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I videogiochi survival horror: la storia – parte 4

Quarta parte della storia sul survival horror, dedicata ad Amnesia e Slender Man

Riassumiamo in estrema sintesi quanto indicato nella parte 3 (alla cui lettura si rimanda per una panoramica più ampia). Negli anni immediatamente precedenti all’affermazione di YouTube, i videogiochi horror hanno assistito a una progressiva virata verso l’action, soprattutto (ma non solo) nelle produzioni occidentali. Alcune saghe horror giapponesi rimangono più vicine ai modelli del periodo precedente, ma sono relegate nei confini di una determinata nicchia. In questo quadro emergono tuttavia dei “nuovi” survival horror, indipendenti, prodotti in occidente, che abbandonano l’action, ottengono un grandissimo successo e divengono una presenza costante su YouTube.

Vengono di seguito presentati, singolarmente, vista l’importanza che hanno rivestito, i tre “apripista” che in tempi diversi hanno maggiormente sospinto questa nuova ondata: Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010) e Slender: The Eight Pages (Parsec Productions, 2012). A essi, nella quinta parte, si aggiungerà Five Nights at Freddy’s (Scott Cawthon, 2014) come ultimo elemento del terzetto.

Nel loro periodo di uscita, l’affermazione del gaming sulla piattaforma è un processo in corso, e diversi youtubers hanno raggiunto l’effettiva notorietà proprio grazie a uno o più di questi videogiochi. Amnesia: The Dark Descent, in particolare, è strettamente legato alla carriera di PewDiePie (Smith T., Obrist, Wright, 2013), Markiplier (Youtubers First Videos | Youtubers First Time! ™, 2015) e Favij (NiKyBoX, 2012a).

Una breve annotazione: alcuni dei discorsi che saranno trattati qui e nella quinta parte li ho anche affrontati in Evolution of The YouTube Personas Related to Survival Horror Games (un mio articolo accademico, in inglese, pubblicato su «Persona Studies») e, in misura minore, in altri miei articoli dedicati a YouTube. Rinvio alla pagina delle pubblicazioni per i vari link agli articoli.

Amnesia: The Dark Descent (e Penumbra): la relazione simbiotica

Amnesia: The Dark Descent non è stato il primo survival horror realizzato da Frictional Games (un team indipendente svedese fondato nel 2007), e già i suoi predecessori rivelano alcuni elementi di interesse per il presente discorso. Il videogioco è stato preceduto dalla trilogia Penumbra: Overture (Frictional Games, 2007), Penumbra: Black Plague (Frictional Games, 2008) e Penumbra: Requiem (Frictional Games, 2009). Quest’ultimo, in realtà, è un’espansione del suo predecessore, ma viene ugualmente considerato come un terzo episodio. In ogni caso sono tutti e tre ascrivibili a questo genere.

Il primo Penumbra era nato come tech demo per mostrare le capacità dell’HPL Engine 1 (palese riferimento a Howard Phillips Lovecraft) sviluppato dal team, ma osservando i pareri positivi sulla demo gli sviluppatori hanno poi deciso di portarne avanti lo sviluppo, per rilasciarlo come prodotto compiuto. Il videogioco è ambientato in una miniera popolata da creature mostruose, la storia viene raccontata tramite le pagine di un diario disseminate per l’ambiente, ha una visuale in prima persona, contiene al suo interno alcuni enigmi, consente di trascinare o afferrare un gran numero di oggetti (quest’ultimo aspetto deve molto all’origine del gioco come tech demo, nata per mostrare il funzionamento dell’engine, compresa la fisica degli oggetti). Prevede inoltre l’utilizzo di una torcia con durata limitata e include dei farraginosi combattimenti corpo a corpo.

Non è uno sparatutto (non sono presenti armi da fuoco), anche se condivide con gli FPS la visuale, racchiude diversi elementi ricorrenti del survival horror (il diario, gli enigmi, l’impiego della torcia…). Al tempo stesso, però, sembra seguire un filone evolutivo differente sia rispetto allo sviluppo action di Resident Evil 4 e Dead Space, sia ai videogiochi come Deadly Premonition e Cursed Mountain.

La differenziazione, qui intuibile soprattutto osservando il videogioco a posteriori, diventa progressivamente più evidente con i successivi videogiochi di Frictional Games. Un’importante differenza è riscontrabile già nel successivo Penumbra: Black Plague, in cui i combattimenti (il cui funzionamento era stato largamente criticato, in Penumbra: Overture) sono stati completamente rimossi. Non è più possibile affrontare i nemici, è possibile solo nascondersi e fuggire. Aumentano inoltre i jump scares, alternati da fasi più o meno lunghe volte a far crescere la tensione.

Durante il periodo di uscita della trilogia di Penumbra, il gaming su YouTube si trova ancora in uno stadio di formazione. Stanno nascendo canali specificamente dedicati ai let’s play e i video sull’argomento sono in crescita, ma ancora non è stata raggiunta la massa critica, e la piattaforma è dominata da altre tipologie di video, come il vlogging.

Osservando retroattivamente i video relativi al videogioco, caricati di anno in anno, è possibile individuare il germe del cambiamento che sarebbe giunto a breve con Amnesia: The Dark Descent. Il 2007 presenta, oltre ai trailer, alcuni video riconducibili alla categoria “how to” (come jazzkomp, 2007 e KPIQA, 2007). Entrambi i video mostrano come uccidere i cani presenti nella miniera del primo Penumbra, poiché si tratta di un nemico particolarmente ostico, al punto che alcuni giocatori pensavano fosse impossibile eliminare queste creature.

Poi ci sono video di sostanziale trolling (KirmiZ, 2007) e brevi filmati su determinate parti del gioco (come l3ks1, 2007 e Altraum, 2007). A parte la bassa qualità visiva, ciò che emerge immediatamente è la completa assenza di commentari vocali; quando – non sempre – uno youtuber inserisce pensieri e opinioni lo fa tramite scritte in sovraimpressione o piccoli box. I video reperibili sono inoltre molto pochi, soprattutto escludendo trailer e video rimossi.

Il quadro complessivo di due anni più tardi risulta già molto diverso. I video del 2009, relativi non solo ai due capitoli successivi della saga ma anche al primo Penumbra, sono molto più numerosi e soprattutto presentano impostazioni differenti. Perdurano i video brevi o brevissimi volti a mostrare uno specifico elemento (come un easter egg in VAXIS TAA, 2009, della durata di appena nove secondi), affiancati da gameplay a episodi in cui è presente un commentario audio dello youtuber (come TheScarlettears, 2009, ColdTrix8, 2009 e Helloween4545, 2009a) e altri in cui i commenti rimangono in forma scritta (come Captain Perfect, 2009a). Compaiono inoltre anche contenuti di carattere più creativo che remixano determinati materiali per realizzare nuovi contenuti video. Un esempio è il fake trailer di un ipotetico film su Penumbra, realizzato montando spezzoni di diverse pellicole horror (bloodrunsclear, 2009).

Questa moltiplicazione è già sufficiente a generare un differente livello empatico. Si può fare un breve confronto legato alle prime due comparse del mostro in Penumbra: Black Plague all’inizio del gioco. Nel primo caso si tratta di un piccolo jump scare, in cui il nemico viene intravisto mentre si muove dietro una porta, nel secondo il mostro si mette sulle tracce del protagonista nascosto e, se lo trova, comincia a inseguirlo.

Nel video di Captain Perfect (2009a), fornito solo di pochi commenti scritti, lo youtuber si limitava a scrivere «What the fuck was that!» (minuto 4:03), e fugge poi dal mostro senza scrivere nulla (Captain Perfect, 2009b). Si segnala che, al momento in cui si sta scrivendo ora, quei commenti non sembrano più visualizzabili.

Hellowen4545 inserisce invece un commentario audio, ma in entrambe le situazioni (2009b e 2009c) appare più stupito che spaventato, continuando a ripetere frasi come “what the hell is that?” con un tono perplesso. La maggior parte dei gameplay dedicati agli episodi di Penumbra è però collocabile nel periodo successivo all’uscita di Amnesia: The Dark Descent, tanto che sono rintracciabili commenti ai video in cui i Penumbra vengono considerati dei “cloni” di quest’ultimo gioco, quando ne sono invece i predecessori. Il gameplay di Markiplier del 2012 presenta un commentario audio molto più vivace e variegato, in cui lo youtuber reagisce alla prima apparizione con tono di sfida (2012a), ma alla seconda continua a urlare in maniera scomposta mentre il mostro è sulle sue tracce (2012b).

L’anno successivo giunge invece il gameplay di Favij (FavijTVtm, 2013), in cui viene inserita in un angolo la cam che mostra il busto dello youtuber, così da poter osservare le sue reazioni live. Favij, a inizio video, dice di conoscere già la parte iniziale del videogioco, perché lo aveva giocato l’anno precedente sul canale NiKyBox (2012b) per aprire la sua serie “Giochi nel Buio”, e pertanto premette che non dovrebbe avere «infarti esageratamente incredibili durante questo primo episodio» (FavijTVtm, 2013, minuto 1:42). Alla prima comparsa del mostro ha una moderata reazione, dicendo di non ricordarsi quel momento, mentre alla seconda, pur essendo pronto, comincia a esclamare ad alta voce.

Confrontandolo anzi con il suo precedente gameplay dello stesso gioco (NikYBoX, 2012b, in cui non era presente la cam) le reazioni sono più ‘urlate’ e plateali, nonostante conosca quella parte. Si noti peraltro che, in linea con le imprecazioni più frequenti degli youtubers italiani (Kurpiel, 2016) utilizza spesso l’espressione «cazzo!» (e, in generale, altre forme di intercalare; Fägersten, 2017) e – seguendo un’altra pratica ricorrente – assegna un soprannome al mostro (Kurpiel, 2017), chiamandolo Piff.

Le reactions ai videogiochi horror, come emerge già da questo breve esempio, vengono tendenzialmente sempre più “spettacolarizzate” nel tempo. Una reazione può anche essere in chiave comica, soprattutto se il videogioco consente alcune pratiche differenti rispetto al mero avanzamento lungo il percorso prestabilito. Restando sull’esempio del mostro che compare in Penumbra: Black Plague, già un video del 2008 mostra come sia possibile ‘giocare’ con la fisica del gioco e la capacità del protagonista di spostare oggetti. Nel video (NossX, 2008) viene impilata un’immane quantità di oggetti davanti alla porta che il mostro deve spalancare, e appena l’azione viene compiuta tutti questi oggetti sono improvvisamente spinti via come in un’esplosione.

Al tempo stesso vengono scientemente ricercati i videogiochi ritenuti più spaventosi e si cerca di giocarli per la prima volta in video, così da non conoscere già i colpi di scena e ottenere reazioni più naturali (o che paiano tali). È uno dei motivi per cui Favij, ai tempi di NikYBoX, (2012b), aveva inaugurato la sua rubrica con Penumbra: Black Plague invece che con il successivo – e molto popolare – Amnesia: The Dark Descent, perché aveva già giocato per intero quest’ultimo. Questa “ricerca della paura”, e soprattutto degli spaventi improvvisi, si accompagna alla felice constatazione che i videogiochi di Frictional Games si fanno progressivamente più paurosi. È quanto sottolinea Markiplier (2012a) già a proposito di Penumbra: Black Plague, che promette di essere molto più spaventoso del predecessore, il quale aveva un solo momento veramente pauroso in tutto il gioco, legato all’improvvisa comparsa di un verme gigante che sfonda un portone.

