunti: «I was mostly influenced by H.P Lovecraft, Stephan [sic] King (specifically his short stories), the surreal imaginings of William S. Burroughs, and couple games of the survival horror genre; Silent Hill and Resident Evil. I feel the most direct influences were Zack Parsons’s “That Insidious Beast”, the Steven [sic] King short story “The Mist”, the SA tale regarding “The Rake”, reports of so-called shadow people, Mothman, and the Mad Gasser of Mattoon» (Tomberry, 2011).
«Users critiqued these performances, discussing what elements made them most effective. Successive performances built upon existing performances and discussions» (Peck, 2017: 35). Vengono prodotte finte immagini d’epoca, documentazioni, programmi radiofonici, mockumentary e molto altro, con narrazioni che mettono in correlazione fra loro questi diversi testi, i quali si citano reciprocamente. Vengono rigettate le produzioni che risultano palesemente inautentiche, ma nonostante questo nascono anche molti testi lontani dall’originaria idea horror, fra cui le numerose fanfic a tema sentimentale su Slender Man (Chess, 2015). Restando nel primario filone horror, invece, le diverse apparizioni della creatura presentano alcune caratteristiche comuni, che è utile riportare perché si relazionano anche con i videogiochi sul tema:
«One dominant theme that materialized is the haunting presence of the creature. The protagonists are almost never in direct contact with Slender Man. They are aware of his presence, rarely through sightings, but most often because of physical reactions to his proximity. They start coughing and wheezing, sometimes they lose consciousness, and they also experience an overpowering desire to sleep. Amnesia plays a big part in the plot, as the protagonist discovers tapes of himself talking to people and being in places that he simply cannot recall» (Boyer, 2013: 251-252. Corsivi miei).
Slender Man si è rapidamente diffuso come nuova entità folklorica. Possiede infatti i tre attributi del folklore: collettività, variabilità e performance (Bauman, 1986, citato in Smith, 2017: 9). Inoltre nella sua figura si uniscono due concetti di particolare rilevanza, identificabili coi termini “weird” e “eerie”, intendendo il primo come la presenza di qualcosa che appare fuori posto, e il secondo come fallimento dell’assenza o fallimento della presenza (Fisher, 2016: 61). Slender Man, grazie al suo statuto ambiguo, può essere inquadrabile in entrambe le prospettive. La sua presenza, intuibile ma quasi mai certa, è legata al mistero e alla riflessione su di esso, tramite gli inquietanti indizi che trapelano. Ma la sua figura è anche, al pari degli orrori lovecraftiani, una “presenza” eccessiva e indicibile propriamente weird. Queste due caratteristiche sono riscontrabili anche nei videogiochi legati a Slender Man e nei numerosi “cloni” derivanti dal loro successo.
Quando è uscito Slender: The Eight Pages (Mark J. Hadley, 2012), inizialmente noto solo come Slender, è stata da più parti sottolineata la sua minimalistica efficacia come videogioco horror. In questo gioco bisogna raccogliere, come suggerisce il titolo, otto pagine disseminate casualmente in determinati punti di un bosco notturno. Col proseguire della raccolta Slender Man si manifesta sempre più spesso e diviene sempre più pericoloso.
Già Amnesia: The Dark Descent si era rivelato un ottimo survival horror con un costo di realizzazione di circa 360.000 dollari, una cifra decisamente lontana dal budget di un “tripla A” ma comunque relativamente elevata. Slender: The Eight Pages è invece un piccolo progetto, amatoriale, con un costo irrisorio, che è stato tuttavia capace di ottenere una considerevole risonanza, in primo luogo grazie ad alcune felici scelte di design. Un’analisi del gioco è stata presentata, fra gli altri, da Frictional Games (Thomas KL, 2012b), poi recuperata e ampliata da Chris Pruett (2012a).
Entrambi sottolineano l’importanza di non poter vedere chiaramente Slender Man (fissarlo per troppo tempo fa impazzire il personaggio) e non conoscere – almeno nelle prime partite – le modalità con cui la creatura opera. «The game hides the mechanics that govern how the monster hunts you down and what makes you eventually get killed. I think this was a good move as you are free to make up for yourself what happened» (Thomas KL, 2012b) e «By hiding the core rule set and giving you almost no visual information about the behavior of the game, Slender robs you of the comfort that predictability brings. It forces you to think on your feet, to accept the narrative rather than focus on the mechanic» (Pruett, 2012a).
I due elementi sono collegati: la mancata conoscenza delle meccaniche di gioco rende più difficile rompere l’immersività, e quando il fruitore si trova davanti un “vuoto” tende a riempirlo con qualcosa di più spaventoso di quanto si potrebbe effettivamente presentare (Rouse, 2009: 17). Si tratta di una scelta che contrasta con gli horror di stampo più action, in cui i mostri sono (sovra)esposti, che si ricollega invece alla tradizione di alcuni survival horror precedenti come Fatal Frame e, risalendo più indietro, all’Orrore Cosmico di Lovecraft.
A proposito di Fatal Frame, il direttore della serie Makoto Shibata, durante un’intervista utilizzò le seguenti parole a proposito della modalità con cui avevano introdotto la componente horror nei loro giochi: «I believed that our method to invoke the fear in the player’s own imagination maximizes the recipient’s fear. We do not simply show sacry things, but provide fragmental information and create a situation that forces the player to imagine these horrors. I personally call it, “Subtracting horror”» (Stuart K., 2006, citato in Picard, 2009: 111). A proposito di Lovecraft si possono ricordare le parole dell’autore stesso: «L’unico dato di fatto è questo: se venga stimolato o no nel lettore un senso di terrore e di contatto con sfere e potenze ignote, un atteggiamento indefinibile di timoroso ascolto, come captare il battere di nere ali o lo stridere di forme e entità esterne ai confini dell’universo conosciuto. E, naturalmente, più il racconto riesce a trasmettere questa atmosfera in modo completo e uniforme, migliore è come opera d’arte in quel settore» (Lovecraft, 1993 [1927]: 462).