È in questa fase evolutiva che si è inserito Amnesia: The Dark Descent, il quale ha contribuito a far nascere quel “bisogno di horror” su YouTube, in un momento in cui alcuni vedevano nella virata action l’unico futuro per questo genere. Come hanno sottolineato in molti, a partire dagli stessi creatori del gioco, quella fra YouTube e Amnesia: The Dark Descent è stata una relazione simbiotica particolarmente vantaggiosa per entrambe le parti. Non solo il gioco ha contribuito alla ‘nascita’ di molti youtubers di successo, e ha accresciuto le proprie vendite grazie a loro, ma ha anche contribuito all’evoluzione del survival horror e, al tempo stesso, dei let’s play:

«“I think Amnesia got a lot of free PR because of “Let’s Play” videos, but I also think that Amnesia opened people to a new style of ‘Let’s Play,’” Frictional Games creative director Thomas Grip told me. “Normally, games are very skill-based. You need to be concentrated and play a certain way to play ‘properly.’ But with horror games, the aim is not to win, but rather to get immersed. That gives a lot more space for ‘Let’s Players’ to put on a show, either by being very scared or just fooling about. On top of that it is really fun to see someone scared for some reason”» (Maiberg, 2015. Corsivi miei).

E ancora:

«Speaking to VICE Gaming in October 2014, The Dark Descent’s creative director, Thomas Grip, explained that there’s ‘a lot to be done in making horror more personal and thought-provoking’, and that ‘a game could be terrifying with a bare minimum of features’. And that’s something indies have been doing while the more publicized, more predictable alternatives take their turns at being the open-world game of the moment: maximizing impact while maintaining modest budgets, development mirroring the gameplay of survival-horror games themselves in using few resources but delivering chills aplenty. […] The popularity of horror in the indie-games field owes much to YouTube, to gamers posting footage of themselves getting terrified In the company of these low-budget, one dare say more intimate experiences – the first-person perspective certainly encourages a deeper bond between player and protagonist» (Diver, 2016: 56-57. Corsivi miei).

Al di fuori di una certa retorica relativa al “fare tanto con poco”, i team indipendenti come Frictional Games sono effettivamente riusciti a risolvere il problema sentito nello stesso periodo di tempo dalle cosiddette produzioni Tripla A: col crescere dei costi di produzione occorre puntare su generi più “sicuri”, e il survival horror non sembrava rientrare nel novero. Amnesia: The Dark Descent (e poi altri videogiochi, come Slenderman e Five Nights at Freddy’s) ha però mostrato la possibilità di realizzare profitti con l’horror mantenendo costi accessibili, e questo è avvenuto anche grazie agli youtubers. Osservando il postmortem del gioco (Grip, 2011) e i due articoli che fanno il punto della situazione a distanza, rispettivamente, di uno e due anni dall’uscita (Thomas KL, 2011, 2012a), è possibile tracciare la progressione nelle vendite di Amnesia: The Dark Descent.

Nel postmortem riportano di aver ottenuto un buon risultato, seppur non miracoloso, durante il primo mese dall’uscita, con 34.000 copie, e nei mesi successivi le vendite sono andate in crescendo, anche grazie ad alcune promozioni, fino a raggiungere le 350.000 unità a luglio 2011 (Grip, 2011: 5). Al di fuori dei saldi non vengono però indicate le ragioni dietro alla diffusione e alla longevità dell’interesse per il videogioco, elementi analizzati più nel dettaglio all’interno dell’articolo sul loro blog (Thomas KL, 2011). I fattori citati sono sostanzialmente due, entrambi riconducibili all’user response: creazione di materiali e discorsi sul videogioco e realizzazione di mod per il medesimo.

Per il primo punto citano, come esempio primario, «the Amnesia WTF video that reached 4 million views» (ivi). Per il secondo sottolineano la differenza con Penumbra: in quel caso un solo utente aveva avviato un progetto di modding, mai portato a termine, mentre per Amnesia: The Dark Descent sono presenti almeno trecento progetti in cantiere, di cui una ventina portati a termine. Questi due elementi si rafforzano peraltro a vicenda, generando un circolo virtuoso.

Le mod, oltre a rendere più varia e duratura l’esperienza di gioco, sono a loro volta mostrate nei video di youtubers come PewDiePie e Markiplier. Questa esperienza ha peraltro lasciato tracce nella community di entrambi. Da una partita a una mod del gioco è nata l’avversione di PewDiePie per i barili, che è divenuta un joke ricorrente nei suoi video. Nel caso di Markiplier, invece, si possono ricordare ad esempio alcuni videogiochi fanmade che richiamano le sue partite a quel videogioco, come Darkiplier: The “Mark” Descent (The One: Sayncraft, 2016) il quale, a dispetto del titolo, è in realtà un più ampio collage di riferimenti a molti giochi horror che lo youtuber ha portato sul suo canale.

Tutto ciò, comunque, contribuisce alla diffusione delle mod e spinge nuovi utenti ad acquistare il gioco e – se ne sono in grado – a realizzare a loro volta una mod. I contenuti creati dai fan possono attenersi allo spirito originario dell’opera oppure compiere significative deviazioni. Può trattarsi di inserti comici come in Killings In Altstadt, una mod in cui uno dei mostri del gioco è trasformato in un mercante russo, con annesso colbacco, e nel suo negozio è possibile ascoltare la musica dei negozi di The Legend of Zelda: Ocarina of Time (PewDiePie, 2012; Markiplier, 2012c).

L’articolo approfondisce anche la questione delle vendite. Il conteggio ammonta a quasi 400.000 unità, di cui circa 300.000 vendute in sconto. Si tratta di una percentuale elevata di copie scontate ma, come sottolineato, anche le copie vendute a prezzo pieno sono circa 6000 al mese, un numero che, oltre a essere più che sufficiente per stipendi e costi di mantenimento, risulta in crescita rispetto all’anno precedente (Thomas KL, 2011), ulteriore segnale del ritorno economico prodotto dalla vitalità della community.

Il report del 2012 traccia una situazione ancor più rosea, con 710.000 unità sicure e, in base all’andamento di determinati bundle in corso, un totale effettivo che può oscillare fra 900.000 e 1.300.000 copie (Thomas KL, 2012a). Pure in questo caso sconti e offerte hanno ricoperto un ruolo significativo, ma anche le copie vendute a prezzo pieno sono ulteriormente aumentate, passando a una media di 10.000 unità al mese. Aggiunge inoltre che pure la serie Penumbra, probabilmente anche trainata dal successo di Amnesia: The Dark Descent, registra stabilmente circa 900 copie vendute ogni mese a prezzo pieno (Thomas KL, 2012a). È anche utile ricordare che, su YouTube, la maggior parte dei video relativi a Penumbra è giunta dopo l’uscita del successivo gioco di Frictional Games, il che sembra contribuire a spiegare queste vendite di un gioco ormai datato, persino leggermente in crescita rispetto al passato.

Nel complesso, Frictional Games ha guadagnato oltre il decuplo della cifra spesa per sviluppare il videogioco.

E negli anni successivi gli incassi sono ulteriormente cresciuti. A luglio 2018 oltre 2.600.000 persone avevano avviato almeno una volta Amnesia: The Dark Descent su Steam (Games–achievements–players, 2018), segno che il numero complessivo del venduto è ancor più elevato, contando coloro che l’hanno acquistato senza averci mai giocato e coloro che l’hanno comprato su una diversa piattaforma.

Le ragioni di questo considerevole successo sono molteplici: «This success is due to many factors, some of which are the uniqueness of the game (horror games without combat do not really exist on PC), the large modding community (more on this later) and the steady flood of YouTube clips (which is in turn is fueled by the modding community output)» (ivi. Corsivi miei). Sempre a proposito di YouTube e modding, poco oltre l’articolo aggiunge:

The output of modding community has been quite big as well. Amnesia is as of writing the 2nd most popular game at ModDB and sports 176 finished mods. Not only do this amount of user content lengthen the life of the game, it has also increased the amount of YouTube movies made with an Amnesia theme. There are lots of popular Let’s Play channels that have devoted quite a bit of time with just playing various user-made custom stories. As mentioned earlier this have probably played a large role in keeping our monthly sales up. (ivi. Corsivo mio).

È peraltro in quest’anno che sono nati o cresciuti alcuni canali di gaming molto popolari, e – come detto – questo loro percorso è proprio legato ad Amnesia: The Dark Descent e altri videogiochi horror. È un ulteriore segnale del fatto che non sia stato solo il gioco di Frictional Games a beneficiare degli youtubers, ma anche il contrario.

Slender Man: creepypasta, videocamere e prove di coraggio

Volendo effettuare una semplificazione si potrebbe affermare che, laddove Amnesia: The Dark Descent ha contribuito alla diffusione dei let’s play (soprattutto a tema horror), Slender Man (o Slenderman) li ha resi appetibili per un’audience di bambini e ragazzi.

Il rapporto fra Slender Man e il gaming su YouTube è scomponibile in due differenti direttrici, una legata al fenomeno delle creepypasta e l’altra ai videogiochi realizzati su questo personaggio. Nel primo caso è possibile parlare di videogiochi come creepypasta, nel secondo di videogiochi sulle creepypasta.

Slender Man è un immenso fenomeno crossmediale bottom up nato praticamente per caso nel 2009, quando un utente di Something Awful posta due immagini modificate in risposta al contest “create paranormal images” (Gerogerigegege, 2009). In queste immagini in bianco e nero, raffiguranti dei bambini, è stata inserita sullo sfondo la sagoma di un uomo alto, magro e senza volto.

La creatura, definita “Slender Man”, si diffonde in brevissimo tempo prima su /x/ (la board di 4chan dedicata al paranormale) e poi in diversi altri siti e piattaforme. Nel frattempo vengono progressivamente definite le caratteristiche di questa creatura, per quanto non si sia formato un canone stringente (Chess, 2015), anche per via della natura fortemente cooperativa e condivisa del progetto (Chess, 2012; Freitas, Amaro, 2016; Smith, 2017) in cui diversi utenti con differenti capacità e punti di vista hanno plasmato la generica idea di fondo.

Quest’idea già nasceva, come ha affermato il suo creatore in un’intervista, da una commistione di vari spunti: «I was mostly influenced by H.P Lovecraft, Stephan [sic] King (specifically his short stories), the surreal imaginings of William S. Burroughs, and couple games of the survival horror genre; Silent Hill and Resident Evil. I feel the most direct influences were Zack Parsons’s “That Insidious Beast”, the Steven [sic] King short story “The Mist”, the SA tale regarding “The Rake”, reports of so-called shadow people, Mothman, and the Mad Gasser of Mattoon» (Tomberry, 2011).

«Users critiqued these performances, discussing what elements made them most effective. Successive performances built upon existing performances and discussions» (Peck, 2017: 35). Vengono prodotte finte immagini d’epoca, documentazioni, programmi radiofonici, mockumentary e molto altro, con narrazioni che mettono in correlazione fra loro questi diversi testi, i quali si citano reciprocamente. Vengono rigettate le produzioni che risultano palesemente inautentiche, ma nonostante questo nascono anche molti testi lontani dall’originaria idea horror, fra cui le numerose fanfic a tema sentimentale su Slender Man (Chess, 2015). Restando nel primario filone horror, invece, le diverse apparizioni della creatura presentano alcune caratteristiche comuni, che è utile riportare perché si relazionano anche con i videogiochi sul tema:

«One dominant theme that materialized is the haunting presence of the creature. The protagonists are almost never in direct contact with Slender Man. They are aware of his presence, rarely through sightings, but most often because of physical reactions to his proximity. They start coughing and wheezing, sometimes they lose consciousness, and they also experience an overpowering desire to sleep. Amnesia plays a big part in the plot, as the protagonist discovers tapes of himself talking to people and being in places that he simply cannot recall» (Boyer, 2013: 251-252. Corsivi miei).