Questa visione evocata presenta una correlazione anche con gli altri due punti sottolineati sul blog di Frictional games: la «sensory deprivation» (vedendo sempre gli stessi elementi continuamente ripetuti il giocatore crede di scorgere cose che non esistono) e la «tunnel vision» creata dalla torcia, in cui i margini dello schermo restano perennemente avvolti nell’oscurità (Thomas KL, 2012b). A proposito della sensory deprivation ricordiamo anche che «la deprivazione dei normali input visivi può stimolare l’occhio interiore, producendo sogni, immagini vivide o allucinazioni. Esiste perfino un termine specifico per riferirsi alle sequenze di allucinazioni – varie e dai colori brillanti – che confortano o tormentano chi è tenuto nell’isolamento o nell’oscurità: è il “cinema del prigioniero”. Per produrre le allucinazioni non occorre una deprivazione visiva totale: la monotonia degli stimoli visivi può avere lo stesso effetto» (Sacks, 2013 [2012]: 45).
Pruett aggiunge la grande importanza che ricopre il suono all’interno di questo breve videogioco: «I think about 80% of the effectiveness of Slender is the sound. The sound is overwhelming. It demands your attention, forces your blood to pump in spite of the otherwise unremarkable graphics and presentation. The way the sound increases in intensity with each note you find also keeps the tension from falling with repetition» (Pruett, 2012a).
E in un altro articolo, in cui parla di Slender e di Five Night’s at Freddy’s, segnala altri due punti, che risultano peraltro di particolare importanza in relazione al legame con YouTube: «Pop-Out Scare Failure Event» e «Mettle Tests» (Pruett, 2015). Il primo punto riguarda un utilizzo oculato degli scare jumps: «Rather than pop some hideous creature out of a dark corner every few minutes, these titles build tension with the threat of a pop-out scare, which doesn’t actually occur until the player fails and reaches the game over state» (ivi. Corsivo dell’autore). Lo scare jump collocato al vertice di una sequenza atta a generare tensione è un elemento efficace ma non originale, è rintracciabile anche in diversi film horror, ma in altri contesti è seguito da un momento distensivo, mentre in Slender: The Eight Pages il culmine coincide con il game over.
Il secondo punto è invece relativo alla popolarità di questo videogioco fra i più giovani: «The design of Freddy’s and Slender is good, but I think their virality amongst kids has to do with them being tests of mettle. These games are a safe way to prove your courage, both to yourself and your classmates. […] Slender and Freddy’s provide easy-to-reproduce fear challenges that kids can perform without involving adults» (ivi).
Il fattore “prova di coraggio” potrebbe essere una delle caratteristiche che ha contribuito a rendere l’esperienza del videogioco non esauribile con la visione di un let’s play, pur trattandosi di un prodotto semplice e veloce da visionare nella sua interezza. È presente una componente di emulazione e sfida di cui il let’s play costituisce un facile innesco. Rispondendo a un commento relativo ai video su YouTube, Pruett scrive:
«Agreed! The rise of Let’s Play and Twitch has made these games more accessible to teens than ever before. But I would argue that, in this era of dramatically increased visibility amongst teens thanks to YouTube, Freddy’s and Slender are breakout successes because of the way that they are designed. Pewdiepie plays a lot of games, but most of them do not become middle school phenomenons. These titles are structured in a way that allows them much larger success» (ivi. Corsivo mio).
Slender: The Eight Pages è peraltro solo uno dei numerosi videogiochi fanmade che sono stati realizzati su Slender Man, per quanto sia stato quello che ha impresso una certa direzione a molti degli altri giochi realizzati successivamente, considerando il successo della sua formula su YouTube e fra i ragazzi. Molti di questi videogiochi presentano cambiamenti prevalentemente grafici, con ambientazioni differenti rispetto al bosco di Slender: The Eight Pages, ma con la stessa struttura basata sulla raccolta di un certo numero di oggetti e lo “stalking” di Slender Man.
Fra questi si ricordano Slender Man’s Shadow (Marc Steene, Wray Burgess, 2012), Slender Space, Slender Rising (Michael Hegemann, 2013) e Slender Rising 2 (Michael Hegemann, 2014), SlenderMod (Tim Spaninks, Marco van den Oever, 2012), Slender: Flashlight (Triggered Games, 2013), Slender Nightmare Camp (fortunacus, 2013), Slender: Anxiety (the_adc, 2014) e molti altri. La maggior parte di questi videogiochi è presente su YouTube in numerosi video, alcuni dei quali (per esempio quelli di PewDiePie e Markiplier) con un numero di visualizzazioni molto elevato. Nessuno di essi è disponibile su Steam, sono tutti scaricabili o giocabili su siti come Game Jolt – in cui la ricerca del termine “slender” genera oltre duecento risultati – Newgrounds o Dark Horror Games.