Slender Man si è rapidamente diffuso come nuova entità folklorica. Possiede infatti i tre attributi del folklore: collettività, variabilità e performance (Bauman, 1986, citato in Smith, 2017: 9). Inoltre nella sua figura si uniscono due concetti di particolare rilevanza, identificabili coi termini “weird” e “eerie”, intendendo il primo come la presenza di qualcosa che appare fuori posto, e il secondo come fallimento dell’assenza o fallimento della presenza (Fisher, 2016: 61). Slender Man, grazie al suo statuto ambiguo, può essere inquadrabile in entrambe le prospettive. La sua presenza, intuibile ma quasi mai certa, è legata al mistero e alla riflessione su di esso, tramite gli inquietanti indizi che trapelano. Ma la sua figura è anche, al pari degli orrori lovecraftiani, una “presenza” eccessiva e indicibile propriamente weird. Queste due caratteristiche sono riscontrabili anche nei videogiochi legati a Slender Man e nei numerosi “cloni” derivanti dal loro successo.

Quando è uscito Slender: The Eight Pages (Mark J. Hadley, 2012), inizialmente noto solo come Slender, è stata da più parti sottolineata la sua minimalistica efficacia come videogioco horror. In questo gioco bisogna raccogliere, come suggerisce il titolo, otto pagine disseminate casualmente in determinati punti di un bosco notturno. Col proseguire della raccolta Slender Man si manifesta sempre più spesso e diviene sempre più pericoloso.

Già Amnesia: The Dark Descent si era rivelato un ottimo survival horror con un costo di realizzazione di circa 360.000 dollari, una cifra decisamente lontana dal budget di un “tripla A” ma comunque relativamente elevata. Slender: The Eight Pages è invece un piccolo progetto, amatoriale, con un costo irrisorio, che è stato tuttavia capace di ottenere una considerevole risonanza, in primo luogo grazie ad alcune felici scelte di design. Un’analisi del gioco è stata presentata, fra gli altri, da Frictional Games (Thomas KL, 2012b), poi recuperata e ampliata da Chris Pruett (2012a).

Entrambi sottolineano l’importanza di non poter vedere chiaramente Slender Man (fissarlo per troppo tempo fa impazzire il personaggio) e non conoscere – almeno nelle prime partite – le modalità con cui la creatura opera. «The game hides the mechanics that govern how the monster hunts you down and what makes you eventually get killed. I think this was a good move as you are free to make up for yourself what happened» (Thomas KL, 2012b) e «By hiding the core rule set and giving you almost no visual information about the behavior of the game, Slender robs you of the comfort that predictability brings. It forces you to think on your feet, to accept the narrative rather than focus on the mechanic» (Pruett, 2012a).

I due elementi sono collegati: la mancata conoscenza delle meccaniche di gioco rende più difficile rompere l’immersività, e quando il fruitore si trova davanti un “vuoto” tende a riempirlo con qualcosa di più spaventoso di quanto si potrebbe effettivamente presentare (Rouse, 2009: 17). Si tratta di una scelta che contrasta con gli horror di stampo più action, in cui i mostri sono (sovra)esposti, che si ricollega invece alla tradizione di alcuni survival horror precedenti come Fatal Frame e, risalendo più indietro, all’Orrore Cosmico di Lovecraft.

A proposito di Fatal Frame, il direttore della serie Makoto Shibata, durante un’intervista utilizzò le seguenti parole a proposito della modalità con cui avevano introdotto la componente horror nei loro giochi: «I believed that our method to invoke the fear in the player’s own imagination maximizes the recipient’s fear. We do not simply show sacry things, but provide fragmental information and create a situation that forces the player to imagine these horrors. I personally call it, “Subtracting horror”» (Stuart K., 2006, citato in Picard, 2009: 111). A proposito di Lovecraft si possono ricordare le parole dell’autore stesso: «L’unico dato di fatto è questo: se venga stimolato o no nel lettore un senso di terrore e di contatto con sfere e potenze ignote, un atteggiamento indefinibile di timoroso ascolto, come captare il battere di nere ali o lo stridere di forme e entità esterne ai confini dell’universo conosciuto. E, naturalmente, più il racconto riesce a trasmettere questa atmosfera in modo completo e uniforme, migliore è come opera d’arte in quel settore» (Lovecraft, 1993 [1927]: 462).

Questa visione evocata presenta una correlazione anche con gli altri due punti sottolineati sul blog di Frictional games: la «sensory deprivation» (vedendo sempre gli stessi elementi continuamente ripetuti il giocatore crede di scorgere cose che non esistono) e la «tunnel vision» creata dalla torcia, in cui i margini dello schermo restano perennemente avvolti nell’oscurità (Thomas KL, 2012b). A proposito della sensory deprivation ricordiamo anche che «la deprivazione dei normali input visivi può stimolare l’occhio interiore, producendo sogni, immagini vivide o allucinazioni. Esiste perfino un termine specifico per riferirsi alle sequenze di allucinazioni – varie e dai colori brillanti – che confortano o tormentano chi è tenuto nell’isolamento o nell’oscurità: è il “cinema del prigioniero”. Per produrre le allucinazioni non occorre una deprivazione visiva totale: la monotonia degli stimoli visivi può avere lo stesso effetto» (Sacks, 2013 [2012]: 45).

Pruett aggiunge la grande importanza che ricopre il suono all’interno di questo breve videogioco: «I think about 80% of the effectiveness of Slender is the sound. The sound is overwhelming. It demands your attention, forces your blood to pump in spite of the otherwise unremarkable graphics and presentation. The way the sound increases in intensity with each note you find also keeps the tension from falling with repetition» (Pruett, 2012a).

E in un altro articolo, in cui parla di Slender e di Five Night’s at Freddy’s, segnala altri due punti, che risultano peraltro di particolare importanza in relazione al legame con YouTube: «Pop-Out Scare Failure Event» e «Mettle Tests» (Pruett, 2015). Il primo punto riguarda un utilizzo oculato degli scare jumps: «Rather than pop some hideous creature out of a dark corner every few minutes, these titles build tension with the threat of a pop-out scare, which doesn’t actually occur until the player fails and reaches the game over state» (ivi. Corsivo dell’autore). Lo scare jump collocato al vertice di una sequenza atta a generare tensione è un elemento efficace ma non originale, è rintracciabile anche in diversi film horror, ma in altri contesti è seguito da un momento distensivo, mentre in Slender: The Eight Pages il culmine coincide con il game over.

Il secondo punto è invece relativo alla popolarità di questo videogioco fra i più giovani: «The design of Freddy’s and Slender is good, but I think their virality amongst kids has to do with them being tests of mettle. These games are a safe way to prove your courage, both to yourself and your classmates. […] Slender and Freddy’s provide easy-to-reproduce fear challenges that kids can perform without involving adults» (ivi).

Il fattore “prova di coraggio” potrebbe essere una delle caratteristiche che ha contribuito a rendere l’esperienza del videogioco non esauribile con la visione di un let’s play, pur trattandosi di un prodotto semplice e veloce da visionare nella sua interezza. È presente una componente di emulazione e sfida di cui il let’s play costituisce un facile innesco. Rispondendo a un commento relativo ai video su YouTube, Pruett scrive:

«Agreed! The rise of Let’s Play and Twitch has made these games more accessible to teens than ever before. But I would argue that, in this era of dramatically increased visibility amongst teens thanks to YouTube, Freddy’s and Slender are breakout successes because of the way that they are designed. Pewdiepie plays a lot of games, but most of them do not become middle school phenomenons. These titles are structured in a way that allows them much larger success» (ivi. Corsivo mio).

Slender: The Eight Pages è peraltro solo uno dei numerosi videogiochi fanmade che sono stati realizzati su Slender Man, per quanto sia stato quello che ha impresso una certa direzione a molti degli altri giochi realizzati successivamente, considerando il successo della sua formula su YouTube e fra i ragazzi. Molti di questi videogiochi presentano cambiamenti prevalentemente grafici, con ambientazioni differenti rispetto al bosco di Slender: The Eight Pages, ma con la stessa struttura basata sulla raccolta di un certo numero di oggetti e lo “stalking” di Slender Man.

Fra questi si ricordano Slender Man’s Shadow (Marc Steene, Wray Burgess, 2012), Slender Space, Slender Rising (Michael Hegemann, 2013) e Slender Rising 2 (Michael Hegemann, 2014), SlenderMod (Tim Spaninks, Marco van den Oever, 2012), Slender: Flashlight (Triggered Games, 2013), Slender Nightmare Camp (fortunacus, 2013), Slender: Anxiety (the_adc, 2014) e molti altri. La maggior parte di questi videogiochi è presente su YouTube in numerosi video, alcuni dei quali (per esempio quelli di PewDiePie e Markiplier) con un numero di visualizzazioni molto elevato. Nessuno di essi è disponibile su Steam, sono tutti scaricabili o giocabili su siti come Game Jolt – in cui la ricerca del termine “slender” genera oltre duecento risultati – Newgrounds o Dark Horror Games.

Al tempo stesso sono estremamente diffusi i videogiochi che mantengono la stessa struttura di Slender: The Eight Pages modificando però i personaggi coinvolti e inserendo differenti inseguitori rispetto a Slender Man. Fra gli “stalker” inseriti in questi videogiochi si possono ricordare, a titolo d’esempio, una donna fantasma (Dream of the Blood Moon, The Unbeholden, 2013), Babbo Natale (Darth Santa, jaekkl, 2015), il windigo (The Wendigo, warka, 2017), Tinky–Winky dei Teletubbies (Slendytubbies, Sean Toman, 2012), Slender Man in versione pony (Derp Till Dawn, Donitz, 2013) e altri.

Anche per questa categoria, i video reperibili su YouTube sono spesso numerosi e molto visualizzati. Sono stati inoltre realizzati un vasto numero di videogiochi di differenti tipologie, incentrati su Slender Man o comunque in cui compare come personaggio. In linea di massima è possibile affermare che l’operazione svolta consiste nell’ibridazione fra Slender Man e un popolare videogioco del momento, come nel caso di Slendertale (Khamelot, 2016), il quale unisce meccaniche e personaggi di Slender Man e Undertale (Toby Fox, 2015).

Mentre era in corso il flusso di videogiochi fanmade relativi a Slender Man è uscito, nel 2013, Slender: The Arrival (Blue Isle Studios, 2013), il videogioco ufficiale dedicato al personaggio, nonché l’unico in vendita su Steam e su console. Molti degli elementi che lo compongono sono una versione ampliata di quanto già visto in Slender: The Eight Pages e altri videogiochi realizzati dai fan. L’inserimento di una trama più o meno vaga, per esempio, era stato già compiuto in giochi come Slender’s Woods (ZykovEddy, 2012) e Haunt: The Real Slender Game (poi rinominato semplicemente Haunt, ParanormalDev, 2012).

Almeno uno di questi elementi merita una menzione a parte: l’utilizzo di una telecamera da parte del protagonista. Anche in questo caso non costituisce una novità nel panorama dei videogiochi su Slender Man, e tantomeno nei videogiochi in generale. Si ricorda per esempio il particolare precedente di The Fear (Digital Frontier, 2001), videogioco full motion rilasciato solo in Giappone in cui il protagonista è un cameraman.