Al tempo stesso sono estremamente diffusi i videogiochi che mantengono la stessa struttura di Slender: The Eight Pages modificando però i personaggi coinvolti e inserendo differenti inseguitori rispetto a Slender Man. Fra gli “stalker” inseriti in questi videogiochi si possono ricordare, a titolo d’esempio, una donna fantasma (Dream of the Blood Moon, The Unbeholden, 2013), Babbo Natale (Darth Santa, jaekkl, 2015), il windigo (The Wendigo, warka, 2017), Tinky–Winky dei Teletubbies (Slendytubbies, Sean Toman, 2012), Slender Man in versione pony (Derp Till Dawn, Donitz, 2013) e altri.
Anche per questa categoria, i video reperibili su YouTube sono spesso numerosi e molto visualizzati. Sono stati inoltre realizzati un vasto numero di videogiochi di differenti tipologie, incentrati su Slender Man o comunque in cui compare come personaggio. In linea di massima è possibile affermare che l’operazione svolta consiste nell’ibridazione fra Slender Man e un popolare videogioco del momento, come nel caso di Slendertale (Khamelot, 2016), il quale unisce meccaniche e personaggi di Slender Man e Undertale (Toby Fox, 2015).
Mentre era in corso il flusso di videogiochi fanmade relativi a Slender Man è uscito, nel 2013, Slender: The Arrival (Blue Isle Studios, 2013), il videogioco ufficiale dedicato al personaggio, nonché l’unico in vendita su Steam e su console. Molti degli elementi che lo compongono sono una versione ampliata di quanto già visto in Slender: The Eight Pages e altri videogiochi realizzati dai fan. L’inserimento di una trama più o meno vaga, per esempio, era stato già compiuto in giochi come Slender’s Woods (ZykovEddy, 2012) e Haunt: The Real Slender Game (poi rinominato semplicemente Haunt, ParanormalDev, 2012).
Almeno uno di questi elementi merita una menzione a parte: l’utilizzo di una telecamera da parte del protagonista. Anche in questo caso non costituisce una novità nel panorama dei videogiochi su Slender Man, e tantomeno nei videogiochi in generale. Si ricorda per esempio il particolare precedente di The Fear (Digital Frontier, 2001), videogioco full motion rilasciato solo in Giappone in cui il protagonista è un cameraman.
La sua presenza nel gioco ufficiale su Slender Man, però, non è priva di interesse. Già in Slender: The Eight Pages la presenza di una telecamera era intuibile per almeno due ragioni, relative alla lore del personaggio: Slender Man sarebbe visibile solo attraverso una telecamera, e la sua comparsa provoca dei disturbi (visibili nel videogioco) negli apparecchi di registrazione. È un esempio di glitch horror (Crawford, 2017), in cui l’ansia è legata al malfunzionamento e alla fallibilità della tecnologia, come riscontrabile in The Ring o nel videogioco Eternal Darkness: Sanity’s Requiem. In Slender: The Eight Pages questo malfunzionamento è però percepito in prima persona, e si lega strettamente alla visione (tramite telecamera). Una presenza digitale che, in Slender: The Arrival, è resa esplicita tramite diversi indicatori a schermo, sempre attivi, fra cui l’icona REC.
L’importanza della telecamera può essere sintetizzata in tre parole, ciascuna delle quali fornisce una immagine di sintesi sulle componenti coinvolte: immersività, incertezza e mediazione.
– Immersività: tendenzialmente, nei videogiochi, le informazioni visualizzate a schermo (definite HUD, Head–Up Display) sono percepite come un elemento capace di ridurre o annullare l’immersività, perché rivelano immediatamente la finzionalità del mondo di gioco, mostrandone alcune statistiche (i punti vita del personaggio, il punteggio, la mappa di gioco, lo stato di degradamento degli oggetti equipaggiati…). Alcuni videogiochi, come quelli legati alle corse automobilistiche, consentono di inserire con una certa naturalezza numerose informazioni, ponendole nel cruscotto dell’automobile, ma si tratta di casi specifici.
La presenza di una telecamera costituisce un altro di questi specifici casi, come ha sottolineato fra gli altri Thomas Grip di Frictional Games in un suo commento su Slender: The Arrival (Thomas KL, 2013). È uno di quei casi, dice, in cui la presenza di HUD non solo non danneggia l’immersività, ma al contrario contribuisce a rinforzarla. Un altro esempio da lui citato è il visore di Samus Aran in Metroid Prime (Retro Studios, 2002). Trattandosi del visore di una futuristica tuta da battaglia può credibilmente mostrare un gran numero di informazioni, ed è inoltre influenzato dagli elementi esterni come gocce di pioggia, attacchi elettrici e bava dei mostri. Nello specifico caso di Slender Man, inoltre, l’immersività di questo oggetto è accresciuta anche dalla lore sul personaggio che, come detto in precedenza, è legata all’impiego di apparecchiature tecnologiche (e ai loro malfunzionamenti).
– Incertezza: il tremolio nella videocamera non è solo un mero effetto grafico che omaggia i mockumentary su Slender Man, poiché costituisce anche di un elemento di gioco, in quanto indicatore di prossimità del nemico. Un indicatore che risulta però volutamente vago: «How near is the Slenderman in Slender?» domanda Chris Pruett in un suo articolo (2012b) sull’importanza dell’incertezza nei videogiochi horror. Secondo Pruett limitare o rimuovere le indicazioni a schermo, in un videogioco horror, non contribuisce solo all’immersività, ma aiuta a offuscare i dettagli per rendere più spaventosa l’esperienza di gioco.