La sua presenza nel gioco ufficiale su Slender Man, però, non è priva di interesse. Già in Slender: The Eight Pages la presenza di una telecamera era intuibile per almeno due ragioni, relative alla lore del personaggio: Slender Man sarebbe visibile solo attraverso una telecamera, e la sua comparsa provoca dei disturbi (visibili nel videogioco) negli apparecchi di registrazione. È un esempio di glitch horror (Crawford, 2017), in cui l’ansia è legata al malfunzionamento e alla fallibilità della tecnologia, come riscontrabile in The Ring o nel videogioco Eternal Darkness: Sanity’s Requiem. In Slender: The Eight Pages questo malfunzionamento è però percepito in prima persona, e si lega strettamente alla visione (tramite telecamera). Una presenza digitale che, in Slender: The Arrival, è resa esplicita tramite diversi indicatori a schermo, sempre attivi, fra cui l’icona REC.

L’importanza della telecamera può essere sintetizzata in tre parole, ciascuna delle quali fornisce una immagine di sintesi sulle componenti coinvolte: immersività, incertezza e mediazione.

Immersività: tendenzialmente, nei videogiochi, le informazioni visualizzate a schermo (definite HUD, Head–Up Display) sono percepite come un elemento capace di ridurre o annullare l’immersività, perché rivelano immediatamente la finzionalità del mondo di gioco, mostrandone alcune statistiche (i punti vita del personaggio, il punteggio, la mappa di gioco, lo stato di degradamento degli oggetti equipaggiati…). Alcuni videogiochi, come quelli legati alle corse automobilistiche, consentono di inserire con una certa naturalezza numerose informazioni, ponendole nel cruscotto dell’automobile, ma si tratta di casi specifici.

La presenza di una telecamera costituisce un altro di questi specifici casi, come ha sottolineato fra gli altri Thomas Grip di Frictional Games in un suo commento su Slender: The Arrival (Thomas KL, 2013). È uno di quei casi, dice, in cui la presenza di HUD non solo non danneggia l’immersività, ma al contrario contribuisce a rinforzarla. Un altro esempio da lui citato è il visore di Samus Aran in Metroid Prime (Retro Studios, 2002). Trattandosi del visore di una futuristica tuta da battaglia può credibilmente mostrare un gran numero di informazioni, ed è inoltre influenzato dagli elementi esterni come gocce di pioggia, attacchi elettrici e bava dei mostri. Nello specifico caso di Slender Man, inoltre, l’immersività di questo oggetto è accresciuta anche dalla lore sul personaggio che, come detto in precedenza, è legata all’impiego di apparecchiature tecnologiche (e ai loro malfunzionamenti).

Incertezza: il tremolio nella videocamera non è solo un mero effetto grafico che omaggia i mockumentary su Slender Man, poiché costituisce anche di un elemento di gioco, in quanto indicatore di prossimità del nemico. Un indicatore che risulta però volutamente vago: «How near is the Slenderman in Slender?» domanda Chris Pruett in un suo articolo (2012b) sull’importanza dell’incertezza nei videogiochi horror. Secondo Pruett limitare o rimuovere le indicazioni a schermo, in un videogioco horror, non contribuisce solo all’immersività, ma aiuta a offuscare i dettagli per rendere più spaventosa l’esperienza di gioco.

Pruett cita, come esempio in negativo, Dead Space (Visceral Games, 2008). Sotto il punto di vista dell’immersività questo gioco ha integrato piuttosto bene l’HUD, inserendo i diversi indicatori nella tecnologica tuta del protagonista, ma i dati forniti sarebbero, secondo Pruett, troppi, andando a ridimensionare la componente orrorifica del gioco: «Isaac’s life bar is attached to his back, his gun prominently displays the number of shots remaining, and he has a special gadget that shows him where to go whenever he is lost. This information is reassuring. In the heat of battle, we can rest easy if Isaac has full health; even a couple of direct hits aren’t likely to kill him. We know where we’re going, and how much ammo and health we have, at all times» (2012b).

Questa logica è applicabile a numerosi elementi di gioco (la salute dei nemici e quella del personaggio, il numero di colpi in canna, l’esatta efficacia di un oggetto di cura…), ma si rivela di particolare interesse soprattutto in relazione al rilevamento dei nemici. Tendenzialmente, in un buon gioco horror, la presenza del nemico deve essere suggerita ma non esplicitata, fino al momento della comparsa del mostro. I versi di uno zombie in Resident Evil, la radio gracchiante in Silent Hill e il tremolio nella telecamera di Slender Man sono tutti elementi visivi o sonori che lasciano intuire senza rivelare troppo. Un’interferenza indica la vicinanza di Slender Man, ma non indica quanto sia vicino, né da quale direzione stia arrivando.

Mediazione: laddove, in ogni attività videoludica, è presente la mediazione di uno schermo collocato fra il videogiocatore e il mondo di gioco, la fruizione di un let’s play su YouTube costituisce una sorta di mediazione schermica al quadrato. Con la presenza di una telecamera interna la mediazione diviene cubica: uno schermo separa avatar e mondo di gioco, un secondo separa il giocatore/youtuber dal proprio avatar e un terzo il fruitore del video dal giocatore/youtuber. Ma la “mediazione” è anche quella fra visione e nascondimento, i due poli su cui giocano molti survival horror, qui negoziata dalla telecamera.

Seguendo la logica dei filmati su Slender Man (i quali attingono a loro volta da una lunga tradizione di found footage) la creatura non può essere vista o registrata, se non di sfuggita (a causa della pazzia e dei disturbi nelle riprese), ma al tempo stesso si cerca di registrare tutto, per provare la sua esistenza o anche solo aver salva la vita. Una «Scan-and-search visuality» (Soderman, 2015: 313) in cui bisogna osservare (registrando) ovunque in cerca delle pagine disperse, evitando al tempo stesso di guardare Slender Man. Una “mediazione” che trova infine un corrispettivo nell’azione contemporanea dello youtuber, il quale con una differente videocamera osserva e registra, mosso da due spinte contrastanti: evitare il mostro per proseguire nel gioco ed essere inseguito da quest’ultimo per generare reactions da mostrare in video.

Continua nella quinta parte.

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I videogiochi survival horror: la storia – parte 3

Riprendiamo il viaggio nell’evoluzione dei survival horror videoludici. Nella parte 2 avevamo coperto i videogiochi usciti fra il 1996 e il 2006. Se non hai letto le parti precedenti di questa storia del gaming horror le trovi qui e qui.

Da "survival" a "action". La terza parte della storia dei videogiochi survival horror

Resident Evil: dal 3.5 al 4

Situazioni come quella di Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (di cui si è parlato alla fine della parte 2) non sono state dei casi isolati. Per un certo periodo hanno rappresentato una svolta nella direzione complessiva del genere survival horror.

La saga di Resident Evil è in tal senso utilizzabile come termometro di questo più diffuso cambiamento. Dopo la prima uscita del 1996 si sono succeduti, a fianco di numerosi spin–off minori e varie riedizioni, Resident Evil 2 (Capcom, 1998), Resident Evil 3 (Capcom, 1999), Resident Evil Code: Veronica (Capcom, 2000) e Resident Evil 0 (Capcom, 2002). Fino a quest’ultimo episodio, che costituisce un prequel della saga, i cambiamenti che si sono susseguiti non hanno comportato stravolgimenti nella struttura di gioco, che rimane basato su telecamere fisse, combattimenti “di posizione” e un sistema di controllo di non semplice utilizzo. Il seguente Resident Evil 4 (Capcom, 2005) avrebbe dovuto, inizialmente, introdurre alcuni cambiamenti, fra cui un’ambientazione più legata ai racconti di fantasmi che a mutanti e laboratori segreti di ricerca.

Questo iniziale concept è stato poi scartato e Resident Evil 4 è stato ripensato quasi da zero. Della versione precedente, divenuta nota fra gli appassionati come Resident Evil 3.5, restano i filmati delle demo giocabili (come Terminator2032, 2007). In verità, il progetto originario di Resident Evil 4 risale a uno stadio ancor precedente. Bisogna tornare indietro al 1998, infatti. Esso, però, non andò a concretizzarsi in una demo giocabile, e lo spunto alla base fu poi utilizzato per un altro videogioco, Devil May Cry (Capcom, 2001) (Perry, 2001).

Si torni però a Resident Evil 3.5. Leon Kennedy (il protagonista), armato di torcia e pistola, percorre i corridoi di un antico castello in cui diversi oggetti, come bambole e armature, si muovono da sole nella miglior tradizione delle storie di fantasmi. Ed è proprio una presenza simil–ectoplasmatica il nemico che, con un uncino, aggredisce il protagonista. Tutto questo sarebbe stato comunque legato a un virus, del quale Leon sarebbe stato infetto (ed è da esso che sarebbero dipese le sue allucinazioni), ma simili elementi apparivano declinati in un contesto molto più gotico e fantasmatico.

Tuttavia, nel 2004, Capcom ha annunciato il radicale ripensamento del videogioco, presentando quello che è poi divenuto il Resident Evil 4 definitivo. Quest’ultimo è divenuto un titolo particolarmente influente e ha inserito elementi che sono stati successivamente recuperati da diversi altri videogiochi. Anche a distanza di circa un decennio, Resident Evil 4 è stato esplicitamente citato (dal designer Ricky Cambier in Prestia, 2013) come fonte di ispirazione per un prodotto di ampio successo come The Last of Us (Naughty Dog, 2013).

Le principali modifiche introdotte hanno ovviamente mutato anche la stessa serie di Resident Evil. In una retrospettiva legata all’uscita del sesto capitolo, veniva sottolineato – con toni enfatici ma non a torto – la radicale svolta impressa alla serie da Resident Evil 4, fondata in primo luogo su «The behind-the-shoulder camera angles, the more intelligent enemies, the action focus, the quick-time events» (Thomas, 2012).

La gestione della telecamera ha una considerevole centralità. Vengono abbandonate le inquadrature fisse, ancora presenti in Resident Evil 3.5, a favore di una following camera (Nitsche, 2008) posta alle spalle del protagonista e controllabile dal giocatore. Quando viene premuto il pulsante per mirare, però, la telecamera compie un automatico zoom in avanti e si posiziona appena dietro la spalla di Leon Kennedy. Questo zoom «reduces our field of vision and makes us less aware of what’s around» (Perron, 2005) impedendo per esempio di individuare un nemico che sta per colpire Leon alle spalle, azione possibile quando si ha il controllo della following camera. Si tratta peraltro di un gesto con implicazioni visuali e testuali non scontate: «spostare il proprio sguardo dinnanzi a uno schermo cinematografico non comporta una variazione interna al mondo diegetico, cambiare l’angolazione della propria prospettiva in un mondo digitale tridimensionale conduce invece a una mutazione narrativa e dialogica – all’interno del testo sta accadendo qualcosa che altrimenti non sarebbe accaduto. […] Lo spostamento dello sguardo si compie perciò all’interno di una terra di nessuno, in un cortocircuito che opera una sintesi tra testo e fuori-testo» (Caselli, 2018).

Questo sistema di telecamera e mira è in seguito ricomparso in diversi altri videogiochi, sia survival horror come Dead Space (Visceral Games, 2008) sia sparatutto con tratti horror/fantascientifici come Gears of War (Epic Games, 2007).

Un altro evidente cambiamento riguarda il citato “action focus” di questo quarto capitolo, in cui Leon Kennedy affronta una serie di rocambolesche situazioni, prende a calci i nemici e effettua azioni acrobatiche, rispetto alla rigidità dei precedenti capitoli. Molte di queste azioni sono peraltro legate a dei quick–time events, che richiedono la pressione di un determinato pulsante al momento giusto, durante un combattimento o all’interno di una cutscene. Anche i nemici vengono modificati per rispondere all’accresciuta reattività del protagonista, e gli zombie sono sostituiti dai ganados, esseri umani infetti, capaci di compiere un maggior numero di azioni – e più rapidamente – rispetto ai non morti.