Pruett cita, come esempio in negativo, Dead Space (Visceral Games, 2008). Sotto il punto di vista dell’immersività questo gioco ha integrato piuttosto bene l’HUD, inserendo i diversi indicatori nella tecnologica tuta del protagonista, ma i dati forniti sarebbero, secondo Pruett, troppi, andando a ridimensionare la componente orrorifica del gioco: «Isaac’s life bar is attached to his back, his gun prominently displays the number of shots remaining, and he has a special gadget that shows him where to go whenever he is lost. This information is reassuring. In the heat of battle, we can rest easy if Isaac has full health; even a couple of direct hits aren’t likely to kill him. We know where we’re going, and how much ammo and health we have, at all times» (2012b).
Questa logica è applicabile a numerosi elementi di gioco (la salute dei nemici e quella del personaggio, il numero di colpi in canna, l’esatta efficacia di un oggetto di cura…), ma si rivela di particolare interesse soprattutto in relazione al rilevamento dei nemici. Tendenzialmente, in un buon gioco horror, la presenza del nemico deve essere suggerita ma non esplicitata, fino al momento della comparsa del mostro. I versi di uno zombie in Resident Evil, la radio gracchiante in Silent Hill e il tremolio nella telecamera di Slender Man sono tutti elementi visivi o sonori che lasciano intuire senza rivelare troppo. Un’interferenza indica la vicinanza di Slender Man, ma non indica quanto sia vicino, né da quale direzione stia arrivando.
– Mediazione: laddove, in ogni attività videoludica, è presente la mediazione di uno schermo collocato fra il videogiocatore e il mondo di gioco, la fruizione di un let’s play su YouTube costituisce una sorta di mediazione schermica al quadrato. Con la presenza di una telecamera interna la mediazione diviene cubica: uno schermo separa avatar e mondo di gioco, un secondo separa il giocatore/youtuber dal proprio avatar e un terzo il fruitore del video dal giocatore/youtuber. Ma la “mediazione” è anche quella fra visione e nascondimento, i due poli su cui giocano molti survival horror, qui negoziata dalla telecamera.
Seguendo la logica dei filmati su Slender Man (i quali attingono a loro volta da una lunga tradizione di found footage) la creatura non può essere vista o registrata, se non di sfuggita (a causa della pazzia e dei disturbi nelle riprese), ma al tempo stesso si cerca di registrare tutto, per provare la sua esistenza o anche solo aver salva la vita. Una «Scan-and-search visuality» (Soderman, 2015: 313) in cui bisogna osservare (registrando) ovunque in cerca delle pagine disperse, evitando al tempo stesso di guardare Slender Man. Una “mediazione” che trova infine un corrispettivo nell’azione contemporanea dello youtuber, il quale con una differente videocamera osserva e registra, mosso da due spinte contrastanti: evitare il mostro per proseguire nel gioco ed essere inseguito da quest’ultimo per generare reactions da mostrare in video.
Altraum (2007), Penumbra Overture Episode 1 red burning 1, pubblicato il 05/07/2007 su YouTube.
Bauman R. (1986), Folklore, Cultural Performance, and Popular Entertainments: A Communications-Centered Handbook, Oxford University Press, New York.
bloodrunsclear (2009), Penumbra Movie Trailer (Fake), pubblicato il 09/04/2009 su YouTube.
Boyer T.M. (2013), The Anatomy of a Monster: The Case of Slender Man, «Preternature: Critical and Historical Studies on the Preternatural», 2, 2, pp. 240-261.
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Riprendiamo il viaggio nell’evoluzione dei survival horror videoludici. Nella parte 2 avevamo coperto i videogiochi usciti fra il 1996 e il 2006. Se non hai letto le parti precedenti di questa storia del gaming horror le trovi qui e qui.
Resident Evil: dal 3.5 al 4
Situazioni come quella di Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (di cui si è parlato alla fine della parte 2) non sono state dei casi isolati. Per un certo periodo hanno rappresentato una svolta nella direzione complessiva del genere survival horror.
La saga di Resident Evil è in tal senso utilizzabile come termometro di questo più diffuso cambiamento. Dopo la prima uscita del 1996 si sono succeduti, a fianco di numerosi spin–off minori e varie riedizioni, Resident Evil 2 (Capcom, 1998), Resident Evil 3 (Capcom, 1999), Resident Evil Code: Veronica (Capcom, 2000) e Resident Evil 0 (Capcom, 2002). Fino a quest’ultimo episodio, che costituisce un prequel della saga, i cambiamenti che si sono susseguiti non hanno comportato stravolgimenti nella struttura di gioco, che rimane basato su telecamere fisse, combattimenti “di posizione” e un sistema di controllo di non semplice utilizzo. Il seguente Resident Evil 4 (Capcom, 2005) avrebbe dovuto, inizialmente, introdurre alcuni cambiamenti, fra cui un’ambientazione più legata ai racconti di fantasmi che a mutanti e laboratori segreti di ricerca.
Questo iniziale concept è stato poi scartato e Resident Evil 4 è stato ripensato quasi da zero. Della versione precedente, divenuta nota fra gli appassionati come Resident Evil 3.5, restano i filmati delle demo giocabili (come Terminator2032, 2007). In verità, il progetto originario di Resident Evil 4 risale a uno stadio ancor precedente. Bisogna tornare indietro al 1998, infatti. Esso, però, non andò a concretizzarsi in una demo giocabile, e lo spunto alla base fu poi utilizzato per un altro videogioco, Devil May Cry (Capcom, 2001) (Perry, 2001).