Resident Evil 5: ladri di tombe in Africa

Simili elementi ritornano, ulteriormente sviluppati in chiave action, nel successivo Resident Evil 5, uscito nel 2009 e ambientato in un’immaginaria regione dell’Africa subsahariana. La collocazione di questo videogioco in un genere, il survival horror, che stava progressivamente mutando, è passata in secondo piano per l’attenzione dedicata al dibattito su razzismo e postcolonialismo in Resident Evil 5. Un dibattito nato in seno alla stampa di settore già prima dell’uscita del gioco, andato in calando dopo alcuni articoli che avevano in parte disinnescato la problematica, soprattutto Yin–Poole (2009). Nell’articolo viene intervistato il professor Glenn Bowman, antropologo verso l’università del Kent, il quale propone un differente punto di vista, in cui Resident Evil 5 può essere persino interpretato in ottica anti–coloniale.

Il discorso si è poi spostato nel dibattito accademico, dove è rimasto – con analisi di alterna efficacia e non senza qualche incomprensione – fino a oggi (Brock A., 2011; Geyser, Tshabalala, 2011; LaLone, 2014; Harrer, Pichlmair, 2015; Martin, 2018 e Harrer, 2018). Anche in queste fonti sono però leggibili, perlomeno in filigrana, i cambiamenti all’interno di Resident Evil e del survival horror. Si prenda, come esempio, la seguente descrizione del videogioco:

«As a Japanese horror survival console game, RE5 taps many conventions of the adventure formula […]. The white, muscular explorer Chris Redfield meets the barbaric other in a monolithic fantasy Africa. In the single-player version, Chris is the only playable character. In the two-player version, the co-protagonist is the mixed-race character Sheva Alomar, whose first and last appearance is in RE5. Gameplay-wise, RE5’s focus is on managing resources […]; foraging for treasure; and mastering surprise attacks by black; genetically modified black characters» (Harrer, 2018: 4-5).

La presenza dei tesori, indicata in questa citazione, merita peraltro una piccola parentesi. La questione, qui solo rapidamente accennata, è importante in un quadro più ampio sull’evoluzione del genere e, in questo caso, all’inserimento di oggetti acquistabili. Questa aggiunta, come sottolinea Chris Pruett (2009), ha generato diversi contrasti fra meccaniche di gioco e narrazione. Nel caso di Resident Evil 5, anche tralasciando la potenziale lettura colonialista (l’invasore bianco che depreda l’Africa) risulta perlomeno strano, se non problematico, che due persone impegnate in una missione umanitaria vadano a depredare antichi templi per vendere monili e acquistare armi più potenti. La meccanica con cui è stato implementato il negozio (e soprattutto la raccolta del denaro necessario per fare acquisti al suo interno) trasforma pertanto, seppur involontariamente, Chris e Sheva in due ladri di tombe.

Meccaniche di gioco ed estetiche si intersecano nuovamente. Il cambiamento non avviene solo nella scelta di un ambiente lontano dagli stilemi più tradizionali del gotico, ma sposta la cornice di riferimento nell’adventure, non inteso qui in senso esclusivamente videoludico.

Le tracce gotiche erano invece ancora rintracciabili in Resident Evil 4, nel castello di Salazar, specialmente nella parte in cui si controlla direttamente la giovane Ashley Graham, la quale nel resto del gioco, come NPC, segue Leon e si lascia da lui proteggere, in qualità di damsel in distress. Ashley, disarmata, si addentra in una delle parti più oscure del castello, ricca di trappole e nemici. Questa parte del gioco, oltre a ricollegarsi a una tradizione gotica di più lunga data, si avvicina ai survival horror con una protagonista costretta a fuggire perennemente dai suoi inseguitori, come Clock Tower e Haunting Ground. Sempre a proposito di ambientazioni, comunque, già altri capitoli della serie avevano presentato scenari meno immediatamente legati alla tradizione gotica, come la Raccoon City di Resident Evil 2.

Tornando al quinto episodio, Chris Redfield, già protagonista del primo Resident Evil insieme a Jill Valentine (era possibile selezionare uno dei due a inizio partita), torna come eroe muscolare, con un fisico da culturista che lo avvicina idealmente ai protagonisti di numerosi film d’azione. La descrizione di Chris Redfield come «l’eroe bianco e scolpito [che] abbatte (letteralmente!) a colpi di fucile una tribù di nativi armati di lance» (Bissell, 2012: 139), tralasciando la “questione coloniale”, è comunque decisamente lontana da quello che è stato l’immaginario dei precedenti survival horror.

Chris è accompagnato da Sheva Alomar (La quale può essere direttamente controllata dal giocatore ricominciando il gioco dopo averlo finito almeno una volta), un elemento, quest’ultimo, vicino alla precedente tradizione dei survival horror, in cui sono spesso presenti più protagonisti, che possono alternarsi nel corso del gioco o essere compresenti. Dai primi esempi come Sweet Home al vasto numero di protagonisti in giochi come Eternal Darkness: Sanity’s Requiem e Forbidden Siren, questa caratteristica è sempre stata piuttosto diffusa, ed è ricollegabile alla narrazione frammentata di certa letteratura gotica (Kirkland, 2011: 25).

Anche in Resident Evil questi protagonisti multipli sono apparsi in più occasioni e con interazioni differenti, dalla scelta del personaggio giocabile nel primo Resident Evil al rapporto protettivo fra Leon Kennedy e Ashley Graham in Resident Evil 4, passando per la cooperazione fra i due protagonisti di Resident Evil 0. La novità di Resident Evil 5 riguarda la modalità cooperativa, in cui due giocatori possono collaborare controllando un personaggio ciascuno, mentre nei casi precedenti un personaggio non era mai giocabile, o un singolo giocatore controllava a turno entrambi.

La compartecipazione all’impresa di due giocatori rischia di depauperare fortemente la natura orrorifica dell’esperienza ludica, un fattore che è stato citato anche dal direttore di produzione Yasuhiro Anpo in un’intervista: «introducendo le dinamiche dei due personaggi all’inizio avevamo paura di guastare l’atmosfera tetra classica della serie. Ma poi abbiamo pensato che non era altro che far entrare due persone di [sic] una casa stregata. Abbiamo lavorato parecchio sul binomio collaborazione e sopravvivenza. Credo che questa combinazione abbia più vantaggi che svantaggi» (in Price, Nicholson, 2009: 201).

Multiplayer, sparatorie e scazzottate

Fuga, visione celata (da nebbia, oscurità…), solitudine e altri elementi altri elementi che hanno caratterizzato il survival horror fino a questi anni sono stati sostituiti da multiplayer cooperativo, azione e rapidità. Il cambiamento non ha riguardato solo la serie di Resident Evil, ma ha rapidamente modificato tutto il genere. Già prima dell’uscita di Resident Evil 5,in molti avevano iniziato a interrogarsi sulla “morte” del survival horror, perlomeno nella sua forma tradizionale, sostituito da una nuova ondata di prodotti action–horror. Bernard Perron, nell’introduzione a un volume miscellaneo uscito fra l’annuncio e la commercializzazione di Resident Evil 5, riporta alcuni di questi commenti (2009: 7). Le posizioni di Leigh Alexander (2008), Jim Sterling (Stanton, 2008) e Shuman e Shaw (2008) offrono un punto di vista giornalistico, non accademico, sull’evoluzione del genere, ma nel talvolta colorito linguaggio con cui descrivono i fatti ciò che emerge è una visione molto lucida sul cambiamento in corso.

E la lista potrebbe essere ulteriormente ampliata con altri articoli non riportati da Perron, come quello di Thomas Cross in cui Resident Evil 5 e Dead Space si collocano in «in a new quadrant of the survival horror genre» (2009). Non sono dunque ritenuti estranei al genere, ma propongono qualcosa che resta al di fuori dei precedenti paradigmi del survival horror.

I personaggi diventano muscolosi lottatori professionisti, le sparatorie sostituiscono la ricerca della paura, le munizioni disponibili sono sempre più numerose e le ambientazioni – quando non vengono a loro volta modificate – sono solo un omaggio formale al passato. Le ragioni dietro a queste scelte, sottolinea Alexander (2008) sono in primo luogo economiche: in quegli anni nascono e si affermano nuove serie di sparatutto come Call of Duty e Halo, capaci di attirare casual e hardcore gamers, le cui vendite considerevoli impongono nuovi standard e spingono molti a lanciarsi in una sorta di “corsa all’oro” verso questo genere (Cavaleri, 2010).

Pruett (2008) offre ulteriori precisazioni in un suo commento all’articolo di Jim Sterling: «I don’t think it’s quite as simple as “players are used to Halo and Resident Evil 4 and won’t accept anything else.” I think a better answer is “publishers don’t believe that anything other than Halo and Rock Band will sell, and it costs so much to make games nowadays that there’s no way they are going to take a risk on a niche genre.” […] the market climate that next-gen consoles create is one of conservatism and risk-aversion. You can’t double and triple development costs while erasing the installed base without some creative casualties, and genres like survival horror sound like risky bets to most publishers».

Anche le ibridazioni come Resident Evil 4 (sparatutto e survival horror), Mass Effect (sparatutto e gioco di ruolo; Bioware, 2007) e Bioshock (sparatutto e avventura; Irrational Games, 2007) si rivelano dei successi commerciali, invogliando ulteriori team di sviluppo a tentare questa via, non sempre ottenendo il risultato sperato.

In primo luogo altre saghe già avviate, al pari di Resident Evil, tentano uno svecchiamento della loro impostazione, spesso tramite un rinnovato sistema di combattimento. L’Alone in the Dark del 2008 (Eden Games) inserisce diversi combattimenti, sessioni di guida, arrampicate e altri momenti dal forte sapore action. Silent Hill: Homecoming (Double Helix, 2008) mantiene ambientazioni e nemici simili ai suoi predecessori, ma aumenta i combattimenti e li rende più dinamici, con combo e schivate. Siren: Blood Curse, remake di Forbidden Siren, «retells the events of the first game with changes aimed at a broader audience; more combat–oriented levels and a mixed American/Japanese cast» (McCrea, 2009: 227).

I combattimenti più veloci, numerosi e dinamici citati in tutti questi casi sono peraltro anche resi possibili dall’evoluzione tecnologica, ma il loro inserimento in serie già avviate da alcuni anni genera una sorta di sfasamento, con doppia velocità. Perdurano meccaniche di gioco nate anni prima e magari derivate dalle limitazioni tecniche del tempo, affiancate però da inserimenti del decennio successivo, caratterizzato da differenti possibilità di programmazione e un diverso gusto nel pubblico.

Molti nuovi survival horror, nel frattempo, emergono con un focus più o meno forte sulle componenti action, come The Suffering (Surreal Software, 2004) e The Suffering: Ties that Bind (Surreal Software, 2005); Cold Fear; Condemned: Criminal Origins (Monolith Productions, 2005) e Dead Space. Quest’ultimo, in particolare, nasce con diverse impostazioni simili a Resident Evil 4, come il sistema di mira, con la differenza che Isaac Clarke (il protagonista del gioco) può anche camminare mentre spara. Questa piccola ma significativa differenza è sufficiente, secondo Pruett (2011), a rendere Resident Evil 4 molto più difficile di Dead Space. I successivi Dead Space 2 (Visceral Games, 2011) e soprattutto Dead Space 3 (Visceral Games, 2013) virano ulteriormente verso l’action, moltiplicando i nemici da affrontare contemporaneamente e aggiungendo una modalità cooperativa.

In questo terzo episodio vengono inoltre aggiunte delle microtransizioni legate alla modalità per giocatore singolo. È infatti possibile acquistare le risorse per il crafting delle armi tramite pacchetti da due o tre dollari. Questo inserimento, in un periodo di forte contestazione del modello (Švelch, 2017), ha inasprito le critiche verso il videogioco.