Si torni però a Resident Evil 3.5. Leon Kennedy (il protagonista), armato di torcia e pistola, percorre i corridoi di un antico castello in cui diversi oggetti, come bambole e armature, si muovono da sole nella miglior tradizione delle storie di fantasmi. Ed è proprio una presenza simil–ectoplasmatica il nemico che, con un uncino, aggredisce il protagonista. Tutto questo sarebbe stato comunque legato a un virus, del quale Leon sarebbe stato infetto (ed è da esso che sarebbero dipese le sue allucinazioni), ma simili elementi apparivano declinati in un contesto molto più gotico e fantasmatico.
Tuttavia, nel 2004, Capcom ha annunciato il radicale ripensamento del videogioco, presentando quello che è poi divenuto il Resident Evil 4 definitivo. Quest’ultimo è divenuto un titolo particolarmente influente e ha inserito elementi che sono stati successivamente recuperati da diversi altri videogiochi. Anche a distanza di circa un decennio, Resident Evil 4 è stato esplicitamente citato (dal designer Ricky Cambier in Prestia, 2013) come fonte di ispirazione per un prodotto di ampio successo come The Last of Us (Naughty Dog, 2013).
Le principali modifiche introdotte hanno ovviamente mutato anche la stessa serie di Resident Evil. In una retrospettiva legata all’uscita del sesto capitolo, veniva sottolineato – con toni enfatici ma non a torto – la radicale svolta impressa alla serie da Resident Evil 4, fondata in primo luogo su «The behind-the-shoulder camera angles, the more intelligent enemies, the action focus, the quick-time events» (Thomas, 2012).
La gestione della telecamera ha una considerevole centralità. Vengono abbandonate le inquadrature fisse, ancora presenti in Resident Evil 3.5, a favore di una following camera (Nitsche, 2008) posta alle spalle del protagonista e controllabile dal giocatore. Quando viene premuto il pulsante per mirare, però, la telecamera compie un automatico zoom in avanti e si posiziona appena dietro la spalla di Leon Kennedy. Questo zoom «reduces our field of vision and makes us less aware of what’s around» (Perron, 2005) impedendo per esempio di individuare un nemico che sta per colpire Leon alle spalle, azione possibile quando si ha il controllo della following camera. Si tratta peraltro di un gesto con implicazioni visuali e testuali non scontate: «spostare il proprio sguardo dinnanzi a uno schermo cinematografico non comporta una variazione interna al mondo diegetico, cambiare l’angolazione della propria prospettiva in un mondo digitale tridimensionale conduce invece a una mutazione narrativa e dialogica – all’interno del testo sta accadendo qualcosa che altrimenti non sarebbe accaduto. […] Lo spostamento dello sguardo si compie perciò all’interno di una terra di nessuno, in un cortocircuito che opera una sintesi tra testo e fuori-testo» (Caselli, 2018).
Questo sistema di telecamera e mira è in seguito ricomparso in diversi altri videogiochi, sia survival horror come Dead Space (Visceral Games, 2008) sia sparatutto con tratti horror/fantascientifici come Gears of War (Epic Games, 2007).
Un altro evidente cambiamento riguarda il citato “action focus” di questo quarto capitolo, in cui Leon Kennedy affronta una serie di rocambolesche situazioni, prende a calci i nemici e effettua azioni acrobatiche, rispetto alla rigidità dei precedenti capitoli. Molte di queste azioni sono peraltro legate a dei quick–time events, che richiedono la pressione di un determinato pulsante al momento giusto, durante un combattimento o all’interno di una cutscene. Anche i nemici vengono modificati per rispondere all’accresciuta reattività del protagonista, e gli zombie sono sostituiti dai ganados, esseri umani infetti, capaci di compiere un maggior numero di azioni – e più rapidamente – rispetto ai non morti.
Resident Evil 5: ladri di tombe in Africa
Simili elementi ritornano, ulteriormente sviluppati in chiave action, nel successivo Resident Evil 5, uscito nel 2009 e ambientato in un’immaginaria regione dell’Africa subsahariana. La collocazione di questo videogioco in un genere, il survival horror, che stava progressivamente mutando, è passata in secondo piano per l’attenzione dedicata al dibattito su razzismo e postcolonialismo in Resident Evil 5. Un dibattito nato in seno alla stampa di settore già prima dell’uscita del gioco, andato in calando dopo alcuni articoli che avevano in parte disinnescato la problematica, soprattutto Yin–Poole (2009). Nell’articolo viene intervistato il professor Glenn Bowman, antropologo verso l’università del Kent, il quale propone un differente punto di vista, in cui Resident Evil 5 può essere persino interpretato in ottica anti–coloniale.
Il discorso si è poi spostato nel dibattito accademico, dove è rimasto – con analisi di alterna efficacia e non senza qualche incomprensione – fino a oggi (Brock A., 2011; Geyser, Tshabalala, 2011; LaLone, 2014; Harrer, Pichlmair, 2015; Martin, 2018 e Harrer, 2018). Anche in queste fonti sono però leggibili, perlomeno in filigrana, i cambiamenti all’interno di Resident Evil e del survival horror. Si prenda, come esempio, la seguente descrizione del videogioco:
«As a Japanese horror survival console game, RE5 taps many conventions of the adventure formula […]. The white, muscular explorer Chris Redfield meets the barbaric other in a monolithic fantasy Africa. In the single-player version, Chris is the only playable character. In the two-player version, the co-protagonist is the mixed-race character Sheva Alomar, whose first and last appearance is in RE5. Gameplay-wise, RE5’s focus is on managing resources […]; foraging for treasure; and mastering surprise attacks by black; genetically modified black characters» (Harrer, 2018: 4-5).