E, ancora, è possibile citare sparatutto in prima e terza persona con componenti horror più o meno centrali, come i già citati Gears of War e Bioshock, Clive Barker’s Jericho (Mercury Steam, 2007), F.E.A.R. – First Encounter Assault Recon (Monolith Productions, 2005), Darkwatch: Curse of the West (High Moon Studios, 2005) e Left 4 Dead (Valve, 2008). Quest’ultimo, peraltro, è fortemente cinematografico e incentrato sul multiplayer. Ogni partita, attraverso elementi generati casualmente e la «recitazione “automatica”» dei protagonisti e l’alta spettacolarizzazione può apparire come una sorta di film action–horror sempre differente (Zanoli, 2011: 44).

Le classificazioni di Chris Pruett

La prospettiva di una evoluzione action del survival horror è corretta, in termini generali, ma non delinea l’intero quadro del genere nel periodo di tempo considerato. Uno sguardo più ampio può essere recuperato dall’analisi di Chris Pruett (2012), veterano dell’industria videoludica ed esperto di videogiochi horror.

Andate a questa pagina e guardate i suoi piani cartesiani riassuntivi. Uno dei due assi è “easy-hard”, l’altro è “thinking-doing”. Nei quadranti egli ha collocato i vari videogiochi, seguendo di volta in volta suddivisioni di questo genere:

Fra gli horror prodotti in Giappone e in Occidente.

In base ai punteggi ottenuti dalla critica

In base all’anno di uscita.

Pur con il caveat da lui stesso fornito, relativo alla soggettività del posizionamento (specialmente per quanto riguarda l’asse della difficoltà) e alla non esaustività degli esempi forniti, la mappatura di Pruett rimane un utile strumento. In questo caso è utile osservare, in particolare, il quadrante doing/hard in basso a destra, dove è collocabile la maggior parte degli horror di carattere più action. I videogiochi qui presenti sono, in primo luogo, quasi tutti prodotti in Occidente, con l’eccezione di Resident Evil 4 (ma, come indicato in precedenza, è una serie che ha comunque sempre guardato verso modelli occidentali). È peraltro interessante osservare che i videogiochi giapponesi occupano i due estremi sull’asse della difficoltà. Il lato “easy” è quasi interamente occupato da loro, ma la punta più esterna del lato “hard” è occupata da Siren e Catherine (Atlus, 2011).

I punteggi di questi videogiochi sono inoltre tendenzialmente elevati e si collocano nei periodi 2001–2005 e 2006–2011. Quest’ultimo periodo è tuttavia presente anche in un altro punto del grafico, grosso modo collocato fra l’intersezione degli assi e il quadrante “thinking/hard”. Sono qui collocati alcuni videogiochi come Cursed Mountain (Sproing Interactive Media, 2009), Deadly Premonition (Access Games, 2010) e Alan Wake (Remedy Entertainment, 2010). Questi e altri esempi coevi rappresentano una differente evoluzione del survival horror, in cui gli elementi action risultano più contenuti e inseriti all’interno di un contesto più tradizionale.

Per esempio in Alan Wake sono presenti delle pagine che contengono ulteriori dettagli sulla storia in corso, secondo la già citata tradizione gotica. In Alan Wake queste pagine sono presenti come “collezionabili” da rintracciare in punti nascosti dei livelli (insieme a dei thermos del caffè, anch’essi collezionabili finalizzati a ottenere tutti gli achievements del gioco). In alcuni momenti questa scelta, però, genera uno scollamento fra il piano ludico e il piano narrativo simile alla raccolta dei tesori in Resident Evil 5.

Laddove la narrazione spinge Wake (e il giocatore) ad affrettarsi, la caccia ai collezionabili lo spinge a rallentare per esplorare a fondo le ambientazioni. Come ha correttamente osservato Chris Pruett in proposito «rather than playing the character, you have to treat the game like a system, try to second-guess the level designers, and always avoid the main path to the next checkpoint. Wake will say, “I had to get there as quickly as possible,” and the game will present you with a straight shot to “there,” but instead of just running down that strip like we would expect this character to do, Wake (per your command) spends his time running around the edges of the area, trying to jump over boxes and stuff, and generally acting drunk» (2010). Si tratta peraltro di un problema riguardante anche altri survival horror e diversi videogiochi appartenenti ad altri generi.

Alan Wake pone il giocatore nei panni di uno scrittore (il protagonista di Cursed Mountain è invece un alpinista, mentre quello di Deadly Premonition èun agente dell’FBI) e presenza numerose sequenze con vagabondaggi notturni nei boschi e fasi più distese, di indagine e dialogo. I combattimenti fanno ampio uso della torcia. Quest’ultima, utilizzata come elemento di gameplay, ha una lunga tradizione nel genere horror (McCrea, 2009: 225). In questo caso deve essere utilizzata per indebolire i nemici, avvolti da un manto d’ombra protettivo, prima di poterli eliminare con un’arma da fuoco.

 Almeno nella prima parte del gioco si affronta un numero ridotto di avversari, anche se nella parte finale dell’avventura sono inserite situazioni di carattere differente, fra cui una battaglia sul palco di una band metal.

Si tratta però di videogiochi che non hanno avuto una diffusione rilevante e sono stati realizzati con un budget ridotto. Questo perché, come Pruett aveva sottolineato già alcuni anni prima (2008) i costi di produzione stavano progressivamente crescendo, e per i titoli con un alto budget si preferiva puntare su tipologie di gioco ritenute sicure, come gli sparatutto. Per le differenti nicchie, invece, fra cui quella del survival horror, venivano al più realizzati dei progetti più contenuti, per evitare grosse perdite in caso di un fallimento. Questa è la situazione dei team di sviluppo “tradizionali” come per esempio Capcom, la quale ha proseguito anche con Resident Evil 6 (Capcom, 2012) nella commistione fra horror e azione, ricercata anche in molti degli spin–off e capitoli minori rilasciati nello stesso periodo (come Resident Evil: Operation Raccoon City, Capcom, Slant Six Games, 2012, uno sparatutto multigiocatore).

Nel frattempo stavano però affermandosi alcuni esponenti della scena indie, con differenti tipologie di gioco. Uno di questi prodotti, che compare nella tabella di Pruett, è Amnesia: The Dark Descent (Frictional Games, 2010), strettamente legato anche all’ascesa del gaming su YouTube.

Questo e altri videogiochi avrebbero dato una nuova direzione al genere, in un momento in cui il suo unico futuro sembrava quello dell’ibridazione con l’action/sparatutto.

Continua nella quarta parte.

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I videogiochi survival horror: la storia – parte 2

Continuiamo a ripercorrere la storia dei videogiochi survival horror. Nella parte 1 ci eravamo occupati di definire i perimetri di questo genere e ne avevamo visto l’origine. Ci eravamo fermati alle soglie dell’uscita del primo Resident Evil, nel 1996. Riprendiamo da lì. Copriremo circa un decennio, in questa parte 2.

La storia dei survival horror dal 1996 al 2006

Arriva Resident Evil

Come visto nella prima parte, Sweet Home e Alone in the Dark presentavano caratteristiche che sarebbero diventate riconoscibili elementi dei survival horror. Tuttavia un’effettiva diffusione di tali elementi giunge solo alcuni anni più tardi, con il primo Resident Evil (intitolato Biohazard in Giappone). Sweet Home, rimasto a lungo confinato nel territorio giapponese, non ha avuto una grande diffusione, ma è stato tra le maggiori fonti di ispirazione per il ben più affermato Resident Evil. Il gioco del 1989 costituisce infatti una delle tre fonti di influenza – la principale – identificabili dietro Resident Evil, a fianco di Alone in the Dark e del film Night of the Living Dead (1968) di George Romero (Reed, 2016: 628).

Come ricorda Francesco Alinovi (2004: 68), Hideki Kamiya e Shinji Mikami hanno dichiarato di essere entrati in contatto con Alone in the Dark solo dopo l’uscita di Resident Evil, ma qualcuno del team aveva provato questo videogioco occidentale. È pertanto possibile che, magari in forma più indiretta, siano stati effettivamente recuperati alcuni elementi anche da Alone in the Dark, considerando la somiglianza.

È una fonte dichiarata, in quanto lo stesso Shinji Mikami, il “padre” di Resident Evil, ricorda (in Butterworth, 2016) che il suo capo Tokuro Fujiwara gli disse di recuperare le meccaniche di Sweet Home per la realizzazione di un nuovo gioco horror. Mikami avrebbe poi indicato a sua volta agli altri membri del team di giocare a Sweet Home per prepararsi allo sviluppo del loro nuovo videogioco (Perron, 2006: 34).

Da Sweet Home vengono recuperati diversi elementi, fra cui l’ingresso di un gruppo in una magione isolata e il feeling dato dalla lenta sequenza di apertura delle porte (Alinovi, 2004: 29), utilizzate in Resident Evil per narrativizzare i tempi morti dei caricamenti. Il legame con Alone in the Dark riguarda invece – oltre ad alcuni elementi generali dei survival horror come (nuovamente) la vecchia magione da esplorare e i documenti da consultare – un utilizzo delle inquadrature fisse volto ad accrescere la tensione.

Al pari della sequenza di apertura delle porte, pure l’uso di inquadrature fisse era legato anche a limitazioni tecniche. Simili inquadrature consentivano infatti di utilizzare fondali pre–renderizzati. Questi potevano avere una resa visiva molto superiore rispetto ai videogiochi dello stesso periodo con un ambiente 3D gestito in tempo reale (Rouse, 2009: 23).  Il film di George Romero ha offerto, infine, l’ispirazione per gli zombie, i nemici più diffusi presenti in Resident Evil.

A fianco del recupero di elementi passati, i creatori di Resident Evil hanno introdotto diversi nuovi elementi, che in alcuni casi hanno contribuito a dare un forte sviluppo in una determinata direzione al genere. Charley Reed (2016: 629) ne inventaria alcuni, sebbene diverse componenti del suo elenco siano in realtà riscontrabili anche nei videogiochi horror precedenti (come la presenza di puzzle da risolvere).

Un inserimento che, pur non avendo avuto particolare seguito, è divenuto un elemento iconico della serie riguarda la gestione dei salvataggi. Questi ultimi sono limitati non solo spazialmente (è possibile salvare solamente raggiungendo delle macchine da scrivere collocate in determinati punti della villa) ma anche numericamente. Per salvare occorre infatti avere nel proprio inventario dei nastri di inchiostro. Questi oggetti, presenti in numero finito all’interno del gioco, occupano inoltre uno spazio nel già ridotto inventario del protagonista.

L’utilizzo della macchina da scrivere si rivela invece rappresentativo del genere sotto un altro punto di vista, in quanto costituisce uno dei numerosi casi di rimediazione (Bolter, Grusin, 1999) di precedenti tecnologie nei videogiochi horror. Le riflessioni che includono questa rimediazione (come McCrea, 2009 e Reed, 2016) prendono soprattutto avvio da un articolo di Ewan Kirkland (2009b) – la cui riflessione procede anche in Kirkland (2010) – che fin dal titolo cita la macchina da scrivere di Resident Evil. A proposito dei media analogici che compaiono nel videogioco, Reed parla di una «corruption of media» (2016: 631) che rappresenterebbe una delle principali componenti retoriche in esso incluse.