La presenza dei tesori, indicata in questa citazione, merita peraltro una piccola parentesi. La questione, qui solo rapidamente accennata, è importante in un quadro più ampio sull’evoluzione del genere e, in questo caso, all’inserimento di oggetti acquistabili. Questa aggiunta, come sottolinea Chris Pruett (2009), ha generato diversi contrasti fra meccaniche di gioco e narrazione. Nel caso di Resident Evil 5, anche tralasciando la potenziale lettura colonialista (l’invasore bianco che depreda l’Africa) risulta perlomeno strano, se non problematico, che due persone impegnate in una missione umanitaria vadano a depredare antichi templi per vendere monili e acquistare armi più potenti. La meccanica con cui è stato implementato il negozio (e soprattutto la raccolta del denaro necessario per fare acquisti al suo interno) trasforma pertanto, seppur involontariamente, Chris e Sheva in due ladri di tombe.
Meccaniche di gioco ed estetiche si intersecano nuovamente. Il cambiamento non avviene solo nella scelta di un ambiente lontano dagli stilemi più tradizionali del gotico, ma sposta la cornice di riferimento nell’adventure, non inteso qui in senso esclusivamente videoludico.
Le tracce gotiche erano invece ancora rintracciabili in Resident Evil 4, nel castello di Salazar, specialmente nella parte in cui si controlla direttamente la giovane Ashley Graham, la quale nel resto del gioco, come NPC, segue Leon e si lascia da lui proteggere, in qualità di damsel in distress. Ashley, disarmata, si addentra in una delle parti più oscure del castello, ricca di trappole e nemici. Questa parte del gioco, oltre a ricollegarsi a una tradizione gotica di più lunga data, si avvicina ai survival horror con una protagonista costretta a fuggire perennemente dai suoi inseguitori, come Clock Tower e Haunting Ground. Sempre a proposito di ambientazioni, comunque, già altri capitoli della serie avevano presentato scenari meno immediatamente legati alla tradizione gotica, come la Raccoon City di Resident Evil 2.
Tornando al quinto episodio, Chris Redfield, già protagonista del primo Resident Evil insieme a Jill Valentine (era possibile selezionare uno dei due a inizio partita), torna come eroe muscolare, con un fisico da culturista che lo avvicina idealmente ai protagonisti di numerosi film d’azione. La descrizione di Chris Redfield come «l’eroe bianco e scolpito [che] abbatte (letteralmente!) a colpi di fucile una tribù di nativi armati di lance» (Bissell, 2012: 139), tralasciando la “questione coloniale”, è comunque decisamente lontana da quello che è stato l’immaginario dei precedenti survival horror.
Chris è accompagnato da Sheva Alomar (La quale può essere direttamente controllata dal giocatore ricominciando il gioco dopo averlo finito almeno una volta), un elemento, quest’ultimo, vicino alla precedente tradizione dei survival horror, in cui sono spesso presenti più protagonisti, che possono alternarsi nel corso del gioco o essere compresenti. Dai primi esempi come Sweet Home al vasto numero di protagonisti in giochi come Eternal Darkness: Sanity’s Requiem e Forbidden Siren, questa caratteristica è sempre stata piuttosto diffusa, ed è ricollegabile alla narrazione frammentata di certa letteratura gotica (Kirkland, 2011: 25).
Anche in Resident Evil questi protagonisti multipli sono apparsi in più occasioni e con interazioni differenti, dalla scelta del personaggio giocabile nel primo Resident Evil al rapporto protettivo fra Leon Kennedy e Ashley Graham in Resident Evil 4, passando per la cooperazione fra i due protagonisti di Resident Evil 0. La novità di Resident Evil 5 riguarda la modalità cooperativa, in cui due giocatori possono collaborare controllando un personaggio ciascuno, mentre nei casi precedenti un personaggio non era mai giocabile, o un singolo giocatore controllava a turno entrambi.
La compartecipazione all’impresa di due giocatori rischia di depauperare fortemente la natura orrorifica dell’esperienza ludica, un fattore che è stato citato anche dal direttore di produzione Yasuhiro Anpo in un’intervista: «introducendo le dinamiche dei due personaggi all’inizio avevamo paura di guastare l’atmosfera tetra classica della serie. Ma poi abbiamo pensato che non era altro che far entrare due persone di [sic] una casa stregata. Abbiamo lavorato parecchio sul binomio collaborazione e sopravvivenza. Credo che questa combinazione abbia più vantaggi che svantaggi» (in Price, Nicholson, 2009: 201).
Multiplayer, sparatorie e scazzottate
Fuga, visione celata (da nebbia, oscurità…), solitudine e altri elementi altri elementi che hanno caratterizzato il survival horror fino a questi anni sono stati sostituiti da multiplayer cooperativo, azione e rapidità. Il cambiamento non ha riguardato solo la serie di Resident Evil, ma ha rapidamente modificato tutto il genere. Già prima dell’uscita di Resident Evil 5,in molti avevano iniziato a interrogarsi sulla “morte” del survival horror, perlomeno nella sua forma tradizionale, sostituito da una nuova ondata di prodotti action–horror. Bernard Perron, nell’introduzione a un volume miscellaneo uscito fra l’annuncio e la commercializzazione di Resident Evil 5, riporta alcuni di questi commenti (2009: 7). Le posizioni di Leigh Alexander (2008), Jim Sterling (Stanton, 2008) e Shuman e Shaw (2008) offrono un punto di vista giornalistico, non accademico, sull’evoluzione del genere, ma nel talvolta colorito linguaggio con cui descrivono i fatti ciò che emerge è una visione molto lucida sul cambiamento in corso.
E la lista potrebbe essere ulteriormente ampliata con altri articoli non riportati da Perron, come quello di Thomas Cross in cui Resident Evil 5 e Dead Space si collocano in «in a new quadrant of the survival horror genre» (2009). Non sono dunque ritenuti estranei al genere, ma propongono qualcosa che resta al di fuori dei precedenti paradigmi del survival horror.
I personaggi diventano muscolosi lottatori professionisti, le sparatorie sostituiscono la ricerca della paura, le munizioni disponibili sono sempre più numerose e le ambientazioni – quando non vengono a loro volta modificate – sono solo un omaggio formale al passato. Le ragioni dietro a queste scelte, sottolinea Alexander (2008) sono in primo luogo economiche: in quegli anni nascono e si affermano nuove serie di sparatutto come Call of Duty e Halo, capaci di attirare casual e hardcore gamers, le cui vendite considerevoli impongono nuovi standard e spingono molti a lanciarsi in una sorta di “corsa all’oro” verso questo genere (Cavaleri, 2010).
Pruett (2008) offre ulteriori precisazioni in un suo commento all’articolo di Jim Sterling: «I don’t think it’s quite as simple as “players are used to Halo and Resident Evil 4 and won’t accept anything else.” I think a better answer is “publishers don’t believe that anything other than Halo and Rock Band will sell, and it costs so much to make games nowadays that there’s no way they are going to take a risk on a niche genre.” […] the market climate that next-gen consoles create is one of conservatism and risk-aversion. You can’t double and triple development costs while erasing the installed base without some creative casualties, and genres like survival horror sound like risky bets to most publishers».
Anche le ibridazioni come Resident Evil 4 (sparatutto e survival horror), Mass Effect (sparatutto e gioco di ruolo; Bioware, 2007) e Bioshock (sparatutto e avventura; Irrational Games, 2007) si rivelano dei successi commerciali, invogliando ulteriori team di sviluppo a tentare questa via, non sempre ottenendo il risultato sperato.
In primo luogo altre saghe già avviate, al pari di Resident Evil, tentano uno svecchiamento della loro impostazione, spesso tramite un rinnovato sistema di combattimento. L’Alone in the Dark del 2008 (Eden Games) inserisce diversi combattimenti, sessioni di guida, arrampicate e altri momenti dal forte sapore action. Silent Hill: Homecoming (Double Helix, 2008) mantiene ambientazioni e nemici simili ai suoi predecessori, ma aumenta i combattimenti e li rende più dinamici, con combo e schivate. Siren: Blood Curse, remake di Forbidden Siren, «retells the events of the first game with changes aimed at a broader audience; more combat–oriented levels and a mixed American/Japanese cast» (McCrea, 2009: 227).
I combattimenti più veloci, numerosi e dinamici citati in tutti questi casi sono peraltro anche resi possibili dall’evoluzione tecnologica, ma il loro inserimento in serie già avviate da alcuni anni genera una sorta di sfasamento, con doppia velocità. Perdurano meccaniche di gioco nate anni prima e magari derivate dalle limitazioni tecniche del tempo, affiancate però da inserimenti del decennio successivo, caratterizzato da differenti possibilità di programmazione e un diverso gusto nel pubblico.
Molti nuovi survival horror, nel frattempo, emergono con un focus più o meno forte sulle componenti action, come The Suffering (Surreal Software, 2004) e The Suffering: Ties that Bind (Surreal Software, 2005); Cold Fear; Condemned: Criminal Origins (Monolith Productions, 2005) e Dead Space. Quest’ultimo, in particolare, nasce con diverse impostazioni simili a Resident Evil 4, come il sistema di mira, con la differenza che Isaac Clarke (il protagonista del gioco) può anche camminare mentre spara. Questa piccola ma significativa differenza è sufficiente, secondo Pruett (2011), a rendere Resident Evil 4 molto più difficile di Dead Space. I successivi Dead Space 2 (Visceral Games, 2011) e soprattutto Dead Space 3 (Visceral Games, 2013) virano ulteriormente verso l’action, moltiplicando i nemici da affrontare contemporaneamente e aggiungendo una modalità cooperativa.
In questo terzo episodio vengono inoltre aggiunte delle microtransizioni legate alla modalità per giocatore singolo. È infatti possibile acquistare le risorse per il crafting delle armi tramite pacchetti da due o tre dollari. Questo inserimento, in un periodo di forte contestazione del modello (Švelch, 2017), ha inasprito le critiche verso il videogioco.
E, ancora, è possibile citare sparatutto in prima e terza persona con componenti horror più o meno centrali, come i già citati Gears of War e Bioshock, Clive Barker’s Jericho (Mercury Steam, 2007), F.E.A.R. – First Encounter Assault Recon (Monolith Productions, 2005), Darkwatch: Curse of the West (High Moon Studios, 2005) e Left 4 Dead (Valve, 2008). Quest’ultimo, peraltro, è fortemente cinematografico e incentrato sul multiplayer. Ogni partita, attraverso elementi generati casualmente e la «recitazione “automatica”» dei protagonisti e l’alta spettacolarizzazione può apparire come una sorta di film action–horror sempre differente (Zanoli, 2011: 44).
Le classificazioni di Chris Pruett
La prospettiva di una evoluzione action del survival horror è corretta, in termini generali, ma non delinea l’intero quadro del genere nel periodo di tempo considerato. Uno sguardo più ampio può essere recuperato dall’analisi di Chris Pruett (2012), veterano dell’industria videoludica ed esperto di videogiochi horror.