Questi media tematizzano in vario modo la morte, la corruzione e la fine, collegandosi peraltro in alcuni casi (come i dipinti a olio e i diari) alla tradizione gotica. Diari, appunti e pagine dei quotidiani richiamano la tradizione della letteratura gotica, in cui la narrazione ricorre spesso a questi materiali per presentare scoperte e punti di svolta, ma la loro presenza in giochi come Resident Evil è anche figlia delle avventure testuali e poi grafiche che costituiscono uno dei predecessori di questo gioco (Alinovi, 2004: 67).  Due esempi di questa corruzione sono la radio che smette di funzionare e il famoso diario della guardia, la cui scrittura degrada progressivamente man mano che l’autore viene contagiato dal Virus T e si trasforma in uno zombie. L’ultima sua nota leggibile riporta «Itchy itchy Scott came ugly face so killed him. Tasty. 4. Itchy. Tasty» (citato in Reed, 2016: 632).

La corruzione dei media è peraltro solo la prima delle quattro forme di “corruzione” che Reed (2016) identifica nel primo Resident Evil; le altre tre sono: corruzione della natura, dell’architettura e dell’autorità. La natura risulta corrotta dal Virus T, l’agente mutageno prodotto dall’Umbrella Corporation. Gli esperimenti di questa associazione hanno prodotto i vari mutanti che compongono i nemici del gioco. I cicli della natura sono stravolti da ipertrofia (ragni e serpenti giganti), ibridazione (gli Hunters, dei grossi rettili antropomorfi), metamorfosi (Plant 42, un’enorme pianta vampirica) e ritorno dalla morte (gli zombie).

La corruzione architettonica è legata invece al senso di decadenza (carta da parati stracciata, mura crollate…), alla presenza delle trappole e al generale senso di uncanny, continuamente rintuzzato dal progressivo cambio stilistico dell’ambiente, il quale impedisce al giocatore di abituarsi a esso (Kirkland, 2009a). infine, la corruzione dell’autorità è riscontrabile nel nascondimento e capovolgimento di coloro che detengono il potere. L’Umbrella Corporation, in apparenza una potente azienda farmaceutica, sta in realtà sviluppando delle armi biologiche tramite il Virus T; Albert Wesker, in apparenza il capo della spedizione che raggiunge la villa, è in realtà al soldo dell’Umbrella.

Dopo Resident Evil

Negli anni successivi all’uscita di Resident Evil il mercato videoludico vede la nascita di numerose serie survival horror, a fianco di molti altri videogiochi appartenenti a generi differenti ma legati a componenti orrorifiche. Proseguono, in primo luogo, serie già avviate come Castlevania e Doom. Il terzo episodio di quest’ultima serie giunge nel 2004, a distanza di dieci anni dal precedente Doom II: Hell on Earth (id Software, 1994), ma in questa finestra temporale sono usciti diversi altri sparatutto in prima persona con elementi horror.

Fra questi si possono ricordare: la trilogia dai toni dark fantasy composta da Heretic (Raven Software, 1994), Hexen (Raven Software, 1995) e Hexen 2 (Raven Software, 1997); i fantascientifici System Shock (Looking Glass Studios, 1994) e System Shock 2 (Looking Glass Studios, Irrational Games, 1999), intrecciati con diversi elementi ruolistici; Quake (1996) della stessa id Software di Doom; Blood (Monolith Productions, 1997) e Blood II: The Chosen (Monolith Productions, 1998), ricchi di citazionismo cinematografico; Shadow Warriors (3D Realms, 1997); Unreal (Epic Games, 1998) e molti altri.

Anche il celebre sparatutto Half–Life (Valve, 1998) integra diversi elementi horror, per quanto questo inserimento sia stato al tempo stesso un successo e un fallimento, a seconda dei momenti di gioco presi in considerazione (Rouse, 2009: 17). All’inizio del gioco l’invasione aliena nei laboratori di Black Mesa assume diverse connotazioni orrorifiche, ma nel finale – quando il protagonista Gordon Freeman raggiunge il mondo di questi alieni – la radicale distanza dal mondo reale del giocatore depotenzia fortemente l’elemento horror. Anche nella prima parte del gioco, comunque, l’horror atmosferico è presente solo in piccola parte, e prevale piuttosto una «Cyberspace-based gorefests» (Krzywinska, 2002: 14).

Casi similari sono riscontrabili in diversi altri generi. Nello stesso anno di Resident Evil è per esempio uscito l’action–RPG Diablo (Blizzard North, 1996), seguito quattro anni dopo da Diablo II (Blizzard North, 2000). In questi videogiochi i personaggi si muovono in un mondo dark fantasy caratterizzato da una forte componente demoniaca, in cui devono sconfiggere le legioni infernali al servizio di Diablo e dei suoi fratelli. Al pari dei frenetici sparatutto sopra elencati, però, anche Diablo rimane molto lontano dalla struttura dei survival horror. In questo popolare videogioco (che ha generato, non diversamente da Doom, una folta schiera di “cloni”: Loguidice, Barton, 2009: 39–50), infatti, uno degli elementi alla base del successo riguarda proprio una sorta di “ripetizione con varianti”, in cui vengono continuamente uccisi centinaia di nemici in ambienti generati proceduralmente, che consentono di creare mondi più vasti alleggerendo i costi di design e le limitazioni tecniche (Cardamone, Loiacono, Lanzi, 2011: 396).

In Diablo II anche i mostri “unici”, dotati di poteri particolari, sono generati casualmente, invece che essere pensati uno per uno come nel predecessore (Schaefer, 2000; Holleman, 2019). La modalità online, ampiamente frequentata e intorno a cui è fiorita una vasta compravendita di oggetti rari (Pellitteri, Salvador, 2014: 102) ha offerto il massimo potenziale per questa ripetizione con varianti, in cui gli utenti affrontavano più e più volte gli stessi scenari a caccia di loot. Per una ragione opposta, anche le avventure grafiche a tema horror uscite in quegli anni – come Prisoner of Ice (Infogrames, 1995) – si differenziano dal genere survival. Laddove negli sparatutto e negli action–RPG si affrontano centinaia di mostri, nelle avventure grafiche non è richiesto tempismo o abilità manuale per superare gli ostacoli.

Oltre al proliferare di videogiochi con componenti orrorifiche, è lo stesso survival horror a diffondersi in questo periodo, con la nascita di molte nuove saghe, trainate anche dal successo di Resident Evil. Al fianco ci sono ovviamente altri prodotti che non hanno avuto seguiti, come Deep Fear (Sega AM7, 1998), un “clone” piuttosto derivativo di Resident Evil e uno dei primi survival horror a presentare una ambientazione oceanica. Sarà seguito, in questa scelta di ambientazione, da altri “cloni” di Resident Evil come Carrier (Jaleco, 2000) e Cold Fear (Darkworks, 2005) e da un episodio della stessa serie di Capcom: Resident Evil: Revelations (Capcom, 2012).

Andando sulle saghe invece, una fra le più importanti è Silent Hill (Konami, 1999), che si discosta dall’orrore “romeriano” di Resident Evil per proporre un terrore più psicologico e sottile, vicino, per restare in ambito cinematografico, alla produzione di Cronenberg e Lynch (Alinovi, 2004: 70) o a L’esorcista (1973) di Friedkin (Perron, 2006: 7). In generale, Akira Yamaoka (autore della colonna sonora di Silent Hill) ha ricordato che l’intento del team era di realizzare un «modern American horror through Japanese eyes» (in Pruett, 2005: 1).

Più che le differenze risultano però di interesse i punti di contatto fra le due saghe, al di fuori delle generiche appartenenze allo stesso genere. In primo luogo sono entrambi dei videogiochi prodotti in Giappone ma ambientati negli Stati Uniti, a differenza di un ampio numero di survival horror molto più legati alla cultura e alle tradizioni giapponesi. Silent Hill è ambientato in una omonima cittadina del Maine, mentre il primo Resident Evil si svolge nel bosco che circonda un’immaginaria città del Midwest chiamata, con un nome piuttosto improbabile, Raccoon City.

Entrambi i videogiochi, inoltre, ricercano un sentimento di tensione continua piuttosto che lo spavento immediato di un jump scare. Questa componente è molto più diffusa in Silent Hill, dove la natura psicologica della paura è molto forte. Risultano di particolare interesse le dichiarazioni sul tema rilasciate in un paio di interviste da Akihiro Imamura, game system programmer di Silent Hill e producer di Silent Hill 2 (Team Silent, 2001): «Voglio suscitare paure ancestrali, come quelle che si celano nei bassifondi dell’istinto umano. Non mi accontento di ricorrere a trucchi da luna park come la sorpresa. Preferisco creare un senso di angoscia, terrorizzare in modo graduale il giocatore» (Perry, 2001, citato in Perron, 2006: 38) e «In SH2, la paura è prodotta da tutto ciò che non siamo in grado di vedere. Il “non visto” ci terrorizza perché quello che sfugge all’occhio diventa concreto nell’immaginazione. E l’immaginario, com’è noto, è il vero motore del terrore» (Beuglet, 2001, citato in Perron, 2006: 38).

Il discorso è comunque valido anche per Resident Evil. In quest’ultimo sono inseriti alcuni spaventi improvvisi – è divenuta particolarmente nota la scena del cane zombie che salta improvvisamente in un corridoio rompendo una finestra – ma vengono sfruttati soprattutto ambiente e inquadrature. Entrare in una stanza, con l’inquadratura fissa sulla porta alle spalle del protagonista, e sentire i versi di uno zombie senza poterlo vedere genera una tensione in crescendo invece che offrire uno spavento improvviso in un momento di (relativa) quiete. In tal senso pare almeno eccessiva la contrapposizione che Bernard Perron (2006: 38–39) sottolinea fra i due videogiochi.

Entrambi i videogiochi sono inoltre riusciti a sfruttare alcune limitazioni tecniche dell’epoca, convertendole in elementi volti ad accrescere paura e inquietudine. Per Resident Evil sono già state citate le sequenze di apertura delle porte, mentre per Silent Hill è possibile ricordare la diffusa nebbia che avvolge l’ambiente, che consente di mostrare meno oggetti in contemporanea. Per Silent Hill, infine, è applicabile lo stesso discorso sulla rimediazione legata a corruzione e uncanny (o, per usare altre parole, «the use of anachronistic technology [to] uncover the past and unravel the horrors of the present» Taylor, 2009: 53) introdotta a proposito di Resident Evil.

Risulta di particolare interesse, su questo punto, l’inizio di un saggio di Christian McCrea (2009) relativo a un altro survival horror (Forbidden Siren, SCE Japan Studio, 2003) ma ideale anche per Silent Hill. McCrea parla del sightjacking, un potere psichico inserito in Forbidden Siren come meccanica esplorativa, che consente di assumere temporaneamente la prospettiva degli shibito (traducibile come “persona morta”), i principali nemici di questo videogioco. La levetta analogica del controller viene qui utilizzata come la manopola di un vecchio televisore per sintonizzarsi con il ‘canale’ di uno shibito (Kirkland, 2009b) e questa operazione racchiuderebbe il senso di hauntology (studio delle tracce spettrali) relativo agli shibito, i quali sono indicati come dei «broadcast horrors» (McCrea, 2009: 227). La rimediazione di esperienze mediali passate utilizzate per captare le voci (o l’aspetto) dei morti.

Broadcasting horror e fantasmi

I survival horror legano con peculiare forza la morte con l’archiviazione memoriale e il broadcasting, perché le voci dei morti non rappresentano semplicemente il passato, ma il presente che quei defunti infestano. Possono essere le ultime parole scritte da un individuo prima di diventare zombie (Resident Evil), la visione ‘televisiva’ degli shibito (Forbidden Siren), la gracchiante radio che annuncia l’approssimarsi di un nemico (Silent Hill) o altro ancora.

L’utilizzo di questa radio si lega peraltro anche al sopra citato prevalere della tensione sullo spavento improvviso: «La radiolina che Harry [il protagonista] trova prima di lasciare il Cafe 5to2 trasmette una specie di interferenza quando ci sono nemici nelle vicinanze. Se questo riduce in parte l’effetto sorpresa, dall’altra accresce la tensione. La paura e l’ansia aumentano in modo direttamente proporzionale all’intensità del rumore emesso dalla radio. Dato che ignoriamo la direzione dalla quale proviene il mostro, dobbiamo tenere alta la guardia fino a quando non ci troveremo faccia a faccia con la sorgente del segnale» (Perron, 2006: 28). Questa situazione descritta da Perron è simile ai versi degli zombie di Resident Evil quando essi non sono visibili, a conferma della maggior vicinanza fra i due videogiochi sotto questo punto di vista.

Tutti casi accomunati da una rimediazione mortuaria, corruzione dei media e della carne. Non a caso McCrea riporta una citazione di Friedrich Kittler, relativa al momento in cui defunti e fantasmi sono usciti dal loro dominio storico, la parola scritta sui libri, per andare a ‘infestare’ altri media: «Once memories and dreams, the dead and ghosts become technically reproducible, readers and writers are no longer in need of the powers of hallucination. Our realm of the dead has withdrawn from books, in which it resided for so long» (Kittler, 1999 [1986]: 34, citato in McCrea, 2009: 222).

E laddove la macchina da scrivere, indicava Kittler, rende meccaniche e materiali le lettere dell’alfabeto, alla “parola dei morti” in Resident Evil viene affidata la funzione di salvataggio, preservazione e memoria dell’attività di gioco, per mezzo di questo oggetto. Similmente, in Silent Hill, il salvataggio avviene tramite penna e bloc–notes, e in altri survival horror ancora a questa funzione sono collegate ulteriori rimediazioni di dispositivi di archiviazione (Kirkland, 2009b: 7).

Altri survival horror giapponesi, che in questi anni costituiscono la componente maggioritaria del genere, presentano anch’essi elementi di rimediazione fantasmatica e memoriale, oltre ai più generali elementi comuni del genere, come la magione infestata (o comunque una presenza architettonica “uncanny”), la limitatezza delle risorse a disposizione, la forma gotica di narrazione tramite lettere e diari, e altri punti sopra citati. Tuttavia questi videogiochi si discostano per diversi altri aspetti da Resident Evil e Silent Hill. La differenza riguarda in primo luogo il retroterra culturale cui questi videogiochi vanno ad attingere.

Videogiochi come Project Zero (Fatal Frame negli Stati Uniti; Tecmo, 2001), il cui titolo originale giapponese è in realtà semplicemente Zero, e rappresenta una sorta di gioco di parole. Il kanji utilizzato per il titolo (零), che significa “zero”, si pronuncia “rei” come il kanji霊 (anima, spirito), presente nel termine giapponese per “fantasma”: yūrei (幽霊). Questo videogioco e Forbidden Siren, innanzi tutto, sono ambientati in Giappone, invece che in fittizie città americane, e presentano protagonisti giapponesi. A parte Siren: Blood Curse (SCE Japan Studio, 2008), remake del primo Forbidden Siren in cui i protagonisti sono quasi tutti occidentali. Compaiono poi con più frequenza i fantasmi, rispetto ad altri mostri, e questi seguono in particolare il canone dei racconti giapponesi sul tema, in larga parte incentrati su giustizia e vendetta (Marak, 2015: 61–62).

Emerge allora, in particolar modo, una specifica tipologia di fantasmi giapponesi (yūrei) che – con poteri ben più forti delle loro controparti occidentali (ibid: 53) – infestano il mondo dei vivi spinti da un profondo rancore (onnen). Questi spiriti, chiamati onryō, sono presenze soprattutto femminili e la loro immagine tipica è divenuta soprattutto quella cinematografica presente in film come Ringu (Hideo Nakata, 1998) e Ju–on (Takashi Shizumi, 2000). Kayako e, soprattutto, Sadako, rispettivamente presenti in Ju–on e Ringu, si collocano in una lunga tradizione di «dead wet girls» con vesti bianche e lunghi capelli neri, che agiscono con fare vendicativo in un’ottica di visione celata (Picard, 2009: 105, ma si rimanda anche ad Arnaud, 2010).

Questa tradizione è ricordata da Martin Picard, come fonte per il survival horror giapponese (ivi), seppur con qualche imprecisione. Picard confonde, per così dire, il genere con la specie, definendo “yūrei” i fantasmi femminili come Sadako e Kayako e identificandoli come una sorta di sottocategoria degli “onryō”, quando è invece il contrario. Yūrei (幽霊) indica genericamente un fantasma, mentre onryō (怨霊) è il fantasma vendicativo (a proposito di onryō e videogiochi si rimanda anche a Toniolo, 2019). Risulta inoltre fuorviante, o perlomeno superflua, la precisazione che Picard aggiunge a proposito della scelta di scrivere “Ring” al posto di “Ringu” per indicare il film del 1998, perché sarebbe il titolo originario e perché il termine “ringu” non esiste in giapponese (Picard, 2009: 105, 13n). Il termine giapponese per “anello” è yubiwa (指輪), ma il romanzo di Kōji Suzuki (1991) da cui è stato poi tratto l’omonimo film utilizza la parola inglese “ring”, che resa tramite katakana si scriveリング, cioè “ringu”, ed è pertanto assolutamente legittimo chiamarlo in questo modo.

Tornando a Project Zero,i fantasmi qui presenti appartengono a varie tipologie, peraltro non tutte ostili, e in alcuni casi il citazionismo o comunque la vicinanza iconica con certe pellicole è piuttosto evidente. Si veda, a titolo d’esempio, la comparazione presente in Picard (2009: 110) fra uno dei fantasmi di Project Zero II: Crimson Butterfly (Tecmo, 2003) e Sadako che emerge da un televisore nel film di Nakata. Al pari di diverse pellicole, inoltre, Project Zero si presenta come un videogioco “tratto da una storia vera”, una strategia volta a stabilire un legame diretto con le diffuse leggende urbane, in questo caso giapponesi (Nitsche, 2009: 202). Gli shibito di Forbidden Siren sono invece creature corporee, ma hanno un aspetto più fantasmatico rispetto ai romeriani zombie di Resident Evil, e anche per movenze e comportamento potrebbero essere accostati a figure come Kayako, per cui anche nel loro caso è comunque possibile tracciare una linea di collegamento.

A proposito di tecnologia e rimediazione è stato già citato il caso di Forbidden Siren, mentre per Project Zero è utile ricordare almeno la camera obscura utilizzata dalle protagoniste come oggetto di esplorazione e strumento di attacco. Si tratta di una fotocamera dal design estremamente datato che consente di interagire con il mondo degli spiriti, e il suo utilizzo è legato all’ambiguità dell’immagine fotografica «as both a document and a manipulation to evoke terror» (Nitsche, 2009: 203).

Si segnala anche, almeno di sfuggita, che iniziano pure a emergere produzioni indipendenti come Corpse–Party (Makoto Kedōin, 1996), realizzato da uno studente usando una delle prime versioni di RPG Maker, che ha ottenuto una certa diffusione nel corso del tempo, compresi dei remake su console e un adattamento manga.

Merita infine, in ambito giapponese, almeno una menzione anche la serie di Clock Tower (Human Entertainment, 1995), definita una «stalker simulation» (Weise, 2009: 242) – etichetta che sarà applicabile a numerosi altri videogiochi degli anni successivi – basata sugli stilemi dei film slasher, scomposti e riorganizzati. Vengono qui tralasciate altre produzioni orientali in quanto i survival horror degli altri paesi, come il coreano Mystic Nights (N–Log Soft, 2005), sono noti più che altro fra i collezionisti per via della loro rarità, e non hanno avuto particolare influenza sull’andamento complessivo del genere.

Ciò che emerge in particolare, da Clock Tower, è una struttura di gioco basata in larga misura sulla parte conclusiva di molti slashers, in cui (per utilizzare i termini di Clover, 1992 che lo stesso Weise, 2009 recupera) la Final Girl vince le proprie paure e fugge dal Killer inseguitore che infesta il Terrible Place in cui è intrappolata. La fuga dagli avversari, che in videogiochi come questi raggiunge un particolare livello di presenza, è un fattore ricorrente nei survival horror, anche quelli in cui è normalmente possibile difendersi, magari perché il protagonista si trova temporaneamente disarmato oppure ha di fronte un avversario immortale (Therrien, 2009: 36–37).

Lovecraft e il survival horror in occidente

La produzione occidentale di survival horror nel periodo considerato ha invece tendenzialmente generato videogiochi isolati che, seppur lodati dal gruppo di appassionati del genere, non hanno avuto lo stesso impatto e risonanza di alcune serie giapponesi coeve. Lovecraft rimane una presenza ricorrente, e i suoi racconti sono talvolta esplicitamente citati – come in Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth (Headfirst Production, 2005) – e talvolta accennati come in Eternal Darkness: Sanity’s Requiem. Lovecraft viene recuperato non solo nei survival horror, ma anche nelle avventure grafiche, considerando che in base a una lista di giochi lovecraftiani del 2010 era emerso che circa la metà di questi titoli erano ascrivibili al genere delle avventure grafiche (Lessard, 2010).

Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth è di particolare interesse perché appare come un prodotto ibrido e rappresenta uno dei casi della nuova direzione che il survival horror ha preso negli anni successivi. Dopo una prima parte puramente investigativa e stealth, infatti, l’approccio al gioco si avvicina molto agli sparatutto in prima persona.

Secondo Tanya Krzywinska questo videogioco «can hardly be described as a first–person shooter» (2009: 279) nonostante la visuale in prima persona, considerando anche il fatto che nella lunga parte iniziale del gioco si è completamente disarmati. Il videogioco, tuttavia, pur non essendo pienamente inseribile in questo genere, non ne è nemmeno totalmente estraneo, in vista delle lunghe sequenze, successive a quel momento iniziale, in cui bisogna affrontare ondate di nemici quasi senza tregua. Questa struttura del videogioco costituisce un ibrido non solo di genere, ma anche di riferimenti, perché va a sovrapporre un approccio molto diretto e muscolare ad alcune delle più famose storie di Lovecraft, come The Shadow Over Innsmouth (1936), i cui protagonisti sono ben lontani dall’essere esperti di armi da fuoco (peraltro tendenzialmente inutili, contro i Grandi Antichi).

Le capacità combattive del protagonista di Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth comportano invece uno squilibrio. Per quanto non siano paragonabili ai rapidissimi stermini dei protagonisti di FPS frenetici come Doom o Serious Sam: The First Encounter, gli scontri a fuoco qui presenti sono comunque molto più dinamici rispetto a quelli degli altri survival horror in cui, complici anche dei controlli farraginosi, bisogna approcciare ogni combattimento con attenzione.

Il citato squilibrio riguarda proprio i rapporti di forza. In un videogioco horror ottimale devono essere presenti diverse debolezze, in numero sufficiente da mettere in pericolo l’avatar del giocatore senza però frustrare quest’ultimo (Rouse, 2009: 23). Se il protagonista è in grado di eliminare con relativa facilità un gran numero di avversari, la sensazione di tensione prodotta dal confrontarsi con una minaccia concreta viene meno. Questo assunto, valido per l’horror nel complesso, dovrebbe risultare ancor più valido in un videogioco legato a Lovecraft, il quale ha incentrato molte sue storie sulla piccolezza e impotenza degli esseri umani dinnanzi alle minacce cosmiche che incombono sul pianeta. Questo sovrapporsi di spinte contrastanti in Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth ha finito per generare un cortocircuito che ha depotenziato il videogioco ed è probabilmente stato uno dei motivi alla base del suo ridotto successo.

Continua nella terza parte.

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