Andate a questa pagina e guardate i suoi piani cartesiani riassuntivi. Uno dei due assi è “easy-hard”, l’altro è “thinking-doing”. Nei quadranti egli ha collocato i vari videogiochi, seguendo di volta in volta suddivisioni di questo genere:
Fra gli horror prodotti in Giappone e in Occidente.
In base ai punteggi ottenuti dalla critica
In base all’anno di uscita.
Pur con il caveat da lui stesso fornito, relativo alla soggettività del posizionamento (specialmente per quanto riguarda l’asse della difficoltà) e alla non esaustività degli esempi forniti, la mappatura di Pruett rimane un utile strumento. In questo caso è utile osservare, in particolare, il quadrante doing/hard in basso a destra, dove è collocabile la maggior parte degli horror di carattere più action. I videogiochi qui presenti sono, in primo luogo, quasi tutti prodotti in Occidente, con l’eccezione di Resident Evil 4 (ma, come indicato in precedenza, è una serie che ha comunque sempre guardato verso modelli occidentali). È peraltro interessante osservare che i videogiochi giapponesi occupano i due estremi sull’asse della difficoltà. Il lato “easy” è quasi interamente occupato da loro, ma la punta più esterna del lato “hard” è occupata da Siren e Catherine (Atlus, 2011).
I punteggi di questi videogiochi sono inoltre tendenzialmente elevati e si collocano nei periodi 2001–2005 e 2006–2011. Quest’ultimo periodo è tuttavia presente anche in un altro punto del grafico, grosso modo collocato fra l’intersezione degli assi e il quadrante “thinking/hard”. Sono qui collocati alcuni videogiochi come Cursed Mountain (Sproing Interactive Media, 2009), Deadly Premonition (Access Games, 2010) e Alan Wake (Remedy Entertainment, 2010). Questi e altri esempi coevi rappresentano una differente evoluzione del survival horror, in cui gli elementi action risultano più contenuti e inseriti all’interno di un contesto più tradizionale.
Per esempio in Alan Wake sono presenti delle pagine che contengono ulteriori dettagli sulla storia in corso, secondo la già citata tradizione gotica. In Alan Wake queste pagine sono presenti come “collezionabili” da rintracciare in punti nascosti dei livelli (insieme a dei thermos del caffè, anch’essi collezionabili finalizzati a ottenere tutti gli achievements del gioco). In alcuni momenti questa scelta, però, genera uno scollamento fra il piano ludico e il piano narrativo simile alla raccolta dei tesori in Resident Evil 5.
Laddove la narrazione spinge Wake (e il giocatore) ad affrettarsi, la caccia ai collezionabili lo spinge a rallentare per esplorare a fondo le ambientazioni. Come ha correttamente osservato Chris Pruett in proposito «rather than playing the character, you have to treat the game like a system, try to second-guess the level designers, and always avoid the main path to the next checkpoint. Wake will say, “I had to get there as quickly as possible,” and the game will present you with a straight shot to “there,” but instead of just running down that strip like we would expect this character to do, Wake (per your command) spends his time running around the edges of the area, trying to jump over boxes and stuff, and generally acting drunk» (2010). Si tratta peraltro di un problema riguardante anche altri survival horror e diversi videogiochi appartenenti ad altri generi.
Alan Wake pone il giocatore nei panni di uno scrittore (il protagonista di Cursed Mountain è invece un alpinista, mentre quello di Deadly Premonition èun agente dell’FBI) e presenza numerose sequenze con vagabondaggi notturni nei boschi e fasi più distese, di indagine e dialogo. I combattimenti fanno ampio uso della torcia. Quest’ultima, utilizzata come elemento di gameplay, ha una lunga tradizione nel genere horror (McCrea, 2009: 225). In questo caso deve essere utilizzata per indebolire i nemici, avvolti da un manto d’ombra protettivo, prima di poterli eliminare con un’arma da fuoco.
Almeno nella prima parte del gioco si affronta un numero ridotto di avversari, anche se nella parte finale dell’avventura sono inserite situazioni di carattere differente, fra cui una battaglia sul palco di una band metal.
Si tratta però di videogiochi che non hanno avuto una diffusione rilevante e sono stati realizzati con un budget ridotto. Questo perché, come Pruett aveva sottolineato già alcuni anni prima (2008) i costi di produzione stavano progressivamente crescendo, e per i titoli con un alto budget si preferiva puntare su tipologie di gioco ritenute sicure, come gli sparatutto. Per le differenti nicchie, invece, fra cui quella del survival horror, venivano al più realizzati dei progetti più contenuti, per evitare grosse perdite in caso di un fallimento. Questa è la situazione dei team di sviluppo “tradizionali” come per esempio Capcom, la quale ha proseguito anche con Resident Evil 6 (Capcom, 2012) nella commistione fra horror e azione, ricercata anche in molti degli spin–off e capitoli minori rilasciati nello stesso periodo (come Resident Evil: Operation Raccoon City, Capcom, Slant Six Games, 2012, uno sparatutto multigiocatore).
Nel frattempo stavano però affermandosi alcuni esponenti della scena indie, con differenti tipologie di gioco. Uno di questi prodotti, che compare nella tabella di Pruett, è Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010), strettamente legato anche all’ascesa del gaming su YouTube.
Questo e altri videogiochi avrebbero dato una nuova direzione al genere, in un momento in cui il suo unico futuro sembrava quello dell’ibridazione con l’action/sparatutto.
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